venerdì 23 gennaio 2009

ANCORA CRONACHE DA HERAT(click)


CIMIC DI MOTTA PROTAGONISTA IN AFGHANISTAN

Consegnate le chiavi della città di Herat
CITTADINANZA 055 mod.jpg

Motta di Livenza - Continua la missione dei soldati del CIMIC Group South di Motta di Livenza in territorio afghano.

E continuano i riconoscimenti al lavoro che i soldati italiani svolgono a favore della popolazione della provincia di Herat, sede del Provincial Reconstruction Team a guida italiana.

«Spero che un giorno i vostri figli possano venire ad Herat a vedere in prima persona quanto è stato fatto dai propri padri. Ringrazio l’Italia ed il suo Popolo che manda i propri cari in questa terra lontana per aiutarci – il PRT e gli uomini che premio oggi in rappresentanza di tutto il Contingente italiano sono entrati nel cuore del mio popolo per l’umiltà e la passione sempre mostrate nello svolgimento del proprio delicato lavoro».

Con queste parole il Sindaco di Herat, Sua Eccellenza Mr. Alhaj Mohammad Mojaddadi con una simbolica cerimonia ha consegnato le chiavi della città di Herat, al Colonnello Luca Covelli (nella foto), Comandante dell’ 8° rgt. alpini della Brigata Julia ed attuale Comandante del PRT ed al personale del CIMIC ( Cooperazione Civile Militare) di Motta di Livenza, guidato dal Capitano Mirko Radi.

Non e’ la prima volta che cio’ avviene. Lo stesso Sindaco infatti aveva consegnato il 23 agosto dello scorso anno la cittadinanza onoraria anche ai militari che hanno preceduto quelli che al momento si trovano in Afghanistan.

Questo a conferma che l’approccio dei nostri uomini alla situazione ed il loro impegno costante consentono di ottenere risultati lusinghieri e di offrire quella continuita’ necessaria ad un processo di stabilizzazione che assicuri un futuro migliore alle popolazioni locali.

lunedì 19 gennaio 2009

I BAMBINI.

Da pagina 37 di PANORAMA del 17 gennaio 2009, l'editoriale di Giuliano Ferrara "Con la scusa dei bambini":

Non odio i nemici ma penso che sia vile fingere che non esistano e non combatterli. Amo i bambini, perfino quel miliardo di bambini che stava per nascere e non fu accolto in società negli ultimi 30 anni, ma penso che sia vile esibire i loro cadaveri come trofei di buona coscienza. Quella di Gaza non è la guerra sporca dei bambini morti ammazzati, il disastro umanitario di un Israele spietato, Gaza non è Grozny, la capitale della rivolta cecena, quella non è una guerra coloniale in ritardo di mezzo secolo, non è nemmeno la battaglia di Algeri fra una vecchia potenza d’oltremare e un movimento nazionale di liberazione, Gaza non è un campo di concentramento (come dice il cardinale), Gaza è la fortezza terrorista di cui si è impadronita Hamas.

Hamas, come Hezbollah e come il potere mandatario prenucleare di Teheran, è votato allo sterminio degli ebrei. I capi di Hamas, di Hezbollah e di Teheran negano Israele, negano gli ebrei, negano perfino gli ebrei morti nei campi di concentramento, quelli veri. È su questa base che hanno impostato non solo il loro statuto, la loro dichiarazione di principi, ma tutta la loro vita associata, non soltanto quella del braccio militare incaricato di lanciare razzi sulla popolazione civile innocente del sud di Israele. È questo odio assassino che insegnano nelle loro scuole, è questa la loro scuola quadri, questa la loro propaganda, queste le idee di martirio, di testimonianza per la morte, alle quali cercano di legare il loro popolo fin dall’infanzia.

Ma gli ebrei che Hamas vuole liquidare non sono soltanto gli ebrei, il popolo dell’Antico Testamento. Gli ebrei che il nemico vuole uccidere siamo noi stessi, la nostra radice, l’Occidente mescolato con le più diverse etnie, la democrazia, le libertà civili, l’emancipazione delle ragazze e delle donne, la fede che storicamente l’Islam vuole sottomettere e anche il rischio della secolarizzazione, della libertà religiosa, insomma della miscredenza non tollerata dal Corano.

Invece di prendere atto tragicamente di questa realtà profonda, di pesarla nella sua drammatica eco religiosa, di misurarla per quel che è oltre ogni edulcorazione, e di legare a essa il giudizio sulle cose che effettivamente accadono, comprese le guerre per espugnare la fortezza terrorista e piegare chi la usa come rampa di lancio contro la popolazione ebraica; invece di affannarsi intorno alla nuova verità del Medio Oriente combattente, molti politici e intellettuali italiani preferiscono lavarsene le mani e usare vecchie categorie politiche della storia del movimento anticoloniale. Per colpire Israele come simbolo di potenza, di ricchezza, di tecnologia, di arroganza imperialista ci si risolve a cancellare Hamas, a snaturarlo, a descriverlo come un gruppo militante per l’indipendenza nazionale, come una filiera di resistenti all’oppressione e all’occupazione. E magari le cose stessero davvero così, prima o poi questa guerra infinita imboccherebbe la strada di un negoziato razionale e registrerebbe i mutamenti occorsi in tutto il mondo, dove se non sbaglio la colonizzazione è finita da un pezzo.

Ma non è così. Hamas, Hezbollah e Teheran sono la grande e tragica novità della fine del Novecento, sono l’emergenza di una nuova frattura a sfondo religioso, una frattura tra mondi incomponibili alla frontiera dei quali sta il piccolo stato degli ebrei, una frattura che l’11 settembre avrebbe dovuto rendere evidente per tutti.

venerdì 16 gennaio 2009

ALTRO SOLDATO ITALIANO CHE CI ONORA (click)


Consegnate ad un militare pescarese le chiavi della città di Herat
HERAT. Da Alessandro Magno a Pescara. Le chiavi della città di Herat, Afghanistan, sono state consegnate al Contingente italiano, lì presente in missione di pace.

E di questo contingente fa parte il capitano Vittorio Visini, di Pescara, che è anche ingegnere e che è uno degli ufficiali che ha maggiormente lavorato con i suoi progetti per il benessere della popolazione.
Si tratta di una delle onorificenze più importanti, che la storia ricorda fu assegnata anche ad Alessandro Magno.
Dunque una buona notizia, oggi, da Herat, una notizia che fa onore al contingente italiano ed ai soldati abruzzesi inviati in Afghanistan.
Nei giorni scorsi il sindaco della città ha consegnato le chiavi della città al Comandante Colonnello Luca Covelli.
Il Sindaco di Herat, Mr. Alhaj Mohammad Mojaddadi, ha consegnato la chiave della città di Herat al Comandante del PRT, Colonnello Luca Covelli.
«Il primo cittadino afghano», si legge in una nota dell’Esercito, «ha evidenziato la qualità e la continuità con cui il PRT ha ricostruito nell’ambito delle opere infrastrutturali e dei servizi sociali, contribuendo in modo concreto al miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti dell’antica città di Herat».
Il sindaco ha aggiunto: «spero che un giorno i vostri figli possano venire ad Herat a vedere quanto è stato fatto dai propri padri. Ringrazio l’Italia ed il suo Popolo che manda i propri cari in questa terra lontana per aiutarci. Gli uomini che sono qui oggi in rappresentanza di tutto il Contingente italiano sono entrati nel cuore del mio popolo per l’umiltà e la passione sempre mostrate nello svolgimento del proprio delicato lavoro».
Raggiunto telefonicamente, il capitano ingegnere ha confermato la notizia, sottolineando che il lavoro e quindi il premio è di tutto il contingente.
Il papà e la mamma, molto conosciuti a Pescara, hanno commentato con molto orgoglio questo premio al lavoro del figlio Vittorio.
«Sono preoccupata per mio figlio che è lontano», ha detto la mamma, «ma sono molto, ma molto onorata di sapere che lavora per il bene degli altri».

Sebastiano Calella 16/01/2009 18.31

DE LA GUERRA ISRAELE-PALESTINA

GRAZIE MARIA!

Giro quanto ricevuto su altro gruppo e faccio notare chi posta queste cose: mi devo compiacere

Maria

--- Ven 16/1/09, Istituto Culturale della Comunita' Islamica Italiana ha scritto:

Da: Istituto Culturale della Comunita' Islamica Italiana
Oggetto: [NeoLiberali] Lettera aperta di risposta all'antisemita Morgantini
A: luisa.morgantini@europarl.europa.eu
Data: Venerdì 16 gennaio 2009, 14:54


Dio mio, in che mondo terribile viviamo, in un mondo in cui la Vice
Presidenza del Parlamento Europeo è affidata a un'isterica e attempata
fiancheggiatrice del terrorismo palestinese, ad una nazicomunista
antisemita che - non paga di essere andata a braccetto con criminali
stragisti come Yasser Arafat e Marwan Barghouti, ogni continua la sua
campagna d'odio anti-israeliano a favore dei terroristi di Hamas, e si
illude di poter fermare quella campagna antiterrorismo con cui Israele
sta difendendo non solo se stessa, ma anche l'Europa, l'Occidente, i
Musulmani anti-integralisti e gli arabi amanti della pace e nemici delle
dittature e dei fondamentalismi!

Ma a gente come la Morgantini almeno un briciolo di vergogna è rimasta?
Si rendono conto di quanto sangue innocente granda dai loro deliranti
messaggi antisemiti? Come fanno a convivere con un peso del genere sulla
coscienza? Come fanno a non sputarsi in faccia quando si guardano allo
specchio?

Non saranno certo i vomitevoli messaggi d'odio di gentaglia del genere a
fermare la lotta d'Israele per la pace e la democrazia, contro il
terrorismo stragista di Hamas. A sistemare Hamas, l'esercito israeliano
basta e avanza. A ridare dignità alle Istituzioni europee vilipese da
rappresentanti tanto indegni, basta e avanza il popolo italiano, che con
l'arma democratica del voto presto farà sparire dal Parlamento Europeo
quel Partito della Rifondazione Antisemita Comunista che grazie ad Allah
è già scomparso dal Parlamento italiano. Almeno, se vorranno continuare
ad istigare l'odio contro Israele, la Morgantini e compari dovranno
farlo a spese loro, o a spese dei loro amichetti terroristi, non più a
spese dell'ignaro contribuente europeo! Grazie ad Allah, la coscienza
morale e civile degli Italiani ha già scelto di stare comunque con
Israele; a fiancheggiare il terrorismo di Hamas sono restati quattro
gatti di teppisti dei centri sociali, assieme ai vetero-comunisti
rifondini e del PDCI e ai no-fascisti di Fiore e di Storace, sempre più
simili fra loro, sempre più amici dei peggiori dittatori, sempre più
solidali coi terroristi di tutte le risme, sempre più uniti nell'odio
anti-ebraico ed anti-americano, unica loro residua ideologia comune.

Per qusto diciamo oggi: forza Israele: vinci per tutti noi! Giustizia
uno dopo l'altro i criminali di Hamas che riesci a identificare e fa
diventare verdi dalla rabbia i loro ignobili fiancheggiatori.


Abu Ibrahim Kalim
Webmaster
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Istituto Culturale della Comunità Islamica Italiana
http://www.amislam.com
mailto:islam.inst@alice.it

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LETTERA APERTA AI POLITICI ITALIANI

da parte di

Luisa Morgantini

Vice Presidente del Parlamento Europeo


Non una parola, non un pensiero, non un segno di dolore per le centinaia
di persone uccise, donne, bambini, anziani e militanti di Hamas, anche
loro persone. Case sventrate, palazzi interi, ministeri, scuole,
farmacie, posti di polizia. Ma dove è finita la nostra umanità. Dove
sono i Veltroni, con i loro “I care”, come si può tacere o difendere la
politica di aggressione israeliana

La popolazione di Gaza e della Cisgiordania, i palestinesi tutti, pagano
il prezzo dell’incapacità della Comunità Internazionale di far
rispettare ad Israele la legalità internazionale e di cessare la sua
politicale coloniale.

Certo Hamas con il lancio dei razzi impaurisce ed è una minaccia contro
la popolazione civile israeliana, azioni illegali, da condannare.
Bisogna fermarli.

Ma basta con l’ impunità di Israele e dei ricatti dei loro gruppi dirigenti.

Dal 1967 Israele occupa militarmente i territori palestinesi, una
occupazione brutale e coloniale. Furto di terra, demolizione di case,
check point dove i palestinesi vengono trattati con disprezzo,
picchiati, umiliati, colonie che crescono a dismisura portando via
terra, acqua, distruggendo coltivazioni. Migliaia di prigionieri
politici, ai quali sono impedite anche le visite dei familiari.

Ma voi dirigenti politici, avete mai visto la disperazione di un
contadino palestinese che si abbraccia al suo albero di olivo mentre un
buldozzer glielo porta via e dei soldati che lo pestano con il fucile
per farglielo lasciare, o una donna che partorisce dietro un masso e il
marito taglia il cordone ombelicale con un sasso perché soldati
israeliani al check point non gli permettono di passare per andare all’
ospedale, o Um Kamel, cacciata dalla sua casa, acquistata con sacrifici
perché fanatici ebrei non sopravissuti all’olocausto ma arrivati da
Brooklin, pensando che quella terra e quindi quella casa sia loro per
diritto divino, sono entrati di forza e l’hanno occupata perché vogliono
costruire in quel quartiere arabo di Gerusalemme un'altra colonia
ebraica. Avete mai visto i bambini dei villaggi circostanti Tuwani a sud
di Hebron che per andare a scuola devono camminare più di un ora e mezza
perché nella strada diretta dal loro villaggio alla scuola si trova un
insediamento e i coloni picchiano ed aggrediscono i bambini, oppure i
pastori di Tuwani che trovano le loro tanche d’acqua o le loro pecore
avvelenate da fanatici coloni, o la città di Hebron ridotta a fantasma
perché nel centro storico difesi da più di mille soldati 400 coloni
hanno cacciato migliaia di palestinesi, costringendo a chiudere più di
870 negozi.

Avete visto il muro che taglia strade e quartieri che toglie terre ai
villaggi che divide palestinesi da

Palestinesi, che annette territorio fertile e acqua ad Israele, un muro
considerato illegale dalla Corte Internazionale di giustizia. Avete
visto al valico di Eretz i malati di cancro rimandati indietro per
questioni di sicureza, negli ultimi 19 mesi sono 283 le persone morte
per mancanze di cure, avrebbero dovuto essere ricoverate negli ospedali
all’estero, ma non sono stati fatti passare malgrado medici israeliani
del gruppo Phisician for Human rights garantissero per loro. Avete
sentito il freddo che penetra nelle ossa nelle notte gelide di Gaza
perché non c’è riscaldamento, non c’è luce, o i bambini nati prematuri
nell’ospedale di Shifa con i loro corpicini che vogliono vivere e
bastano trenta minuti senza elettricità perché muoiano.

Avete visto la paura e il terrore negli occhi dei bambini, i loro corpi
spezzati. Certo anche quelli dei bambini di Sderot, la loro paura non è
diversa, e anche i razzi uccidono ma almeno loro hanno dei rifugi dove
andare e per fortuna non hanno mai visto palazzi sventrati o decine di
cadaveri intorno a loro o aerei che li bombardano a tappeto. Basta un
morto per dire no, ma anche le proporzioni contano dal 2002 ad oggi per
lanci di razzi di estremisti palestinesi sono state uccise 20 persone.
Troppe, ma a Gaza nello stesso tempo sono stati distrutte migliaia e
migliaia di case ed uccise più di tre mila persone tra loro centinaia di
bambini che non tiravano razzi.

Dopo le manifestazioni di Milano dove sono state bruciate bandiere
israeliane, voi dirigenti politici avete tutti manifestato indignazione,
avete urlato la vostra condanna. Ne avete tutto il diritto. Io non
brucio bandiere né israeliane né di altri paesi e penso che Israele
abbia il diritto di esistere come uno Stato normale, uno stato per i
suoi cittadini, con le frontiere del 1967, molto più ampie di quelle
della partizione della Palestina decisa dalla Nazioni Unite del 1947.

Avrei però voluto sentire la vostra indignazione e la vostra umanità e
sentirvi urlare il dolore per tante morti e tanta distruzione, per tanta
arroganza, per tanta disumanità, per tanta violazione del diritto
internazionale e umanitario. Avrei voluto sentirvi dire ai governanti
israeliani: Cessate il fuoco, cessate l’assedio a Gaza, fermate la
costruzione delle colonie in Cisgiordania, finitela con l’ occupazione
militare, rispettate e applicate le risoluzioni delle Nazioni Unite,
questo è il modo per togliere ogni spazio ai fondamentalismi e alle
minaccie contro Israele.

Ieri lo dicevano migliaia di israeliani a Tel Aviv, ci rifiutamo di
essere nemici, basta con l’occupazione.

Dio mio in che mondo terribile viviamo.

mercoledì 14 gennaio 2009

QUESTO RIGUARDA LADY IDV (click)

Susanna, tutti gli intrighi di Lady Idv
di Paola Setti

Milano - Se dietro a un grande uomo si nasconde sempre una grande donna, il gioco di parole qui è facile quanto azzeccato: c’è una donna di pietra dietro ad Antonio Di Pietro.
Susanna Mazzoleni però, tanto nascosta non è. Avrebbe preferito restarlo, i giornalisti che si occuparono di Mani pulite ancora ricordano la testata che diede a uno di loro, reo di averla seguita lungo la strada che porta alla sua villetta di Curno. E mica era un giorno qualunque, quel giorno del dicembre 1994 Susanna e Tonino convolavano a nozze dopo sette anni di convivenza e due figli. Tant’è, a ogni passo che Di Pietro fa, subito dietro spunta lei, in un inossidabile intreccio che dalla famiglia porta al partito e viceversa.
Non ha incarichi politici nell’Italia dei valori, Susanna, eppure. Tanto per citare l’ultimo episodio inquietante, il giallo del bianchetto rivelato ieri da questo giornale e al vaglio della procura di Brescia, è dal fax intestato a «Mazzoleni» che proviene la lettera di assunzione di Silvana Mura assegnandole 3mila euro. Copia esatta, fuorché nella cifra, di un’altra lettera, questa proveniente da Idv, che fissava il compenso in 36mila euro. Il sito web del partito è registrato a lei. Lei è una dei tre soci, con Tonino e la Mura, dell’associazione creata a fianco del movimento politico per la gestione finanziaria, era il 26 luglio 2004 e guarda caso il giorno dopo sarebbero arrivati milioni di rimborsi elettorali.

Ed è sempre Mazzoleni Susanna il nome che si legge sugli atti di compravendita delle ben quattro case in una manciata di chilometri fra Bergamo e Curno, uno shopping immobiliare da oltre un milione di euro che, ipotesi rimborsi elettorali a parte, non si capisce da dove siano piovuti. Fondamentale, Susanna. Quando sul tavolo dei magistrati di Curno arrivò un esposto anonimo contro l’ormai noto rudere pagato poche lire e trasformato in villetta dalla famiglia Di Pietro, l’assessore Roberto Arnoldi poté intervenire così, in zelante difesa: «Il dottor Di Pietro non risulta tra gli interessati alla concessione, né legato da vincoli di parentela», era il 22 maggio 1985 e Tonino non l’aveva ancora sposata, Susanna.

Ma allora chi è, Susanna Mazzoleni? «Non un agnellino» dicono a Curno. «Una iena» dice invece chi ha lavorato nel suo studio legale di Bergamo, l’ultimo dei giovani che hanno tentato di farsi assumere ha retto tre giorni, «prendevo 20 euro al giorno senza contratto, mi cacciò dandomi del rimbambito per uno sgabuzzino in disordine» racconta F.F. È figlia d’arte, Susanna, classe 1952. Suo padre è l’avvocato Arbace Mazzoleni di Bergamo, socialista vecchio stampo che, durante le inchieste del genero sul Psi, stracciò la tessera indignato. Uno studio legale e una cattedra all’Università Bicocca di Milano. Susanna non ha mai fatto politica, ma a entrare nelle istituzioni ci ha provato, con un maldestro tentativo che il sindaco di Bergamo Roberto Bruni definì «pasticcio imbarazzante».

Era il luglio 2004, c’era la giunta da formare e nell’Idv scoppiò una guerra fratricida per la poltrona di assessore al Commercio. Da una parte il coordinatore provinciale Goffredo Cassader, indicato dagli organismi provinciali, dall’altra lei, Susanna che, sponsorizzata dal coordinatore regionale Giorgio Calò, era pronta a soffiargli il posto. «Un sopruso bello e buono, le scelte imposte dall’alto sono inaccettabili» denunciò Cassader prima di sbattere la porta del partito. Alla fine, fra i due litiganti il sindaco scelse un terzo, con Di Pietro a recriminare: «Non è colpa di Susanna se è mia moglie». Del resto, nella Dynasty dipietrista sono i valori familiari, che contano. Quelli che alle ultime elezioni hanno portato alla Camera il cognato di Susanna, Gabriele Cimadoro, ma anche Ivan Rota, cognato di Cimadoro. E che hanno procurato un posto di tesoriera regionale nell’Idv lombardo anche alla prima moglie, Isabella Ferrara la mamma di Cristiano e persino un ruolo nello stesso coordinamento Idv al suo nuovo compagno, Armando Guaiana.


Tornando a Susanna, il sodalizio con Tonino non si è mai rotto, nonostante una burrascosa separazione nel 2002. Furono gli anni di Mani pulite a cementarlo. Lei che in difesa della privacy di famiglia sbatteva la cornetta in faccia ai cronisti: «Stronzi». Lei che, chiamata dal Tribunale di Brescia a testimoniare nel 1996 al processo contro Cesare Previti e Paolo Berlusconi sulle dimissioni dell’ex pm, disse che no, lei non lo sapeva perché il marito avesse lasciato, mai letto un giornale mai visto un tg mai parlato con lui delle inchieste, «ne ero gelosa, mi portavano via il marito e il padre dei miei figli», insomma si erano imposti il silenzio, anche dopo, sulla politica, «per una scelta di sopravvivenza», ed ebbe un bell’affannarsi l’incredulo presidente Francesco Maddalo: possibile che non ne abbiate parlato?

Solo l’anno prima, Susanna era stata chiamata in causa in un altro procedimento, per aver collaborato con l’azienda di costruzioni Edilgest di quell’Antonio D’Adamo più volte inquisito per corruzione a Milano e che risultava intestatario di un telefono cellulare in uso a Di Pietro. Lui si difese così: «In realtà il telefono era in uso a mia moglie». Insostituibile, Susanna.

LA QUESTIONE CONTINUA SU IL GIORNALE(click)

Sette nuove domande per Antonio Di Pietro

di Mario Giordano

Sette risposte che fanno acqua
Tutti gli intrighi di Lady Idv
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aiuto

Caro Di Pietro, mi spiace deluderla un’altra volta, ma la questione non è chiusa. Non per noi, almeno. Lo so che lei ci sperava: non ha risparmiato parole su parole per cercare di mettere una pesante pietra sopra la vicenda. In effetti, però, l’unica cosa che le è riuscita è la pesantezza: le confesso che siamo arrivati alla fine del suo scritto con grande sforzo. Ma sfruttandoabbondantidosidi caffèabbiamo compiuto l’impresa di rimanere ben svegli. E proprio per questo il suo profluvio di frasi non ci ha convinti nemmeno un po’.

Si capisce: lei pensava di farla franca con così poco. Anzi, con così tanto. Molti avranno fatto fatica a decrittare la sua prolissa prosa da cancelleria fino all’ultima riga. Molti avranno desistito dall’impresa di leggere quel saggio di filosofia tonina pesante come il suo trattore ma assai meno digeribile. E ci viene il sospetto che lei abbia voluto approfittare proprio di queste umane debolezze: «Ho qui le mie carte. E vi spiego tutto», dice nel titolo. E se poinonspiega nulla, chi se neaccorge? Metàdegli aspiranti lettori saranno probabilmente svenuti alla quindicesima riga. Gli altri, meno votati di noi al martirio, al massimosono arrivati alla diciottesima.

La ringraziamo per la gentilezza di nonaver voluto ammorbare con tale quantità di noia i nostri lettori. Ma, per la verità, il suo giochino di rispondere alle nostre domande dalle colonne di Libero, ci pare un poco stucchevole. Il triangolo non c’è mai piaciuto, non dico in camera da letto, ma nemmeno nei libri di geometria. Si figuri sulle pagine di un giornale. Per carità: il quotidiano di Vittorio Feltri, e degli Angelucci, fa un’opera meritoria rilanciando i nostri dubbi e accogliendo con santa pazienza le sue verbose risposte. Gliene siamo grati. Ma, ecco, ci sembra un sistema un po’ macchinoso, oltre che cafone. Se Di Pietro non riesce a trovare il nostro indirizzo, non si preoccupi: mandiamounfattorinoaritirare il suo papiro.

Le risposte che ha dato, per altro, come dicevamo, ci convincono poco. Imotivi li spiegano i nostri Gian Marco Chiocci e Massimo Malpica. In particolare sulla vicenda Mautone, quella centrale, quella per cui Di Pietro è stato convocato dalla Procura a Napoli (altro che andarci spontaneamente come scrive, fra una frottola e un’omissione, su Libero), si contraddice come un bambino beccato a rubarela marmellata. Dice testualmente: «Nessuno mi ha mai detto che Mautone era sotto inchiesta a Napoli». Perfetto: e allora perché il 3 dicembre diceva all’Ansa «Trasferii Mautone a Roma non appena ebbi avvisaglie dell’inchiesta»? Insomma: di quell’inchiesta era informato oppure no? Ora dice di no, ma il 4 dicembre sosteneva di averlo letto sulle agenzie, che, per altro, al tempo del trasferimento di Mautone, nonne avevano mai dato notizia. Contraddizioni su contraddizioni: sarà per questo che la Dia parla, a proposito di lei, caro Tonino, di «pesanti sospetti» e di «fuga di notizie»?

Gli altri dubbi sulle sue risposte all’amatriciana, caro Di Pietro, le trova qui accanto. Sevorrà essere più esaustivo, gliene saremo grati: la chiarezza, purtroppo, nonsi misura sul numero delle battute. E dunque, per non diventare logorroici quanto lei, ci affrettiamo a porle altre sette domande che si aggiungono ai dubbi già esistenti. Abbia pazienza, ma finché non saremo convinti nelle risposte, non considereremo chiusa la vicenda. E siamo sicuri che lei, che è solito vantarsi della sua cocciutaggine contadina, saprà apprezzare la nostra determinazione.


1) I conti (correnti) non tornano. La prima delle nostre nuove domande riguarda l’aspetto bancario. Nelsuosbrodo-lamentolei parla sempre di contributi elettorali versati su due conti correnti: uno presso la Banca San Paolo di Napoli ag.1 di Montecitorio e uno presso il Credito Bergamasco di Bergamo. Noi abbiamo scoperto, e oggi diamo conto, di un terzo conto sulla Bnl di Roma su cui la tesoriera Mura chiede di versare i rimborsi elettorali per le europee del 2004. Ora è vero, come direbbe lei, che non c’è due senza tre: ma perché lei non ne ha mai fatto cenno? Lo nasconde? E che cosa c’è su quel conto?

2) Dai conti alle contesse. La seconda domanda riguarda l’eredità Borletti. Lei dichiara di aver utilizzato parte di quei soldi (3,5 miliardi di lire donati nel ’95 dalla contessa Maria Vittoria) per incrementare il suo patrimonio immobiliare. Benissimo, fortunato lei. Ma quella donazione era destinata a usi privati o politici? È vero o no che la contessa disse di essere felice perché quei soldi avrebbero contribuito, come ricorda Italia Oggi, «alla nascita di un centro» capace di «offrire al cittadino più indifeso un’assistenza legale sia effettiva che preventiva»? È vero o no che l’onorevole Prodi, che prese assieme a lei altri 3,5 miliardidellamedesimadonazione Borletti, girò quei soldi al Movimento per l’Ulivo? Dunque si trattava di soldi destinati all’attività pubblica? E che c’entrano le sue case allora? E se non erano soldi destinati all’attività pubblica perché il 15 settembre 1998, lei caro Di Pietro,nehadenunciato una parte alla Camera, come previsto dalla legge sul finanziamento pubblico dei partiti?

3) Minimum fax. Ieri abbiamo pubblicato due documenti, entrambi firmati da lei: sono identici in tutto, tranne una cifra che cambia. Si tratta della cifra di una consulenza alla tesoriera Silvana Mura. La Procura di Brescia vuol vederci chiaro: uno dei due fax evidentemente è falso. Ci può spiegare cosa è successo? Da sbiancato a sbianchettato: come può accadere, secondo lei, che le cifre della contabilità di un partito cambino con tanta facilità su un documento ufficiale?

4)Polpa e Suko. Risulta dalla nostra inchiesta che lei possiede il 50 per cento della società immobiliare bulgara Suko. Per carità: proprietà legittima. Ma perché nondiceunaparolasudiessa nelle sue chilometriche risposte? E com’è possibile che un paladino della trasparenza, come è lei, non senta il dovere di chiarire fino in fondo che cos’è la misteriosa Suko?

5) Gettoni d’oro. Quando lei è diventato ministro delle Infrastrutture ha creato costosissime supercommissioni perc ontrollare le assegnazioni degli appalti pubblici. Queste super commissioni sono state inzeppate di suoi uomini di fiducia. Davvero lei, paladino della lotta agli sprechi, pensa che sia giusto moltiplicare commissioni e gettoni? Ha fatto quella scelta per far risparmiare lo Stato? O aveva altri scopi?

6) Pezze ’e core. Si capisce: i figli sono pezze ’e core. Ma lei, caro Tonino,cheèsemprestato inflessibilecontutti, perché è così comprensivo con il suo Cristiano? Perché gli va bene che quest’ultimo si sia dimesso dal partito e non chiede la dimissione da consigliere provinciale? Avrebbe usato lo stesso metro salva-poltrone con altre persone nella stessa situazione?
7) Paranoici e criminali. Per aver osato porle alcune domande siamo stati definiti prima «paranoici» sul sito Internet ufficiale del suo partito, e poi «criminali». Addirittura lei ci ha accusato di essere un’«associazione per delinquere». Ora io non parlo il molisano, ma non riesco a capire una cosa: perché se Feltri pone le nostre stesse domande si tratta di un atto di cortesia, cui lei risponde con profluvio di borotalco e salamelecchi, e se invece le poniamo noi diventiamo «criminali»? Ho l’impressione che lei stia perdendo un po’ di lucidità, caro Tonino. Ma non si preoccupi: l’abbiamo aiutata a cambiare lo statuto dell’Idv, l’abbiamo aiutata a moralizzare un po’ il partito, come lei stesso ha riconosciuto. L’aiuteremo anche a ritrovare la memoria che finora, in mezzo a troppe parole, le è mancata. Per cominciare provi a rispondere a queste sette domande e alle sette obiezioniallesuerisposte: sevorrà disturbare ancora Feltri, faccia pure, per carità. Se vuol evitare il minuetto, sappia che noi siamo disposti a pubblicare tutte le sue spiegazioni. Soprattutto se saranno un po’ meno alla camomilla bonomelli. E magari un po’ più convincenti.

DA LIBERO SU DI PIETRO (click)

Vittorio Feltri
Pubblicato il giorno: 08/01/09

LETTERA A DI PIETRO

Caro Di Pietro,

è arrivato il momento anche per lei di dire la verità. Ormai non è più un pubblico ministero obbligato soltanto ad attenersi ai codici; è un politico di lungo corso e come tale non può nascondersi dietro a un dito, dicendo che così fan tutti, che non si è preso un euro illegalmente, che il partito è suo ed è giusto sia amministrato - anche a livello finanziario - nell’ambito della sua famiglia, marito e moglie davanti a un fiasco di vino.

So che ci sono in ballo cause intentate da suoi ex collaboratori e ex iscritti all’Italia dei valori, e non desidero entrare nel merito di beghe tribunalizie. Ci mancherebbe. Non sono né magistrato né avvocato né poliziotto e neppure vigile urbano e non pretendo spiegazioni in punta di diritto. Non è questo il problema. Qui siamo di fronte ad anomalie che meritano una giustificazione politica.

Lei, a torto o a ragione, dopo essere stato il giustiziere della notte della Repubblica - mi riferisco a Tangentopoli e conseguenze -, si è trasferito armi e bagagli sull’altra sponda, quella delle autorità elettive, e anche in questo campo non ha rinunciato al ruolo del moralizzatore e del moralista. Una scelta legittima finché si vuole ma che implica il dovere, per chi l’ha fatta con slancio e convinzione, di essere almeno coerente.

In parole terra terra: chi predica bene non può permettersi il lusso di razzolare male e di lamentarsi se poi qualcuno lo spernacchia rumorosamente. Questo qualcuno è il Giornale che attraverso il lavoro, a mio giudizio eccellente, di Gian Marco Chiocci e di altri validi cronisti e commentatori, ha portato in evidenza una serie di stranezze del suo operato, alle quali lei ha risposto secondo il suo stile: ricorrendo alle querele. Il che (...)

(...) rientra nelle facoltà riservate a ogni cittadino. Ma lei non è un cittadino comune, bensì un leader protagonista della vita italiana, un rappresentante del popolo e al popolo deve rendere conto, oltre al giudice. E non solo alla gente che ha votato Idv, ma a tutti.

È di dominio pubblico che suo figlio - stando a quanto si è appreso - non ha commesso reati, e che nonostante ciò si è dimesso dal partito. Ha fatto una buona cosa. Però non ha risolto l’aspetto politico delle sue telefonate malandrine per raccomandare amici e conoscenti.

L’Italia dei valori si identifica in lei, e lei è un noto moralista. Come si concilia la sbandierata vocazione per la correttezza con quanto accaduto in casa sua? Questo è niente. Come si concilia piuttosto una specchiata virtù con finanziamenti pubblici all’Idv (milioni di euro) maneggiati in tinello da lei e consorte in ciabatte?

Non dico che la disinvoltura amministrativa sconfini nell’illecito penale, non spetta a me simile valutazione. Mi limito a segnalarle che un patrimonio del genere impone una gestione collegiale, chiara e controllata in modo che su Cesare e compagna non gravi il sospetto di eccessiva scaltrezza.

La politica è già tanto criticata e, per quel che mi riguarda, non è mai criticata abbastanza. Ma lei, che fa le pulci a tutti, che spara accuse di corruzione come fossero complimenti galanti, non si sente in imbarazzo a condurre la cassa del suo partito come fosse quella di una latteria? Non si sente in imbarazzo a tenere i soldi nel bancone in cui nessuna mano può accedere tranne la sua e quella della signora?

Andiamo, non finga di non capire il senso di questa mia lettera. È stato scritto che lei si è comprato una decina di appartamenti. Beato lei, d’accordo. Però faccia lo sforzo di raccontare serenamente con quale abilità è riuscito a combinare tanti buoni affari. Abbia un pizzico di comprensione per la curiosità dei cronisti che è la stessa curiosità dei lettori. Dia loro soddisfazione. Saranno contenti di apprendere i segreti di una così spiccata propensione per il settore immobiliare, nel quale di solito gli inesperti ci lasciano le penne e non solo quelle.

Infine, la sollecito a darci prova della sua trasparenza e affidare i milioni del finanziamento a un collegio di “ragionieri” eletti nel suo partito. La smetta di toccare pacchi di banconote. Puzzano. Non è un esercizio igienicamente apprezzabile.

Non ho altro da domandarle. Per adesso.

L’ex pm: vi spiego tutte le cifre
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| Prima Pagina | Antonio Di Pietro
Pubblicato il giorno: 09/01/09

L’ex pm: vi spiego tutte le cifre

Caro direttore,

eccomi. Ieri Lei dalle pagine di Libero mi ha chiesto due spiegazioni e mi ha dato un consiglio. Cominciamo dal consiglio che era il seguente: «La sollecito a darci prova della sua trasparenza e affidare i milioni del finanziamento ad un collegio di ragionieri eletti nel suo partito». Mi pare proprio un buon consiglio, la ringrazio e mi attivo immediatamente. Ho oggi stesso disposto la modifica dello Statuto che ora prevede che tutte le finanze del partito e tutti i contributi elettorali (sia futuri che pregressi beninteso) siano gestiti non più dai soci originari che hanno dato vita al partito ma dall’intero Ufficio di Presidenza dell’Italia dei Valori che è composto da 7 persone, individuate non nominativamente ma – pro tempore - per il loro ruolo, la loro funzione e la loro elezione: il Presidente del partito, il Capogruppo alla Camera, il Capogruppo al Senato, il Portavoce nazionale del partito, il Tesoriere, (...)

(...) un rappresentante degli eletti nelle Regioni (da loro nominato) ed un esperto contabile nominato dall’Ufficio di Presidenza stessa (su proposta dell’Esecutivo nazionale di Idv che è il massimo organo assembleare del partito). Provi a visionare gli Statuti degli altri partiti e vedrà che tutti hanno adottato – specie all’inizio della propria attività - misure di cautela per evitare l’assalto alla diligenza (come peraltro “Libero” ne ha dato atto proprio ieri, informandoci delle beghe interne fra Margherita e Ds per la suddivisione dei rispettivi fondi e beni). Ho già preso appuntamento per domani da un notaio di Bergamo (che conosce pure Lei) per la relativa stesura notarile. Appena sottoscritto Le invierò in anteprima copia del nuovo Statuto di Idv: se ha qualche ulteriore consiglio da darci le sarei davvero grato e provvederò di conseguenza.
Le due domande

E veniamo, caro direttore, alle due domande che mi ha posto e che possono essere così riassunte: come sono stati gestiti i contributi ricevuti finora da Italia dei Valori e come “è la storia dei 10 appartamenti” che avrei acquistato. Rispondo subito, inviandole a parte la relativa documentazione per le verifiche che riterrà opportune effettuare.

Idv non riceve finanziamenti da imprenditori o sponsor che sia (da noi non troverà i Romeo di turno). Riceviamo invece – come tutti gli altri partiti che hanno rappresentanza parlamentare - i finanziamenti pubblici previsti dalla legge. Sono tanti. Per noi e per gli altri (ed infatti nella scorsa finanziaria abbiamo chiesto inutilmente al Parlamento di dirottarli a favore degli ammortizzatori sociali). Essi vengono introitati da Idv tutti ed esclusivamente sui 2 conti correnti della tesoreria dell’Italia dei Valori (che sono il c/c n.ro 10633 aperto presso la Banca S.Paolo di Napoli – ag. 1 Montecitorio ed il c/c n.ro 29695 presso il Credito Bergamasco di Bergamo) e da questa utilizzati solo ed esclusivamente per esigenze del partito e della sua azione politica (come, da ultimo è avvenuto per la raccolta delle firme per promuovere il referendum contro il Lodo Alfano). Inoltre riceviamo le quote di partecipazione dai nostri iscritti, dai nostri parlamentari e dai nostri eletti e amministratori. Infine riceviamo gli interessi attivi del denaro che rimane parcheggiato in banca fino al suo utilizzo. Più in concreto finora abbiamo incassato - dal giorno in cui ci siamo presentati alle elezioni la prima volta nel 2001 e fino a tutto il 2007 – contributi pubblici per 19.908.596 euro (come da distinta allegata alla presente), a cui si devono aggiungere ulteriori 761.909,00 euro a titolo di interessi attivi e per contributi dagli aderenti ed eletti del partito. Di converso, abbiamo speso a tutto il 2007 Euro 16.233.853 (come da copia dei bilanci che pure allego alla presente). Il nostro partito, quindi, non solo non ha debiti ma è in attivo di euro 4.436.652, somma che trovasi depositata presso le due banche predette, sempre, solo ed esclusivamente su conti di Idv, come può rilevarsi dai relativi estratti conto.

Per l’anno 2008 appena trascorso, la stesura del bilancio è in corso (per noi come per qualsiasi altro partito o ente o azienda) e verrà pure esso reso pubblico nelle forme e nei tempi previsti dalla legge. Come noto, infatti, tutti i bilanci del partiti devono essere regolarmente pubblicati in giornali a tiratura nazionali. Quelli di Idv, peraltro, sono sempre stati (e lo sono ancora) visionabili alla voce “Bilanci e Finanze” sul sito del partito italiadeivalori.it. Comunque – e ad ogni buon conto - glie ne invio copia (specificandole fin d’ora che quest’anno chiederò di pubblicare proprio su Libero il bilancio 2008, come previsto per legge, se Lei me lo permetterà).

Specifico che i bilanci annuali dell’Italia dei Valori sono sempre stati tutti regolarmente approvati dall’Organo di controllo del Parlamento, come rilevasi esemplificativamente dalle attestazioni del Presidente della Camera dei Deputati per gli anni 2001-2002-2003-2004-2005-2006-2007 che le invio a parte.

Specifico anche che la Corte dei Conti – a cui spetta per legge approvare i Conti consuntivi delle spese elettorali dei partiti - nel referto trasmesso al Presidente della Camera sui consuntivi presentati dalle formazioni politiche ha finora sempre approvato i rendiconti presentati dall’Italia dei Valori.

E veniamo alla “storia dei 10 appartamenti” (che poi non sono dieci, perché se ne vendi uno per comprarne un altro con i soldi del primo, non ne hai due ma sempre uno). È vero che qualcuno negli anni passati ha alluso ad un utilizzo indebito da parte mia dei rimborsi elettorali, ma – come potrà prendere atto leggendo il decreto del Gip di Roma n.4620/07 del 14.03.2008 che le invio integralmente - non solo è stata disposta nei miei confronti – su conforme richiesta del pm – l’archiviazione perché il fatto non sussiste ma addirittura sono stati rimessi gli atti alla Procura per la valutazione circa il reato di calunnia nei confronti del denunciante.
Tutti gli immobili

Ma, potrebbe obiettare lei e giustamente: d’accordo, la gestione della tesoreria di Italia dei Valori sarà pure corretta ma i soldi per gli appartamenti dove li hai presi? Ecco, allora, l’elenco delle mie proprietà, il loro valore di acquisto e la provenienza dei relativi fondi.

A Montenero di Bisaccia sono proprietario di una azienda agricola (lasciatami in eredità da mio padre e mia madre) con circa 15 ettari di terreno e casa colonica annessa (che ho ben ristrutturato a mie spese, con i fondi (e le pietre) provenienti proprio dall’azienda: produco in proprio, infatti dalla morte di mio padre (1987) soprattutto, olio e grano (quest’anno oltre 400 quintali);

A Curno, in provincia di Bergamo ho una villetta a schiera in via Lungobrembo 62, acquistata alla fine degli anni ’80 e quindi per definizione con soldi non del partito (che, come noto è stato fondato nel 2000 ed a cui i primi contributi sono cominciati ad affluire nell’autunno del 2001). Sempre a Curno, in via Lungobrembo 64 (contigua alla precedente) vi è una vecchia casa con giardino, di proprietà di mia moglie che l’ha comprata nel 1985 per 38 milioni di vecchie lire e che è stata dalla stessa (e con il mio contributo, anche manuale) ristrutturata nel 1986 (e quindi in epoca anch’essa non sospetta). È il luogo dove siamo andati a vivere dopo sposati.

A Bruxelless sono comproprietario di un piccolo appartamento in via Scarabee 3, acquistato nel 1999 per 204 milioni di vecchie lire (di cui la metà con prestito bancario della Bbl di Bruxelless, sede del Parlamento europeo) quand’ero parlamentare europeo (ed a tal fine). Anche questo immobile è stato acquistato in epoca precedente alla costituzione di Idv.

A Bergamo sono proprietario di un appartamento in via Locatelli, da me acquistato, a seguito di gara pubblica, ad un’asta indetta dalla Scip per conto dell’Inail in data 10 novembre 2004 (rogito 16.03.2006) per euro 261.661,00 oltre spese e tasse. Non sono invece proprietario di alcun altro immobile in tale città, come invece pure era stato scritto. Vi sono invero lo studio e la casa di mia moglie (che, come Lei sa, fa l’avvocato da una vita e fa parte di una famiglia benestante di avvocati e prima di notai che Lei, gentile direttore, essendo di Bergamo, credo conosca molto bene).
La società Antocri

A Milano ho comprato nel 2004 (tramite la società Antocri) un appartamento in via F. Casati 1/a, per euro 614.500,00, di cui 300.000,00 con mutuo Bnl ed il resto con parte dei fondi provenienti dalla vendita di due appartamenti di mia proprietà che avevo a Busto Arsizio (acquistati nel 1999 – e quindi sempre in epoca antecedente alla costituzione di Idv – per lire 845.166.00 lire e rivenduti nel 2004 per 655.533,46 euro). Gli atti notarili sono a sua disposizione. Quanto alla provenienza dei fondi per acquistare gli appartamenti di Busto Arsizio, non me ne voglia ma lei dovrebbe ricordarla bene essendo stata una delle persone che vi hanno in qualche modo contribuito (ricorda i 400 milioni di lire che l’editore de “Il Giornale” (ove egli faceva all’epoca il direttore responsabile) mi versò, a titolo di risarcimento danni con assegno circolare? All’epoca peraltro furono in molti a versarmi denaro per risarcirmi dei danni provenienti da articoli di giornali ritenuti diffamatori dai giudici o comunque, in via di transazione bonaria).

L’altra parte dei soldi provenienti dalla predetta compravendita li ho usati per acquistare (tramite la società Antocri) a Roma nel 2005 un appartamento in via Principe Eugenio per euro 1.045.000,00 (il resto della provvista è stato reperito da un mutuo bancario Bnl di 400.000,00 euro e dai miei risparmi di cui in appresso). Tale immobile è stato rivenduto nel 2007 a 1.115.000,00 e con la relativa provvista, una volta estinto il mutuo, ho comprato l’anno scorso una casa ai miei due figli più piccoli a Milano, in zona Bovisa, per studiare. Ho anche aiutato mio figlio maggiore, con donazioni in denaro (per un totale di circa 80 mila euro) in parte quando si è sposato ed in parte quando sono nati i suoi tre figli trigemini. Soldi che egli, coscienziosamente ha utilizzato per pagare l’anticipo di una casa a Curno quando abitava lì e che poi ha rivenduto ricomprandosi – a minor prezzo - casa a Montenero, quando si è trasferito al paese natio.

Sempre a Roma, sono attualmente proprietario dell’appartamento di via Merulana, ove abito quando mi reco lì per ragioni legate al mio lavoro di parlamentare. L’ho comprata, nel 2001 – e quindi ancora una volta prima dei rimborsi elettorali confluiti in questi anni al partito – per 800 milioni di vecchie lire (di cui, come al solito, parte in mutuo).

Queste sono – o sono state - le mie proprietà. Mi si dirà: d’accordo hai fatto delle compravendite ed hai stipulato dei mutui, ma per il resto dove hai preso i soldi? Ebbene, i miei redditi – pubblici e che possono essere consultati presso il sito della Camera dei Deputati e del Senato – ammontano dal 1996 ad oggi ad oltre 1.000.000,00 di euro (al netto delle tasse), come da tabella riepilogativa che le invio a parte. A tutto ciò devono aggiungersi ulteriori rinvenienze attive, tra cui una donazione mobiliare per circa 300 milioni di vecchie lire ricevuta nel 1996 dalla contessa Borletti (i fatti sono notori in quanto hanno riguardato come beneficiari anche altri personaggi pubblici) e – come detto - plurimi risarcimenti danni ricevuti (da me e dai miei familiari) per circa 700.000,00 euro negli anni in relazione alle varie diffamazioni subite nel tempo nonché i frutti dell’azienda agricola e dei relativi cespiti immobiliari lasciatimi in eredità dai miei genitori dopo la loro morte.
La formichina

Tutto qui. Alcuni giocano, altri speculano, altri evadono le tasse, altri ancora girano il mondo o se la godono e si divertono. Io ho preferito e preferisco fare la formichina, come mi hanno insegnato i miei genitori, risparmiando ed investendo i guadagni in immobili (almeno questi non ti mandano sul lastrico, come è successo per le azioni e speculazioni in borsa!).

Mi scuso per la prolissità e – se necessario – sono ancora e sempre pronto a fornire tutte le risposte che riterrà necessarie. Con Lei, caro direttore lo faccio volentieri per tre ragioni: primo perché sono certo della sua buona fede e del suo sacrosanto diritto di pormi le domande che mi ha posto; secondo perché sono convinto che ogni personaggio pubblico deve rispondere nel merito alla pubblica opinione (ed agli organi di informazioni indipendenti come “Libero”); terzo, perché è cominciato il nuovo anno e voglio avvicinarmi alla terza età nel migliore dei modi.

Buon anno a lei ed ai suoi lettori!

* Leader IdV

domenica 11 gennaio 2009

FILIPPO FACCI SU DI PIETRO

Tutto quello che Di Pietro non dice sulle sue case.
Anche da spiantato, Antonio Di Pietro ha sempre avuto un debole per case e casette. Il problema è chi fosse a pagarle. L’allora magistrato, dalla fine degli anni Ottanta ai primi anni Novanta, giostrava tra quattro o cinque domicili: il primo lo pagava la moglie, ed era il cascinale di Curno; un secondo lo pagava una banca, ed era l’appartamento di Milano dietro piazza della Scala, affittato a equo canone dal Fondo Pensioni Cariplo; un terzo lo pagava l’ex suo inquisito Antonio D’Adamo, che gli mise a disposizione una garçonnière dietro piazza Duomo fino al 1994; un quarto appartamento, a Curno, a fianco al suo, lo stava finalmente pagando lui: ma coi famosi 100 milioni «prestati» dall’ex inquisito Giancarlo Gorrini. Ci sarebbe un quinto domicilio, a esser precisi: Antonio D’Adamo, che al pari di Gorrini gli prestò altri cento milioni, gli mise a disposizione anche una suite da 5-6 milioni al mese al Residence Mayfair di Roma, dietro via Veneto: questo dal 1989 e per almeno un anno e mezzo. Quest’ultimo fa parte del pacchetto di sterminati favori (soldi, auto per sé e per la moglie, incarichi e consulenze per moglie e amici, impiego per il figlio, vestiario di lusso, telefono cellulare, biglietti aerei, ombrelli, agende, penne, stock di calzettoni al ginocchio) che il duo D’Adamo-Gorrini ebbe a favorirgli via via; nulla di penalmente rilevante, sentenziò incredibilmente la Procura di Brescia una decina di anni fa: comportamenti che tuttavia avrebbero senz’altro portato a delle sanzioni disciplinari se Di Pietro non si fosse dimesso da magistrato. A esser precisi: «Fatti specifici che oggettivamente potevano presentare connotati di indubbia rilevanza disciplinare», recita una sentenza di tribunale, rimasta insuperata, in data 29 gennaio 1998.

Ma anche i retroscena di acquisti immobiliari all’apparenza normali, come quello della casa di Curno dove l’ex magistrato risiede tuttora, rivelano come Di Pietro fosse già Di Pietro.
Un salto all’indietro ed eccoci al tardo 1984. A Curno, in via Lungobrembo, zona Marigolda, Di Pietro aveva adocchiato un immobile diroccato: una volta risistemato, lui e la sua futura seconda moglie, Susanna Mazzoleni, avrebbero potuto viverci assieme. Fu lei a contattare il proprietario, Leone Zanchi, un contadino che di quel rudere non sapeva che farsene; ogni intervento diverso dalla cosiddetta «manutenzione straordinaria», infatti, gli era proibito dal piano regolatore. Accettò dunque di vendere il casolare per trentacinque milioni, e il 17 aprile 1985 Susanna Mazzoleni ereditò la concessione edilizia richiesta dallo Zanchi pochi giorni prima, come detto una «manutenzione straordinaria».

La provvidenza farà il resto. La cascina verrà sventrata, ugualmente, dopo l’accidentale crollo di un muro che nottetempo trascinerà con sé tutta la casa. Questo, almeno, scrisse l’architetto Angelo Gotti in data 7 maggio, giorno seguente all’inizio dei lavori che curava personalmente. «Del vecchio fabbricato», notarono due periti comunali, «è rimasto solo il muro a est, la restante parte non c’è più». Susanna Mazzoleni sarà quindi costretta a chiedere di ricostruire tutta la cascina come Zanchi non aveva potuto fare. La provvidenza, appunto. Va da sé che l’ex proprietario andò fuori dalla grazia di Dio, e cominciò a piantar grane tirando in ballo anche Di Pietro. Sulla scrivania dell’assessore competente, Roberto Arnoldi, si materializzò un esposto anonimo di cui non venne fatta copia, né venne passato alle autorità, né finì nel cestino: Arnoldi lo spedì direttamente ai coniugi Di Pietro. Non solo. Arnoldi si fece stranamente attivo e preparò una missiva diretta ai gruppi consiliari, liquidando l’ex proprietario come un beota e parlando di «strumentalizzazione» ai danni del magistrato. Scrisse il 22 maggio: «Di Pietro non risulta tra gli interessati alla concessione, né legato agli stessi da vincoli di parentela». Una bella forzatura, visto che Di Pietro in quella casa andrà a viverci col figlio e con la futura moglie.
Ma i particolari curiosi sono altri. Il primo si ricava dalla missiva di Arnoldi: non è lui, infatti, a scriverla, bensì è direttamente l’architetto Angelo Gotti, teste di parte e incaricato dalla Mazzoleni di ristrutturare il cascinale. Assurdo. «Caro Arnoldi», rivela difatti una nota erroneamente dimenticata, «ti trasmetto copia della risposta all’anonimo... non avendo gli esatti indirizzi, ho ritenuto opportuno impostare la risposta in modo tale che tu debba solo far preparare la prima pagina». Fantastico. Secondo particolare curioso: il nome di Arnoldi forse a qualcuno suonerà familiare, perché nel 1997 diventerà capo di gabinetto dei Lavori pubblici presieduti da Di Pietro. Trattasi di «quel certo Arnoldi», come lo definì l’ex magistrato Mario Cicala, di cui Arnoldi oltretutto prese il posto, che per qualche tempo fu anche una sorta di portavoce di Antonio Di Pietro nei rapporti con la stampa.

Ma torniamo al casolare. Era passato un po’ di tempo e l’avvocato Mario Benedetti, richiesto di un parere, si dichiarò favorevole alla variante chiesta da Susanna Mazzoleni: purché rispettasse le volumetrie preesistenti. Bocciò, invece, la pretesa costruzione di una serie di garage e lasciò intravedere, comunque fosse andata, la possibilità di una sanatoria edilizia.
I lavori proseguirono a dispetto di qualche rogna. Il sindaco di Curno, Franco Gasperini, si ritrovò due rapporti (16 e 19 dicembre 1988) dove si rilevava «una baracca di legno alta tre metri e mezzo senza autorizzazione del sindaco, d’altra parte mai richiesta». È il capanno degli attrezzi già caro a Tonino Di Pietro, una sorta di leggenda dei tempi di Mani pulite. Il sindaco a quel punto chiese di consultare la «pratica Mazzoleni-Di Pietro», ma «nella ricerca si verificava che era stata fatta un’ulteriore richiesta, del proprietario, di una piscina», scrisse il 30 dicembre, «ma tale fascicolo non veniva ritrovato». Il rapporto di un agente spiegava che risultava «asportato o trafugato». È tutto nero su bianco.
Ma Di Pietro è Di Pietro. Il 3 gennaio 1989 intervenne con una lettera delle sue: «Non ho mai intrattenuto rapporti con alcuno dell’amministrazione comunale... Invito a voler evitare di considerarmi inopinatamente parte in causa... sono venuto a conoscenza che il predetto Zanchi avrebbe riportato frasi calunniose nei miei confronti... sono a richiedervi copia dell’esposto al fine di provvedere a tutelare la mia onorabilità nelle sedi più opportune». Querelava anche allora. E spiegava di non conoscere l’assessore Roberto Arnoldi: anche se nel 1996 lo sceglierà come suo capo di Gabinetto ai Lavori Pubblici.

I documenti scomparsi comunque riapparvero improvvisamente, anche se una nuova perizia, purtroppo, confermava «una costruzione in legno con caratteristiche strutturali tali da violare le norme». Il 25 gennaio venne chiamato a esprimersi un altro avvocato, Riccardo Olivati: dichiarò «sconcerto» per le «sparizioni strane e riapparizioni magiche di documenti» e definì la citata lettera di Arnoldi (quella in realtà fatta scrivere all’architetto Gotti) come «prassi da non ripetere per evitare sospetti di parzialità». E Di Pietro? C’entrava qualcosa? Olivati scrisse che andava eventualmente «segnalato all’autorità giudiziaria», spiegò, solo se «risultasse con prova certa... ha contribuito alla costruzione materiale del manufatto». Il capanno di legno, cioè.
Costruzione «materiale» del capanno di legno. Per fortuna che non era ancora uscita un’agiografia su Di Pietro del 1992, perché vi si legge proprio questo: «Nella villetta dove abita, a Curno, fin dall’inizio ha progettato e poi realizzato con le proprie mani un capanno degli attrezzi che è il suo regno assoluto e intoccabile».
Per la cronaca: la villetta ha due piani, otto stanze e una taverna.
(1. Continua)

Il vizietto, quando Tonino si faceva dar casa dai suoi inquisiti.
Antonio Di Pietro, verso la fine degli anni Ottanta, non aveva una fama stupenda. Certi suoi trascorsi l’avevano accompagnato sin lì. «Tu gli giri sempre intorno, ai politici, ma non li prendi mai» gli diceva per esempio Elio Veltri, che lo conobbe in quel periodo e che scriverà di lì a poco: «Confesso che qualche volta ho dei dubbi, perché nelle inchieste non arriva mai ai politici. I loro furti sono così evidenti e la loro certezza di impunità così sfacciata, che si fatica a pensare che non si possa incastrarli».
Le perplessità, condivise da molti cronisti giudiziari, erano legate perlopiù alla rumorosissima inchiesta sull’Atm (Azienda trasporti milanesi) di cui presidente era il democristiano Maurizio Prada e vicepresidente il socialista Sergio Radaelli. Tra le sigle di un libro mastro delle tangenti spiccavano in particolare «Riva» (che i più ricollegarono a Luciano Riva Cambrin, uomo di Prada) e poi «Radaelli» e «Rad» che era associato spesso a certo «Lupi» (che i più ricollegarono ad Attilio Lupi, uomo di Radaelli). Dunque Prada e Radaelli, pensarono tutti: si era profilato dunque il rischio che Di Pietro incontrasse di giorno gli amici che già frequentava la sera. Prada e Radaelli, infatti, facevano parte di un giro di frequentazioni ad ampio raggio (il sindaco Pillitteri, l’ex questore Improta, l’industriale Maggiorelli, il capo dei vigili Rea tra moltissimi altri) che aveva fatto tappa anche nella casa di Curno dell’allora magistrato, quella descritta nella puntata di ieri. Non mancava, ovviamente, l’industriale Giancarlo Gorrini e tantomeno «Dadone», ossia il costruttore Antonio D'Adamo: che fanno insieme, più di duecento milioni «prestito» beneficiato da Di Pietro. E son valori.
Morale: tre giorni dopo che l’impaziente Repubblica aveva esplicitato i nomi che tutti aspettavano (Prada e Radaelli) Di Pietro decise di stralciare le loro posizioni dalla sua inchiesta. La posizione di Radaelli, in particolare, sarà poi archiviata su richiesta di Di Pietro. Le responsabilità del cassiere socialista saranno appurate solo qualche anno dopo. Per farla breve: Di Pietro archiviò, ma Radaelli era colpevole.
Perché questo racconto? Per delineare, quantomeno, un conflitto d'interesse: proprio in quei giorni, quando il gip non aveva ancora accolto l’archiviazione chiesta da Di Pietro per Radaelli, l’allora magistrato ebbe a disposizione un appartamento concesso a equo canone dal Fondo pensioni Cariplo per 234 mila lire il mese, comprese le spese di ristrutturazione: questo in Via Andegari, dietro Piazza della Scala. Un sogno. L’ex sindaco Paolo Pillitteri ha raccontato che Di Pietro si rivolse dapprima a lui, senza successo, ma che gli consigliò di chiedere a Radaelli che allora era consigliere della Cariplo in predicato di vicepresidenza.
Di fatto andò così: il direttore della Cariplo ebbe la dritta per trovare casa a Di Pietro (non si sa ufficialmente da chi) e incaricò un funzionario di provvedere. Quest’ultimo accompagnò Di Pietro in via Andegari, e tutto bene. Venne preparato il contratto che poi venne chiuso in cassaforte. Come si dice: alla luce del sole.
I 20 milioni circa delle spese di ristrutturazione vennero ricaricati sull’equo canone, che salì da poco più di 100mila il mese a 234mila. L’assegnazione fu anomala a dir poco: non tanto perché venne ignorata ogni graduatoria d’attesa (nell'Italia dei favori è normale, anche se illecito) ma perché venne saltata di netto l’apposita commissione affittanze, che si limitò a ratificare una decisione calata dall’alto. Il rapporto è ancora lì, anche se non reca il nome del destinatario: è rimasto in bianco.
Parentesi: agli appartamenti del Fondo pensioni Cariplo, allora più di oggi, accedevano solo i raccomandati di ferro. Tra i magistrati, per dire, ne ebbe uno solo il procuratore generale della Repubblica Giulio Catelani. La maggior parte dei magistrati normali (quelli che non ritengono di dover pagare un affitto normale, cioè) a Milano sono raggruppati nelle case comunali di viale Montenero 8. Il Fondo pensioni, inoltre, è pubblico. È regolato con decreto del presidente della Repubblica. Insomma: fu un privilegio da signori concesso dalla Cariplo di Radaelli, grande miracolato dell’inchiesta Atm. È un fatto. Penalmente irrilevante, direbbe Di Pietro.
Quella dell’appartamento è una vecchia polemica. Di fronte alle prime malizie, nel luglio 1993, il procuratore capo Borrelli replicò che al Tribunale di Milano esisteva un ufficio che procurava case «ai magistrati che vengono da fuori». Tale ufficio risulta inesistente, e vi è comunque da escludere che fosse adibito a trovar casa ai figli dei magistrati: difatti in via Andegari c’era andato a stare Cristiano Di Pietro, e questo nonostante il contratto vietasse tassativamente qualsiasi tipo di subaffitto. Il magistrato risiedeva appunto a Curno e nel bilocale dormiva solo ogni tanto, quando non tornava dalla moglie o quando non preferiva la pur disponibile garçonnière di D’Adamo, distante poche centinaia di metri. In sostanza, Di Pietro aveva tre case.
La sua difesa, nella circostanza, è stata davvero goffa. «Radaelli», disse in un libro, «non c’entra nulla nella storia della casa... è abitudine, qui alla Procura, che quando viene un nuovo magistrato gli si cerchi una casa». Falso, come visto: Di Pietro ufficialmente stava a Curno. Di seguito ammise di essersi rivolto a Pillitteri e poi alla Cariplo (senza menzionare Radaelli) ma per una casa dove potesse abitare il figlio: «A diciotto anni decisi di prendergli una casa, non potendola comprare». Strano anche questo: proprio in quel periodo si era fatto «prestare» i famosi cento milioni dall’ex inquisito Giancarlo Gorrini sempre per comprare una casa al figlio: Di Pietro l’ha messo a verbale. Difatti la comprò: un lotto a mutuo agevolato a Curno (accanto alla sua, in via Lungobrembo) per centocinquanta milioni in contanti, mai passati per banca: alla luce del sole anche questo. In sintesi, le case sono quattro. Una, a Curno, la pagava la moglie, perlomeno allora. Un’altra, in via Andegari, la pagava la Cariplo di Radaelli. Un’altra ancora, utilizzata da altri come rifugio per scappatelle, era la garçonnière di via Agnello 5, con entrata anche da via Santa Radegonda 8, sopra la Edilgest di Antonio D’Adamo: quaranta metri quadri al sesto piano, all’interno di una torretta piazzata in mezzo a un terrazzone con vista sul Duomo. All’interno, una boiserie rivestita in legno, camera da letto, soggiornino e zona pranzo semicircolare. D’Adamo è l’ex inquisito che «prestò» a Di Pietro altri cento milioni, oltreché elargirgli vestiti alla boutique Tincati di corso Buenos Aires, un telefono, una Lancia Dedra e altri infiniti privilegi della D’Adamo card. Aggiungiamo (e fanno cinque) la disponibilità di una suite al residence Mayfair di via Sicilia 183, Roma, dietro via Veneto: roba da cinque o sei milioni al mese pagati da D’Adamo che staccava assegni anche per i relativi biglietti aerei Milano-Roma-Milano (una quindicina) acquistati all’agenzia Gulliver di via San Giovanni sul Muro.
«La Cariplo», si legge in un vecchio memoriale di Antonio Di Pietro, «ha reso pubblico, con il mio consenso, l’entità effettiva del canone, a dimostrazione della falsità delle accuse di favoritismo». E queste sono balle spaziali. I dati sull’appartamento, in realtà, sono noti solo perché tre giornalisti (lo scrivente tra questi) ci scavarono per mesi. Non fu certo Di Pietro a rendere noto lo schedario degli immobili Cariplo a pagina 531: contratto intestato a Di Pietro Antonio, 65 metri quadri calpestabili (70 commerciali), 230 metri cubi a un canone annuo di 2.817.039, ossia 234.753 il mese. Infine: non è mai stato chiaro perché Di Pietro, se tutto era davvero lecito o normale, non appena la storia prese a circolare abbandonò l’appartamento in fretta e furia. Per usare il gergo del suo amico Travaglio: come un ladro.
(2. Fine)

lunedì 5 gennaio 2009

PRIMA CHE LA REDAZIONE LO CANCELLI DAL LEGNO

RIFERIMENTO A "IMPERDIBILE" MESSO NEI LAYOUT.

peterce

imperdibile 05/01/2009 14:16
A tu per tu con la tenerezza di Dio 31.12.2008

Sant’Agostino, Bakhita, i santi del passato. Ma anche Andrea, Cilla, le testimonianze dell’ultimo Meeting. In modo inaspettato, nelle situazioni più drammatiche, è solo Cristo che può rispondere al cuore dell’uomo. E se diciamo di sì...

di Antonio Socci

La padrona quel giorno si annoiava, così decise di far seviziare le tre ragazzine nere che aveva comprato come schiave: avevano circa 10 o 11 anni. Bakhita fu bloccata a terra e con un rasoio le fecero 114 tagli nella carne. Poi riempirono di sale le ferite. Così, per divertimento. Perché era considerata una cosa dai padroni musulmani. All’età di sette anni, nel 1876, era stata rapita nel suo villaggio sudanese e venduta come schiava quattro volte. Aveva conosciuto solo la ferocia.

Così è la storia umana senza Gesù. Joseph Ratzinger, nel suo Gesù di Nazaret, spiega che prima della venuta del Salvatore il mondo era infestato dai demoni. Dovunque hanno dominato la ferocia e la disumanità. Poi, un giorno, sono risuonate queste parole: «Ho visto la miseria del mio popolo… ho sentito il suo grido e sono sceso per liberarlo» (Es. 3,7). «Egli si è mostrato. Egli personalmente», duemila anni fa. E da allora ogni giorno, «in un fenomeno di umanità diversa», ci dice don Giussani. Pure quella disgraziata ragazza, Bakhita «vi si imbatte e vi sorprende un presentimento nuovo di vita… non ce lo aspettavamo, non ce lo saremmo mai sognato, era impossibile».

Bakhita neanche riusciva a sognarlo. Per circostanze casuali, a 16 anni fu portata dai padroni in Italia, a Venezia, e conobbe le suore canossiane. Fu colpita dalla loro umanità e dalla bontà di un vero cristiano, «uomo dal cuore d’oro» che era parente di colui che sarebbe diventato papa san Pio X e che le regalò un crocifisso: «Nel darmelo», ricorda la ragazza, «lo baciò con devozione, poi mi spiegò che Gesù Cristo, Figlio di Dio, era morto per noi». Bakhita restò abbagliata. Era morto per lei? Possibile che qualcuno l’amasse? Sì. Lo vedeva dai volti di «quelle sante madri che mi fecero conoscere Dio», specialmente la suora che la istruì: «Non posso ricordare senza piangere la cura che ebbe di me». Essendo tornati i padroni a riprenderla, per la prima volta, Bakhita, che non voleva più perdere Dio, si rifiutò di seguirli. Il 29 novembre 1889 il Patriarca di Venezia fece intervenire il procuratore del re, che dichiarò Bakhita libera dalla schiavitù. Lei restò in Italia, si fece battezzare, chiese di diventare suora e visse 78 anni «durante i quali sempre più ho conosciuto la bontà di Dio verso di me». Morta nel 1947, è stata proclamata santa nel 2000.

Non c’è situazione tanto estrema e drammatica che non possa essere raggiunta e liberata da Dio fatto uomo. Anche oggi, tempo di diverse schiavitù. E i lettori di Tracce lo sanno bene. Indimenticabile è la testimonianza di quel giovane, ammalato di Aids, Andrea, che due giorni prima di morire scrisse a don Giussani (la lettera è riportata ne Il tempo e il tempio). Ne ricordo dei brani: «Le scrivo solamente per dirle grazie; grazie di avere dato un senso a questa mia arida vita». Andrea spiegava così la sua gratitudine: «Sono un compagno delle superiori di Ziba… Quando Ziba recitava l’Angelus davanti a me che gli bestemmiavo in faccia, lo odiavo e gli dicevo che era un codardo perché l’unica cosa che sapeva fare era dire quelle stupide preghiere davanti a me. Ora, quando balbettando tento di dirlo con lui, capisco che il codardo ero io, perché non vedevo neppure ad un palmo dal naso la verità che mi stava di fronte. Grazie don Giussani, è l’unica cosa che un uomo come me può dirle. Grazie perché nelle lacrime posso dire che morire così ora ha un senso, non perché sia più bello - ho una gran paura di morire - ma perché ora so che c’è qualcuno che mi vuole bene e anch’io forse mi posso salvare e posso anch’io pregare affinché i compagni di letto incontrino e vedano come io ho visto e incontrato. Così mi sento utile… con l’unica cosa che ancora riesco ad usare bene (la voce) io posso essere utile; io che ho buttato via la vita posso fare del bene solamente dicendo l’Angelus. Penso che la mia più grande soddisfazione sia quella di averla conosciuta scrivendole questa lettera, ma la più grande ancora è che nella misericordia di Dio, se Lui vorrà, la conoscerò là dove tutto sarà nuovo, buono e vero. Nuovo, buono e vero come l’amicizia che lei ha portato nella vita di molte persone e della quale posso dire “anch’io c’ero”, anch’io in questa zozza vita ho visto e partecipato di questo avvenimento nuovo, buono e vero».

Una storia di oggi, insomma. Proprio come quelle, straordinarie, del Meeting 2008, appena raccolte da Paola Brizzi e Alberto Savorana nel volume Un’avventura per sé (vedi pagina 106; ndr), e così simili alle storie di duemila anni fa. Accadeva così anche nel IV secolo a quell’Agostino che era l’intellettuale più raffinato di Roma e poi di Milano dove era andato a insegnare nel 384 d.C.. Non gli mancava niente, né il successo accademico, né i beni, né l’amore femminile, né la soddisfazione della paternità, né gli svaghi, né l’amicizia con i potenti politici della città.

Eppure un inspiegabile male di vivere lo avvolgeva: «Ero infelice». Parla di «profondissimo tedio», di «paura della morte». Sarà l’incontro con Ambrogio - vescovo della città, che ha solo qualche anno più di lui - a colpirlo: «La dolcezza del suo dire mi dava piacere». Fa breccia in lui, lo affascina, ridimensiona anche l’orgoglio dell’intellettuale. «Certamente occorre sempre l’umiltà della ragione per poter accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo che risponde all’umiltà di Dio».

La sua vita cambia. Ormai la «cupidigia di onori e guadagni… non avevano più forza, in confronto alla Tua dolcezza e allo splendore della Tua casa che amavo. Ma», confessa, «ero ancora attanagliato dalla donna», «le mie amanti di un tempo mi trattenevano». E ancora una volta sono degli incontri imprevisti a prevalere con l’attrattiva di una felicità più grande. Accade quando Ponticiano gli racconta che, a Treviri, due suoi amici hanno lasciato le fidanzate entrando in una comunità di vergini (le prime esperienze monastiche) e che lo stesso hanno fatto le due ragazze. Una nuova forma di vita che contagiava tanti giovani cristiani anche a Milano (dove erano seguiti da Ambrogio in persona). Agostino li incontra, ne è affascinato e coinvolto. Più avanti confesserà: «Tardi ti ho amato, o Bellezza, sempre antica e sempre nuova, tardi ti ho amato! Ed ecco tu eri dentro di me e io ero fuori e là ti cercavo ed io nella mia deformità mi gettavo sulle cose ben fatte che tu avevi creato. Tu eri con me ed io non ero con te. Quelle bellezze esteriori mi tenevano lontano da te e tuttavia se esse non fossero state in te non sarebbero affatto esistite. Tu mi hai chiamato e hai squarciato la mia sordità; tu hai brillato su di me e hai dissipato la mia cecità; ho gustato e ora ho fame e sete; tu mi hai toccato e io bramo la tua pace».

A distanza di molti secoli la stessa sete di felicità e lo stesso stupore commosso si trova nella vita di un’adolescente piemontese, altra presenza familiare ai lettori di questo giornale. Dal libro che don Primo Soldi ha dedicato a Cilla colgo due flash. Prima dell’«incontro», questa ragazza, quindicenne, ma così profonda e intelligente, in calce al suo diario, nelle “comunicazioni alla famiglia”, scrive di sé: «Signore, le comunico che sua figlia è sola. Signore le comunico che sua figlia non è felice. Signore le comunico che sua figlia vuole amare e non ci riesce».

E un giorno accade qualcosa. La semplicità di un invito delle amiche, che stanno iniziando il cammino di Cl, alla preghiera delle Lodi. Un lampo di meraviglia. Cilla annota: «È la prima volta che prego così… Credo di aver perso una delle cose più importanti della mia vita». Nel giro di poche settimane, con la scoperta di una vita nuova e di un’amicizia vera, la fioritura imprevista. Nel suo Diario si legge: «Prima non esistevo. Sono nata nel momento in cui ho capito cos’è la comunità: il mezzo che mi ha portato a Cristo».

In ogni epoca Gesù si è fatto incontrare in «un fenomeno di umanità diversa: un uomo vi si imbatte e vi sorprende un presentimento nuovo di vita». Dice Agostino: «Dio si è fatto uomo. Saresti morto per sempre se Lui non fosse nato nel tempo. Mai saresti stato libero dalla carne del peccato, se Lui non avesse assunto una carne simile a quella del peccato. Ti saresti trovato sempre in uno stato di miseria, se Lui non ti avesse usato misericordia. Non saresti ritornato a vivere, se Lui non avesse condiviso la tua morte. Saresti venuto meno, se Lui non fosse venuto in tuo aiuto. Ti saresti perduto, se Lui non fosse arrivato».


Da “Tracce”, dicembre 2008

Questo articolo è un commento al Volantone di Natale di CL che si può trovare nel sito www.comunioneliberazione.it, in particolare riprende i due testi di Benedetto XVI e don Luigi Guissani

giovedì 1 gennaio 2009

DAL LEGNO UN 3D DI CAPODANNO (click)


ambrarosa ha scritto:
Caro Adalberto, trovi sempre il modo di volere ed avere ragione, ma io continuo a contestare : bisogna...si deve...vanno mandati a casa.. e via così, ma chi, come, se quel poppolo che tu dici non vuol muovere un dito per mutare il dire in fare ?
Ci vorrebbe un cappopoppolo, ma io non mi fido.

C'è una unica risposta che si può dare con risolutivo D'Annunziano democratico ardore a questa tua intelligente domanda, carissima Ambrarosa:
"EHJA... EHJA... EHJA ! ALALA' !!

NON ABBIAMO BISOGNO DI UNA VILTA' CHE NON OSA.
A tua scelta: "Sufficit anumus" - "Memento Audere Semper" - "Ti con nu, nu con ti" - "Osare l'inosabile!" - "Iterum rudit leo" -
"Senza cozzar dirocco" - "Tramite recto" -
"Donec ad metam!" -"Fidem servabo genusque"-
"Et ventis adversis" - "Ardire, non ordire" -
"INSORGERE E' RISORGERE !" - "Alere flammam"-
"Viva Roma senza onta!" - "Chi non è con noi è contro di noi" - "Mori citius quam deserere" - "Si spiritus pro nobis, quis contra nos?" -
"Immotus, nec iners" - "Suis viribus pollens" -
"Et quid volo nisi ardeat?".
Ti sei mai chiesta se un qualsiasi dei nostrani Manigoldi di Palazzo abbiano mai seguito con onesti propositi uno, dico uno di questi motti che a suo tempo hanno onorato la nostra Patria Italia? Perchè dunque ti scandalizzi quando li definisco Manigoldi?
dal tuo anarcoide amico Adalberto