domenica 27 dicembre 2009

V.Vysotsky "Было так.." (романс)

UNA VOCE, UNA STORIA (CLICK)



Chi è Vladimir Vysockij, poeta e attore, cantautore e ubriacone

E' morto trent’anni fa, ignorato dal regime russo. Ma tutti sapevano che avrebbe vinto lui

Nessun giornale sovietico aveva dato la notizia della morte, avvenuta nella notte tra il 24 e il 25 luglio 1980, di Vladimir Vysockij, attore del teatro Taganka, cantautore, noto ubriacone. Era uscita solo una riga, quasi invisibile, su un giornale della sera, Vecernaja Moskva. E anche radio e tv, ovviamente, zitte: il defunto non era un esempio di virtù socialista. Eppure due giorni dopo, in una Mosca resa irreale dalle Olimpiadi (il governo aveva espulso tutti i non residenti, tutti i pendolari, tutti gli “elementi antisociali”), una folla immensa di centomila persone si mise in fila, una fila di nove chilometri, per rendere l’estremo omaggio all’uomo che era entrato nel cuore di un paese intero. Fu la più grande manifestazione spontanea di tutta la storia dell’Urss. Ancora oggi, a ormai trent’anni da quel giorno, il fenomeno Vysockij continua a destare curiosità e passioni senza precedenti, di cui sono segno tangibile la sterminata bibliografia, le molte trasmissioni televisive a lui dedicate, le rivelazioni giornalistiche, le testimonianze di chi lo ha conosciuto e quei fiori sempre freschi che adornano la sua tomba al cimitero Vagankovskoe. Lo stesso Vladimir Putin, il 25 luglio del 2005, venticinquesimo anniversario della morte, ha voluto commemorarlo personalmente. E il 26 gennaio 2008, settantesimo della nascita, caso più unico che raro, Pervyj Kanal, la rete più popolare della televisione russa, gli ha dedicato la programmazione dell’intera giornata, dalle prime ore del mattino fino a notte inoltrata.

Alla fama fuori dal comune di cui Vysockij ha goduto e gode in patria (ma anche in Francia, negli Stati Uniti, in Germania, dove l’emigrazione intellettuale sovietica è stata fenomeno assai importante) ha sempre corrisposto, in Italia, un interesse piuttosto distratto (una delle poche eccezioni il premio Luigi Tenco nel 1993). Il quotidiano che diede il maggior rilievo alla notizia della sua scomparsa fu Paese Sera, il quale però titolò: “E’ morto il marito dell’attrice Marina Vlady”. Ora a questa disattenzione viene a rimediare un bel volume, molto ben documentato, “L’anima di una cattiva compagnia”, pubblicato dalla casa editrice I libri di Emil. Gli autori sono Elena Buvina, che insegna lingua russa all’Università di Genova, e Mario Alessandro Curletto, professore di letteratura russa all’Università di Pavia. Sono più di 400 pagine che raccontano le gesta epiche di Vysockij, dai timidi inizi nel teatro e nel cinema fino all’entrata, ancora vivo, nella leggenda e fino alla morte precoce (42 anni) che ne ha suggellato il mito. Il tutto intervallato dai testi (una quarantina) delle sue canzoni più famose.

E’ come cantautore, infatti, che Vysockij divenne l’artista più popolare nell’Urss degli anni Sessanta e Settanta. Aveva cominciato componendo, e accompagnando con la chitarra, canzoni della mala, sentimentali e spavalde. Quel suo tono aspro suonava improvvisamente dissonante e autentico rispetto alla retorica mielosa della canzone ufficiale sovietica. La forma era quella della ballata e raccontava, in prima persona, le storie di personaggi problematici, con qualche pregio e soprattutto con molti difetti. “Davo voce – dirà più tardi – allo pseudoromanticismo e ai turbamenti d’animo degli inquieti ragazzi dei cortili di Mosca”. Un critico molto acuto come Andrej Sinjavskij, che di Vysockij fu insegnante di letteratura russa, considerava quelle prime canzoni come il momento più alto dell’arte del suo allievo e si rammaricava del fatto che, a un certo punto, egli avesse cambiato genere. In realtà, quella tipica intonazione malavitosa non verrà mai meno nel corso della sua carriera. Ma col passare degli anni le sue moltissime canzoni (pare che fossero più di mille) finirono per comporre un universo poetico sempre più vasto, in cui ogni aspetto della vita sovietica veniva rappresentato: il lavoro, l’amicizia, l’amore, i ricordi di guerra, le bevute in compagnia, la passione per la natura, le prepotenze. Sempre però con il timbro di uno spirito indipendente, simpatetico col mondo dei più sfortunati, autore di gesti di ribellione minimi, appena percettibili, eppure così stridenti nell’atmosfera del conformismo generale. Non era il primo ad accompagnarsi con la chitarra. Suoi predecessori erano stati Bulat Okudjava e Aleksandr Galich, i caposcuola della canzone d’autore degli anni Sessanta: il primo aveva una vena lirica intimista che accompagnava con una voce calda e avvolgente, il secondo si era orientato presto verso la canzone di protesta politica ed era stato costretto all’esilio. Ma Vysockij, grazie anche a un innato candore, andava dritto al cuore della gente.

Dietro l’estrema semplicità delle parole e delle situazioni c’era però, da parte di Vysockij, un sapiente lavoro sulla lingua che lo ricollegava alla tradizione letteraria. Lui si sentiva particolarmente vicino, nella poetica e nella vita, a un altro grande “teppista” delle lettere russe, quel Sergej Esenin che a trent’anni, nel 1925, si era suicidato nell’Hotel d’Angleterre a San Pietroburgo. Più che canzoni in senso stretto, infatti, i suoi erano versi accompagnati dalla chitarra. Un giorno, a New York, Josif Brodskij, che non era mai prodigo di complimenti ai colleghi, gli dedicò un suo libro con le parole: “Al miglior poeta della Russia, dentro e fuori dai suoi confini”. E in un’altra occasione aggiunse: “In certo modo mi dava perfino fastidio che si accompagnasse con la chitarra. Perché il testo in sé era assolutamente straordinario”. Chitarra a parte (tra l’altro gli piaceva suonarla leggermente scordata), ingrediente fondamentale del magnetismo che Vysockij esercitava sul pubblico era la sua voce: rauca, da alcolista e fumatore accanito, graffiante, con le erre arrotate, e poi aggressiva come una sferzata. Ed è grazie a quella voce (e a una presenza scenica sempre un poco sopra le righe) che i suoi concerti rimanevano, per chi vi assisteva in religioso silenzio, esperienze indimenticabili.

Ora, si fa presto a dire concerti.
In realtà, di concerti a teatro, con tutti i crismi dell’ufficialità, Visockij in patria ne tenne ben pochi. E, se è per questo, anche all’estero i problemi non mancavano. Un giorno a Parigi, al culmine della notorietà, così dovette deludere i suoi fan: “Qui non posso cantare perché non ho ricevuto un invito ufficiale attraverso il Goskoncert. Da noi c’è un altro sistema: siamo degli impiegati statali. Il mio impiego è in teatro, sono un attore. E se vogliono invitarmi a cantare in un altro stato devono farlo ufficialmente”. E in Urss era lo stesso, solo molto più complicato. Fin dagli inizi della carriera, Visockij fu oggetto di violente campagne di stampa che lo indicavano come un pessimo esempio per la gioventù. Con tali credenziali, concerti veri e propri poté farne davvero pochi. La sua celebrità dovette seguire altre strade, prima tra tutte quella del “samizdat” musicale. Se il collettivo di lavoro di una qualche fabbrica lo invitava a cantare, tutti si presentavano muniti di registratore e nel giro di poche settimane quelle cassette passavano di mano in mano e facevano il giro dell’Urss.

In una lettera indirizzata a uno dei segretari del comitato centrale del Pcus, nella quale si lamentava delle angherie che il regime gli riservava, Vysockij si lascia scappare questa battuta: “Lei probabilmente sa che nel paese è più facile trovare un registratore sul quale risuonino le mie canzoni piuttosto che uno dove non ce ne siano”.
Non era un’esagerazione. Uno degli aspetti più sorprendenti della fama di Vysockij è che non conosceva eccezioni. Per una irripetibile alchimia di circostanze, il bardo della Taganka è riuscito, caso anche questo più unico che raro, a realizzare la plurisecolare aspirazione dell’intellighenzja russa: andare al popolo, stabilire un rapporto di fiducia con tutte le componenti della nazione. Conoscevano a memoria le sue canzoni non solo i giovani dallo spleen facile ma anche gente che faticava tutto il giorno e senza grilli per la testa: lo amavano e lo rispettavano gli intellettuali, i militari, gli operai, i detenuti, i cacciatori di orsi siberiani, i poliziotti, e perfino, sia pure di nascosto, gli agenti del Kgb che dovevano mettergli i bastoni tra le ruote. Ovunque andasse, era accolto come un eroe. In ogni ambiente, senza eccezione, era “uno dei nostri”. Tra i luoghi comuni sulla cultura sovietica uno dei più duri a morire è quello che rappresenta l’epoca brezneviana come un universo unico, grigio e ortodosso, cui si contrapponevano solo le sparute voci libere dei “dissidenti”, prontamente messi a tacere. E’ vero, l’ufficialità era plumbea e senza il visto del censore nulla poteva essere reso pubblico. Ma tra l’ufficialità e l’aperta dissidenza politica (che comprendeva anche far uscire scritti all’estero senza autorizzazione) si estendeva il vastissimo territorio della comunicazione autogestita oppure del linguaggio esopico, nel quale i sovietici erano diventati maestri.

Vysockij, pur senza essere mai un perseguitato, non era certo nelle grazie del regime: la televisione di Stato non trasmise mai un solo secondo delle sue canzoni e i pochi funzionari che ci provarono caddero rapidamente in disgrazia; i rari brani registrati dalla casa discografica Medodja erano accuratamente scelti dai censori e in genere si limitavano ai temi della guerra; riuscire a far accettare Vysockij come attore dalla burocrazia cinematografica era sempre un’impresa improba (ma uno dei film da lui interpretato, “Il luogo dell’appuntamento non si può cambiare”, in cui era un commissario di polizia, un duro alla Jean Gabin, divenne subito, grazie a lui, popolarissimo).

Detto questo, Vysockij non fu mai un “dissidente”, non ruppe mai con il governo del suo paese che pur lo sopportava a fatica. Non era un ambasciatore della cultura sovietica, ma neppure un “martire del comunismo”. Questo forse spiega la scarsa risonanza che ebbe la sua opera all’estero nel clima della guerra fredda. E a tale proposito è rimasta celebre un’intervista televisiva per la Cbs (1977) rilasciata a New York a Dan Rather (che lo aveva definito il “Bob Dylan sovietico”), nella quale abilmente dovette schivare tutte le domande che tendevano a presentarlo come un avversario del regime: “Amo il mio paese – concluse – e non voglio danneggiarlo”. Ma questo basso profilo politico forse spiega anche la sua enorme popolarità in patria, dove l’influenza dei dissidenti non era mai riuscita ad andare oltre la cerchia dell’intellighenzja. Semplificando un po’, si potrebbe dire che Vysockij, culturalmente, era un figlio del disgelo chrusceviano. Alcune sue prese di posizione politiche suonavano addirittura ortodosse: un giorno, rispondendo al questionario di un suo giovane ammiratore, indicò tra le figure storiche che lo disgustavano “Hitler e insieme con lui anche Mao”.

E poi compose una canzone: “Lettera degli operai di una fabbrica di Tambov ai dirigenti cinesi”, violenta contro il Grande Timoniere. Su questa base di “umanesimo socialista” si era poi innestata la sua invenzione poetica, al centro della quale era l’individuo, il povero e semplice individuo riottoso, che non piega la testa né di fronte alle grandi né alle piccole angherie. E, al di sopra di tutto, una grande impressione di sincerità: “Ciò che ho scritto come poeta, come compositore – disse una volta – non è mai stato pubblicato, o quasi mai, per cui non ho bisogno di autocensurarmi”. Poi, naturalmente, c’era il personaggio, che in nulla poteva corrispondere ai modelli sociali approvati. Lasciamo stare l’alcol, da cui divenne subito dipendente al punto da presentarsi non poche volte sul palcoscenico della Taganka ubriaco fradicio: in Russia è sempre stato un “vizio” accettato. Ma c’era lo spirito di indipendenza, e poi quella moglie francese (sia pure iscritta al Pcf), e gli atteggiamenti da macho, e il sesso, e la passione per le auto straniere (era l’unico a Mosca a possedere una Mercedes), e infine, negli ultimi anni, la droga. Come un simile personaggio abbia potuto muoversi relativamente in libertà nel chiuso mondo sovietico si spiega con un altro piccolo “miracolo” di quei tempi.

A Mosca nel 1964 Jurij Ljubimov, grazie a qualche appoggio nelle sfere più liberali del regime, era diventato regista del teatro Taganka e lo aveva trasformato nel tempio dell’anticonformismo culturale. Vysockij, nel ruolo di attore, fu uno dei suoi acquisti. Il collettivo della Taganka fu subito circondato da una mitica aura di bohème. La coraggiosa scelta del repertorio, l’originalità delle soluzioni registiche di Ljubimov “avrebbero (come scrive lo slavista Gian Piero Piretto nel suo bel libro ‘Il radioso avvenire’, Einaudi 2001) emozionato, commosso, entusiasmato, stupefatto l’Unione Sovietica”, almeno fin tanto che gli attacchi del potere non lo costrinsero all’emigrazione, “privandolo del più prezioso dei collaboratori: il pubblico sovietico”.


“I suoi spettacoli lontano da Mosca – aggiunge infatti Piretto senza quel pubblico in sala, senza quella tensione continua e costante, senza la percezione dei censori in agguato, senza la vibrazione emotiva, sincera e silenziosa che di sera in sera si ripeteva nel piccolo teatro moscovita, avrebbero perso molto del loro fascino”. Era la vecchia idea di Igor Stravinskij: l’arte, più è controllata, più è vera. Di quel teatro, per quindici anni, Vysockij fu la punta di diamante. Riviste oggi, certe sue interpretazioni possono fare sorridere, come quando, da Amleto, entrava in scena con la chitarra a tracolla o quando, in “Pugacëv”, veniva trascinato al supplizio coperto di catene e sembrava che volesse spezzarle con il torace nudo. Ma l’ansia di libertà che emanava da ognuno di questi piccoli dettagli, che spesso risultavano da estenuanti trattive con il censore di turno, attirava un pubblico che sempre usciva dallo spettacolo come se avesse preso parte a un evento unico, da non dimenticare. Ricordo una serata dei primi anni Novanta, nella cucina piena di fumo del mio amico filosofo Jurij Senokosov. Si discuteva, come sempre, dei massimi sistemi. A un certo punto se ne uscì, molto seriamente, con questa frase: “Nel cuore della gente il regime comunista è stato distrutto, più che da Solzenicyn, da Vladimir Vysockij”.

di Massimo Boffa

sabato 26 dicembre 2009

LA PARABOLA DEL TIRATORE DI PIETRE

In quel tempo, l'uomo del colle si avviò verso il monte dell' Ulivo, tra la valle della Quercia e il sentiero della Margherita. Ma all’alba si recò di nuovo al duomo e tutto il popolo andava da lui ed egli li salutava.
Così vide un uomo che era osannato assai, ma un passante colpì quello con un cavalletto, e poi un'altro lo colpì con una statuetta del duomo stesso, gridando "Mu...mu..muò...muori!".
E allora i soldati del re lo fermarono, ma l'assalitore tartagliò
"So...so..sono...pe...sono pe..."
"Sei Peppe ? " gli chiesero
"Sono pe... sono pentito!"
"Lasciatelo andare" disse l'uomo che era stato colpito, con grande magnanimità, ed essi lo lasciarono andare, e quello, appena svoltato l'angolo si fregò le mani, esclamando
"Ave... ave..."
"Ave anche a te, buon uomo" risposero al suo saluto quelli che gli erano vicini
"Macché ave, volé...volé...volevo dire...avete vi... avete visto come l'ho colpì...l'ho colpito bene ? Ah, come so...come sono bra...bra...bravo!"

Intanto, l'uomo che era stato colpito sanguinava ancora, e l'uomo del colle, preoccupato per tanta violenza, esclamò saggiamente:
"Nessuno di voi scagli più una pietra, se non è senza peccato !"
Ma in quel momento apparve un uomo dagli occhi di bragia, più spalancati di quelli di Ficarra, e strattonando con forza all'uomo del colle per la tunica, gli urlò
"Ma che c'azzecca ? Quest'uomo è il diavolo, e se tu lo teneressi stretto stretto, io lo colpissi con queste pietre, non troppo grandi né troppo piccole, per farlo soffrire di più !"

Parola di Shelburn.

venerdì 25 dicembre 2009

BUON NATALE CON IL PAPA


sabato 19 dicembre 2009

sabato 12 dicembre 2009

TUTTO DA LEGGERE (click)

Qui si troveranno degli scritti tutti da leggere e che non conviene perdere.
Li potrete anche scaricare gratuitamente.

lunedì 7 dicembre 2009

Su LA SINDONE

"Le iscrizioni sulla Sindone? Una testimonianza credibile"

La Sindone di Torino, il lenzuolo che secondo la tradizione avvolse il corpo di Gesù nel sepolcro, porta impresse delle scritte che risalgono «inconfutabilmente al I secolo» e che rappresenterebbero una sorta di «certificato di sepoltura». Lo sostiene Barbara Frale, studiosa dell’Archivio Segreto Vaticano, autrice di La sindone di Gesù Nazareno (il Mulino). Scoperte e interpretazioni che hanno prevedibilmente suscitato notevoli polemiche. Il Giornale ne ha parlato con Franco Cardini, storico del medioevo.
Si avvicina l’ostensione della Sindone, le recenti scoperte portano nuovi elementi in favore della sua autenticità e puntuali arrivano le polemiche...
«Credo che la sua fama dipenda sia dal fatto che si tratta di un documento storico notevolissimo (vero o falso che sia), sul quale si sono esercitati tutti i più moderni metodi sperimentali di ricerca, e sia, ohimè, dall’interesse che essa ha esercitato in ambienti esoterico-occultisti, anche a causa dell’attenzione che gli hanno dedicato certe pubblicazioni divulgative di successo, tipo Martin Mystère».
Barbara Frale ha pubblicato un libro in cui si sostiene che negli «anni bui» - trascorsi fra la scomparsa dell’immagine venerata a Edessa e poi a Costantinopoli, identificata con la Sindone, e il suo riapparire in Francia - il telo sia stato custodito dai Templari. Che cosa ne pensa?
«Frale è una studiosa seria e documentata, alla quale dobbiamo alcuni bei lavori sui Templari. Le sue ipotesi, che non mi risulta essa abbia mai inteso imporre come vere e proprie tesi, mi sembrano degne di considerazione. Certo, bisognerà lavorare alla loro verifica: e non è detto che tale verifica sia possibile. Di per sé, quanto Frale rileva non è né inverosimile, né impossibile. Che accenda le fantasie e provochi le polemiche, è vero: ma è un altro discorso».
Come si spiega, da storico, l’enorme interesse che i Templari suscitano e l’abnorme quantità di libri, saggi, romanzi a loro dedicati?
«È una lunga storia avviata fin dal Trecento, ma divenuta un’autentica mania a partire dal XVIII secolo, in coincidenza con l’inizio della rielaborazione in chiave cavalleresca delle tradizioni massoniche. Da allora si diffuse la complessa e perfino divertente mitologia dei Templari eredi dei segreti del costruttore del Tempio di Salomone, il fenicio Hiram. Il seguito lo conosciamo, attraverso un’infinita paccottiglia e la costruzione di certi falsi documenti che hanno condotto alcuni sconsiderati ad affermare che i Templari conoscessero il segreto della “verità” su Gesù, rimasticazione di vecchie tesi fondate sulla lettura di Vangeli apocrifi, e persino che avrebbero scoperto l’America quattro secoli prima di Colombo. Fantasie divertenti, se non fossero all’origine di una lunga serie di maniacali elaborazioni pseudostoriche e pseudoreligiose e anche di autentiche truffe».
Torniamo alla Sindone. Frale ha lavorato su alcune scritte impresse sul telo e che potrebbero essere un «cartiglio di sepoltura». Non crede che ci sia il rischio di vedere nella Sindone anche ciò che non c’è?
«Il rischio esiste, eccome. Ma le scritte individuate sono a quel che pare una realtà obiettiva: non si possono ignorare, il che vuol dire che bisogna cercar d’interpretarle. Gesù di Nazaret fu giustiziato in quanto potenziale agitatore politico-religioso: che l’autorità romana ne traesse in qualche modo registrazione utile per testimonianze giuridico-amministrative non è tramandato da nessuno, ma non mi sembra impossibile».
Il nuovo libro della Frale è stato aspramente criticato da Luciano Canfora...
«Canfora si è chiesto se a Gerusalemme esistessero becchini, e magari ufficiali di polizia mortuaria. La domanda, formulata con legittimo scetticismo, comporta il dubbio che, in mancanza di sicure testimonianze che escludano quell’eventualità, becchini e funzionari addetti alla polizia mortuaria, specie in rapporto con le pubbliche esecuzioni, potessero anche esistere. Rovescio la domanda e la rispedisco al mittente: siamo certi che a Gerusalemme o altrove, in quel tempo, non esistesse nulla di simile?».
Certe prese di distanza sembrano chiudere il dibattito senza confrontarsi con i dati in discussione. Che ne pensa?
«Non è il caso di Canfora, che è sempre ispirato a una grande onestà intellettuale ed è sempre pronto ad ascoltare gli altri. Non tutti si comportano allo stesso modo. Alludo anche al caso che ha avuto come protagonista Ariel Toaff e il suo libro Pasque di sangue, o ai molti casi che oggi riguardano i cosiddetti “revisionisti” o “negazionisti”. Sono convinto che si debba consentire a chiunque di esprimere su qualunque cosa un giudizio, specie se accompagnato da ragionamenti plausibili e da indizi seri, senza invocare la promulgazione di leggi liberticide che pretendano di stabilire la verità storica a colpi di codice penale».
Lei è stato definito da Alexander Del Valle un intellettuale organico all’asse Rosso-Bruno-Verde, che avrebbe come obiettivo combattere gli Usa e Israele. Come si sente a essere paragonato ai terroristi rossi e a quelli islamici?
«Mi sento obiettivamente oggetto di malevole e disinformate calunnie, ma sono ben lungi da farne una tragedia. È vero che sono un bastian contrario, che sono sempre incuriosito dalle ragioni degli altri, e che questo mi spinge talvolta a difendere cause difficili o cause perse. Un mio amico ebreo sostiene che io ho “l’istinto del salmone”: che debbo risalire sempre le correnti. Molte mie posizioni, specie recenti - sull’11 settembre, sulle guerre in Irak e in Afghanistan - sono state da me rigorosamente documentate: ho scritto al riguardo almeno cinque libri e molti saggi e articoli, si può consultare il sito www.francocardini.net. Dal momento che si trattava di posizioni chiare, escludo che tipi come Del Valle siano in buona fede o sappiano far correttamente il mestiere che pretendono di fare, cioè il giornalista o peggio ancora lo studioso: basterebbe un esame dei miei scritti per rendersi conto che non sono né antiamericano, né antisionista, pur riservandomi il diritto di discutere scelte dei governi statunitensi o israeliani come di qualunque altro».

martedì 1 dicembre 2009

TERREMOTO. GLI ANIMALI CI AVVERTONO (click)




Scritto da Giovanni Fronte
martedì 01 dicembre 2009
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Migrazione di rospi prima di un terremoto
Terremoti, eruzioni vulcaniche, maremoti, burrasche magnetiche, tuoni, ecc. sono fenomeni naturali che generano “infrasuoni”, ossia onde sonore con frequenza al di sotto della soglia inferiore (16 hertz) di udibilità dell’orecchio umano; sono onde lente e lunghissime e, come tali, quasi inarrestabili e senza barriere. E’ noto che gli animali, grazie ad organi di senso più affinati dei nostri, sono in grado di percepire onde infrasoniche che si propagano attraverso il terreno e "sentono", prima di noi, l'evento naturale che avanza. Il "suono sismico", oltremodo potente e cupo, li inquieta non poco e li mette in stato di agitazione e di paura che essi, con i loro suoni naturali, trasmettono poi agli altri animali per avvertirli che qualcosa di anomalo sta succedendo nel loro territorio. Questo spiegherebbe il fenomeno di "preveggenza" ad essi attribuito forse ingiustamente. Qualcuno infatti ipotizza che dagli animali venga avvertita l'influenza di onde elettromagnetiche piuttosto che infrasoniche. in stato di agitazione e di paura che essi,ualcuno infatti ipotizza che dagli animali venga avvertita l'influenza di onde elettromagnetiche piuttosto che infrasoniche. "suono sismico", oltremodo potente e cupo, li inquieta non poco e li con i loro suoni naturali, trasmettono poi agli altri animali per avvertirli che qualcosa di anomalo sta succedendo nel loro territorio.

Se così fosse, comunque da accertare, l’approssimarsi di detti eventi potrebbe essere dedotto da un loro comportamento insolito ed ansioso. Alcuni di loro infatti mostrano evidenti segni di nervosismo anche con un anticipo di parecchi giorni rispetto al verificarsi dell’evento. Questi segnali, se tempestivamente e correttamente interpretati dall’uomo, potrebbero essere utili come preallarme per salvare la vita a migliaia di persone.

Testimonianze sul comportamento anomalo degli animali, prima di un terremoto, non sono una leggenda priva di fondamento: i ricercatori hanno, infatti, osservato reazioni riconducibili alla percezione e alla produzione di infrasuoni ed ultrasuoni in molte specie animali. Va comunque precisato che alcuni animali sono in grado di percepire gli infrasuoni ed altri invece gli “ultrasuoni” che sono vibrazioni sonore con frequenza oltre la soglia superiore di udibilità umana (c.20 kHz), o entrambi, anche se con differente sensibilità.

Fra gli animali che percepiscono gli infrasuoni ci sono: le balene, gli elefanti, gli ippopotami, i rinoceronti, le giraffe, gli alligatori, tanto per citarne alcuni fra i più noti. Tutti gli animali, il cui apparato acustico è in grado di percepire ed emettere infrasuoni, captano anche le vibrazioni prodotte da altri animali e le interpretano come un segno della presenza di branchi nelle vicinanze. Per l’istinto di conservazione poi reagiscono di fronte a quello che reputano essere un "pericolo generico" e quindi non necessariamente un terremoto. Non sono cioè in grado di distinguere una anomalia causata da un sisma intenso da quelle prodotte artificialmente dalle moltissime attività umane.

Fra gli animali che invece percepiscono gli ultrasuoni ci sono: i cani, i delfini e le balene che li usano per comunicare tra loro, i pipistrelli che li usano per “vedere” gli ostacoli mentre volano di notte, ecc. e i gatti che hanno una maggiore sensibilità per gli ultrasuoni e una minore per gli infrasuoni.

Gli storici scrivono che nel 373 a.C. gli animali, compresi ratti, serpenti, furetti, ecc., abbandonarono la città greca di Alicia qualche giorno prima che un terremoto la devastasse. Da allora, i racconti di simili avvenimenti su animali che percepiscono in anticipo l’arrivo dei terremoti si ripetono nella storia. Il nervosismo degli animali, in queste particolari circostanze, è stato anche segnalato in TV dal Prof. Giorgio Celli, etologo e grande conoscitore degli animali.

Il continuo susseguirsi di eventi sismici (c. 500.000 terremoti all’anno in tutto il mondo) che frequentemente scuotono in modo più o meno severo la Terra, stimola gli studiosi a ricercare il motivo di un insolito e strano comportamento degli animali per dedurre se in esso c’è la probabilità di associarlo ad una possibile premonizione sismica. Preavviso che consentirebbe di organizzare tempestivamente e più efficacemente tutti i provvedimenti atti a minimizzare, per quanto possibile, i danni materiali e soprattutto quelli in vite umane. Una tale corrispondenza è stata osservata ed esiste, ma la deduzione di una previsione certa resta tuttora impossibile in quanto mancano gli strumenti atti ad interpretare univocamente il comportamento animale.

I sismologi americani però sono scettici. Anche se ci sono stati casi documentati di strani comportamenti animali prima dei terremoti, la USGS (U.S. Geological Survey), ente governativo che fornisce informazioni scientifiche sulla Terra, dichiara che un collegamento specifico e “riproducibile” tra l’insolito comportamento degli animali ed un terremoto non è mai stato fatto. Gli animali reagiscono a molti stimoli: alla fame, alla difesa del loro territorio, al desiderio sessuale, ai predatori, ecc. per cui diventa complicato realizzare uno studio controllato per ottenere quel segnale d’allarme anticipato. «Ciò che abbiamo non è altro che un sacco di aneddoti» afferma Andy Michael, un geofisico dell’USGS. Negli anni ’70 l’USGS ha svolto alcuni studi sulla previsione basata sugli animali, «ma non è venuto fuori nulla di concreto» conclude Michael. Da allora l’ente non ha svolto ulteriori indagini su quella teoria. Tuttavia i ricercatori sparsi nel mondo continuano a perseguire l’idea.

Ci sono però molti casi, documentati, in cui gli animali hanno dato prove di premonizione.
Uno dei paesi più colpiti dai terremoti è la Cina, dove le devastazioni hanno causato la morte di innumerevoli vite ed hanno provocato seri danneggiamenti materiali.
Ecco cosa è capitato in una provincia della Cina occidentale, poco prima che giungesse il disastroso terremoto del Maggio 2008: migliaia e migliaia di rospi, come in fuga, invadono le strade di Mianyang, sita a poca distanza dall’epicentro – le zebre di uno zoo che cominciano a sbattere la testa contro la porta della gabbia – elefanti, tigri, leoni, pavoni e serpenti che si muovono dai loro covi, anche nel freddo dell'inverno, giungendo persino ad uccidersi per cercare una via di fuga e, naturalmente, non mancano le polemiche sul perchè le autorità cinesi non abbiano tenuto conto di questi segni premonitori per prendere delle misure.

A Nanning, una delle zone più soggette a terremoti ed una delle 12 città cinesi controllate da apparecchiature ad alta tecnologia, un team di scienziati ha sviluppato un nuovo metodo per predire i terremoti servendosi di serpenti i quali, fra tutte le creature esistenti sulla Terra, sembra siano i più sensibili ai terremoti ed in grado di percepire anzitempo, con anticipo fino a cinque giorni, l'arrivo di un evento sismico. In un Paese così vasto, sottoposto in maniera rilevante alle scosse sismiche, la scoperta è senz'altro di grosso interesse.

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Dall’esame del comportamento di questi rettili è stata rilevata la loro capacità di percepire un tremito da 120 km di distanza ed oltre. Quando un terremoto è in arrivo, dicono gli scienziati, i serpenti si muovono dai loro nidi, anche nel freddo dell'inverno e se il sisma è di elevata entità arrivano persino a fracassarsi contro le pareti rocciose cercando una via di fuga. Con l’installazione di telecamere nei loro nidi si sono avuti dei miglioramenti nella capacità di prevedere i terremoti; tant'è che il sistema è stato esteso anche in altre parti del Paese per avere delle previsioni più precise sull’incombente terremoto.

Nel 1975 gli Ufficiali Cinesi ordinarono l’evacuazione di Heicheng, sita nella regione del Liaoning (Cina). Nel febbraio del 1975 avvenne il terremoto di magnitudo 7,3 Richter che viene citato come il primo terremoto realmente previsto. Si stima che l'allarme abbia salvato la vita di circa 150.000 persone; ne morirono solo (si fa per dire) oltre un migliaio. Secondo la versione iniziale delle autorità cinesi, la decisione di evacuare la regione fu presa dopo l'osservazione, da parte dei sismologi, di alcuni segnali ritenuti premonitori di scosse sismiche e cioè: spostamento degli equilibri della falda idrica, deformazioni geodetiche e comportamenti anomali di gatti ed altri animali domestici nei giorni precedenti la scossa. Soltanto una piccola parte della popolazione rimase danneggiata o uccisa. Se la città non fosse stata evacuata, si valuta che il numero di morti e infortuni avrebbe potuto superare i 150.000.

Nella tragedia e nella devastazione provocata dall'ormai famoso “tsunami” che colpì lo Shri-Lanka, c'è una curiosità che ha attratto l'interesse dei ricercatori. Il racconto di alcuni guardia-parco e l'osservazione delle persone impegnate nell'aiuto delle popolazioni indigene e dei turisti, ha escluso danni alla fauna selvatica. «Vediamo elefanti, antilopi e grossi felini, all'interno del parco», raccontavano i rangers, «ma non vediamo alcuna carcassa. Evidentemente gli animali hanno sentito il terremoto prima dell'uomo e si sono messi in salvo ritirandosi sulle colline».

Com’è noto, Istanbul è “in attesa” (come San Francisco) del suo big one che dovrebbe distruggere la città. Scienziati e studiosi stanno cercando di capire esattamente dove e quando questo terremoto, previsto di magnitudo 7,0 Richter, si verificherà. Un tale Kadir Sutcu, non esperto in materia, sostiene che egli è in grado di prevedere quando si verificherà un terremoto osservando le irregolarità di comportamento delle due colonie di formiche che egli tiene in casa. Il successo delle sue previsioni, con tale metodo, sarebbe confermato dal fatto di avere salvato migliaia di persone dopo averle avvertite, via e-mail, dell’imminente pericolo. Egli ha osservato che le formiche si muovono con grande difficoltà e cominciano a morire 24 ore prima del terremoto ed invita a iscriversi nella sua “mailing list “ in caso di bisogno.

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In effetti, egli ha previsto in tempo una scossa verificatasi nel giugno del 2008 e da allora gestisce una mailing list attraverso la quale vogliono essere avvisate con un congruo anticipo. Ha anche un sito internet, però solo in turco, per cui si omette il link. attraverso la quale avverte le persone che all’occorrenzaall’occorrenza vogliono essere avvisate con un congruo anticipo. Ha anche un sito internet, però solo in turco, per cui si omette il link.

Le segnalazioni dei proprietari di animali domestici descrivono gatti e cani che si comportano in maniera del tutto insolita prima di un terremoto: che abbaiano o gemono per nessun motivo apparente o mostrano segni di nervosismo o irrequietezza.

La proprietaria di un cane racconta che il giorno precedente del terremoto del Friuli del Maggio 1976, il suo cane si scavò una grande buca dove si rifugiò per tutta la notte precedente il terremoto fino al dopo terremoto del giorno successivo, nonostante tutti i tentativi di farlo uscire. La gatta, invece, scappò al mattino e ritornò in casa solo dopo 3 giorni. Si racconta anche di cavalli e vitelli che non vollero rientrare nelle loro stalle e di cani e gatti che fecero di tutto per abbandonare le abitazioni dei loro padroni, distrutte poi dall'arrivo del sisma.
Altre testimonianze arrivano dal Giappone dove prima di alcuni forti terremoti aumentò la pescosità di fiumi e laghi e dove, in pieno inverno, si videro vermi e serpenti fuoriuscire dalle tane per poi morire dal freddo precedendo di poco l'arrivo di una scossa.

In un pollaio, in una notte quieta, si sentono inspiegabilmente starnazzare galline, estemporanei chicchirichì e coccodè che precorrono un successivo grosso sussulto del terreno.

Oscar Grazioli (veterinario, scrittore e collaboratore del quotidiano Libero) scrive in un articolo: «Alcuni animali hanno i sensi più sviluppati dei nostri. I cani, per esempio, quando sta per arrivare un terremoto, si agitano e cominciano ad abbaiare. Un altro esempio potrebbe essere quello dei cavalli; anch'essi, infatti, si agitano prima di un evento naturale», e conclude «Se vedessi il cane ululare e cercare di uscire d'improvviso una notte, un giro fuori a fumare una sigaretta lo farei volentieri»!