sabato 26 settembre 2009

Il "grano nano" contro la fame (click)


La "rivoluzione verde" di Borlaug
che non piace agli ambientalisti


26 Settembre 2009

Il 12 settembre è morto a Dallas, USA, all’età di 95 anni, Norman Borlaug. Della sua scomparsa quasi nessuno ha parlato. Eppure il mondo intero avrebbe dovuto commemorarlo perché, come disse nel 2002 l’allora presidente della National Academy of Sciences Bruce Alberts conferendogli la Public Welfare Medal, Borlaug è forse “la persona che ha salvato più vite umane nella storia”.

A lui, patologo vegetale e genetista, si deve infatti l’invenzione del “grano nano”, una varietà di cereale dall’ottima resa e dal gambo corto e robusto in grado di sostenere senza flettersi una pesante spiga ricca di chicchi, che ha reso possibile quella “rivoluzione verde” che dagli anni 60 del secolo scorso ha salvato dalla morte per fame centinaia di milioni di persone.

Il “grano nano” fu sperimentato con successo dapprima in Messico, nel 1963, trasformandolo addirittura in un paese esportatore di cereali dopo anni di scarsità critica. Due anni dopo Borlaug era in India. Il subcontinente asiatico stava uscendo da una delle terribili carestie che fino ad allora avevano periodicamente falcidiato la popolazione. L’introduzione del “grano nano” nel 1965 portò la produzione di frumento a 12 milioni di tonnellate e nel 1970 il raccolto fu di 20 milioni. Gli stessi risultati si ebbero poi in Pakistan e in tutti gli altri paesi in cui furono realizzati i programmi di sviluppo agricolo diretti da Borlaug.

Perciò nel 1970 gli fu assegnato il premio Nobel per la pace. I cinque membri del Comitato motivarono come segue la loro decisione: “Più di ogni altra persona del nostro tempo ha aiutato a dare il pane a un mondo affamato. Abbiano fatto questa scelta nella speranza che provvedendo al pane si dia pace a questo mondo”. Ma da allora molte cose sono cambiate sotto l’influenza crescente dei movimenti ambientalisti. Celebrare l’inventore di un organismo geneticamente modificato – per utile che ne sia stata la creazione – di sicuro oggi non è considerato opportuno. Si può immaginare che se, ad esempio, il Ministero dell’Istruzione decidesse di ricordarne la figura nelle scuole, portandolo a modello e incoraggiando gli studenti a seguirne le orme, tanti insegnanti e genitori protesterebbero vivacemente.

È indiana – e quindi meglio di chiunque dovrebbe apprezzare il contributo di Borlaug – Vandana Shiva, l’ambientalista che invece predica il ritorno alle economie di sussistenza, quindi a un’agricoltura preindustriale, in nome della tutela dell’ambiente e della biodiversità. Shiva, come tanti altri attivisti ambientalisti, non soltanto demonizza gli OGM, ma anche i fertilizzanti e i pesticidi chimici di cui invece Borlaug fece sempre uso per incrementare la resa dei raccolti. La sua intransigenza l’ha spinta a richiedere al governo indiano di rifiutare gli aiuti alimentari inviati alle popolazioni colpite nel 1999 dall’uragano Orissa a meno che non fossero certificati come liberi da OGM. Per lei le pratiche agricole di Borlaug – lo si legge in un suo scritto del 1991 – sono “ecologicamente distruttive e insostenibili”.

Borlaug, incurante dei loro attacchi, benché fattisi particolarmente feroci negli ultimi anni, chiamava Vandana Shiva e i suoi simili gli “ecologisti con la pancia piena”. Lo scontro più violento, inevitabilmente, lo ebbe con gli ambientalisti estremi, quelli che considerano l’umanità una sorta di cancro del pianeta. Per loro l’incremento demografico conseguente al miglioramento delle condizioni di vita determinatesi in India e in altri paesi grazie alla “rivoluzione verde” è una catastrofe: aggravata, secondo loro, dai crescenti danni ambientali provocati da persone che a ogni generazione producono e consumano un po’ di più, infliggendo a Madre Terra impronte ecologiche sempre più profonde, ferite sempre più insanabili.

Fiducioso nella capacità di autoregolarsi e nella razionalità del genere umano, Borlaug replicava: “Credo che sia molto meglio per l’umanità essere alle prese con nuovi problemi creati dall’abbondanza, piuttosto che con il vecchio problema della fame”.

domenica 13 settembre 2009

BINO BOFFO - UN CASO PER TRE

"Avvenire" ha due lettori tra loro discordi: i vescovi e il Vaticano

Il giornale dei vescovi italiani è sotto attacco e il suo direttore si è dimesso. Ma le gerarchie della Chiesa appaiono divise. Sui risvolti anche politici della vicenda, un'analisi di Pietro De Marco

di Sandro Magister


ROMA, 10 settembre 2009 – Nella lettera con cui il 3 settembre si è dimesso da direttore di "Avvenire", il giornale della conferenza episcopale italiana, Dino Boffo ha paventato il disegnarsi di "geografie ecclesiastiche" in guerra tra loro, eccitate dal suo caso.

Benedetto XVI, in una sua lettera ai vescovi di pochi mesi fa, è stato ancora più schietto: "Se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri".

Che fra le alte gerarchie della Chiesa vi siano divisioni e contrapposizioni, che a tratti esplodono e fanno macerie, è un dato indiscusso e riconosciuto. Nei riguardi della politica italiana la divergenza è oggi principalmente tra le due sponde del Tevere: tra la segreteria di Stato vaticana da un lato, e la conferenza episcopale italiana dall'altro.

"Avvenire" è il quotidiano dei vescovi. Ma l'attacco condotto contro la vita privata del suo direttore, Boffo, dal quotidiano "il Giornale" di proprietà del fratello del premier Silvio Berlusconi è stato giudicato e vissuto in modi opposti, al di qua e al di là del Tevere.

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Per la segreteria di Stato l'attacco vero e proprio era ed è un altro, condotto da altri, da un potere anticattolico che, a suo giudizio, ha la sua punta avanzata ne "la Repubblica", il giornale leader della sinistra laica, e ha come bersaglio massimo il papa e in subordine il suo segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone.

La mattina del 28 agosto Bertone si infuriò molto di più per un articolo del teologo Vito Mancuso su "la Repubblica" che per il contemporaneo scatenarsi della campagna de "il Giornale" contro Boffo e le sue critiche al premier. Mancuso accusava Bertone di sedersi alla mensa di Erode, incontrando Berlusconi secondo programma quel giorno, invece che denunciarne la vita lussuriosa col coraggio di un san Giovanni Battista.

Poche ore dopo, infatti, nel primo pomeriggio di quello stesso 28 agosto, "L'Osservatore Romano" uscì con una vistosa nota di prima pagina contro l'articolo de "la Repubblica", a firma della sua commentatrice di punta, Lucetta Scaraffia, e solo con un paio di righe in una pagina interna dedicate all'offensiva de "il Giornale" contro il direttore di "Avvenire", ritagliate da un comunicato della CEI, nonostante fosse per questa aggressione e non per altri motivi che l'incontro tra Bertone e Berlusconi era stato nel frattempo annullato.

Anche nei giorni successivi, nel pieno della tempesta contro Boffo, il cardinale Bertone tenne ferma questa sua lettura dei fatti.

Per lui, il vero culmine dell'aggressione contro la Chiesa fu quando "la Repubblica", il 1 settembre, titolò che Benedetto XVI era intervenuto personalmente a sostegno di Boffo e quindi delle sue critiche a Berlusconi.

Infatti, il primo e unico comunicato ufficiale vaticano sul caso Boffo uscì poche ore dopo proprio per smentire il coinvolgimento del papa nella mischia. Il comunicato confermò che a Boffo aveva espresso solidarietà il solo Bertone, mentre il papa – stando a un parallelo comunicato della CEI – si era limitato a telefonare al presidente della conferenza episcopale, cardinale Angelo Bagnasco, per chiedergli "notizie e valutazioni sulla situazione attuale" ed esprimere "stima, gratitudine e apprezzamento" a lui e ai vescovi italiani.

A sfogliare "L'Osservatore Romano", il giornale di cui il professor Giovanni Maria Vian è direttore e il cardinale Bertone editore di riferimento, la settimana di passione di Boffo è passata senza quasi lasciare traccia. La notizia delle sue dimissioni è stata data il 3 settembre in un esile colonnino di 22 righe a pagina 7 sotto il titolo asettico: "Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della CEI", di cui si riportava stringatamente il comunicato.

Molto più loquace era stato invece il direttore Vian in un'intervista al "Corriere della Sera" del 31 agosto. Dalle sue parole appariva lampante l'insoddisfazione della segreteria di Stato vaticana per "Avvenire", per le sue "imprudenze ed esagerazioni" nel criticare il governo e nel fustigare le licenziosità private del premier: materia, quest'ultima, sulla quale "L'Osservatore Romano" non ha mai scritto una sola parola, per scelta deliberata.

C'è in questo voluto rapporto di "serenità istituzionale" con i governi in carica, quali che essi siano, di sinistra o di destra, una costante della diplomazia vaticana con tutti gli Stati del mondo, dettata da realismo politico.

Ma un conto è il governo centrale della Chiesa cattolica, un altro conto sono le effervescenti Chiese nazionali, con i loro vescovi, il clero, i fedeli.

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Sotto la presidenza del cardinale Camillo Ruini, la conferenza episcopale italiana aveva assunto in proprio la guida dei rapporti con la sfera politica, in pieno accordo con Giovanni Paolo II e con il suo successore Benedetto XVI, mietendo indubbi successi. "Avvenire", diretto da Boffo, era l'organo di punta della leadership ruiniana.

Ma uscito di scena Ruini, il cardinale Bertone ha voluto prendere lui in pugno il timone della politica della Chiesa in Italia, e l'ha scritto nero su bianco in una lettera del 25 marzo 2007 al nuovo presidente della CEI, cardinale Bagnasco. I vescovi non accettarono affatto d'essere esautorati e così da allora tra il Vaticano e la CEI permane un attrito che talora precipita in aperto contrasto.

Nel frattempo, però, la CEI è cambiata. Non è più quella compagine ordinata che era stata con Ruini all'apogeo.

Il cardinale Bagnasco ne è un fedele continuatore, ma non ha pari autorevolezza. Il nuovo segretario della CEI, il vescovo Mariano Crociata, si è in breve rivelato non all'altezza del ruolo. L'attuale è una CEI dalle molte teste e dalle molte voci, spesso tra loro dissonanti. Una ragione in più perché, dal Vaticano, Bertone rafforzi le sue ambizioni di guida, incoraggiato in questo dai politici, che individuano in lui un interlocutore più sicuro, rispetto a una CEI che appare incerta e confusa.

Confusa anche nel reagire all'offensiva contro "Avvenire" e il suo direttore. Già da mesi, da quando è partita in Italia la polemica sulla vita privata del premier Berlusconi, il giornale diretto da Boffo si era trovato a navigare in acque tempestose. Le pressioni dei lettori e ancor più di una parte di quell'editore collettivo che è l'episcopato italiano avevano indotto Boffo a fare ciò che non avrebbe mai fatto con un Ruini alla guida: fare prediche contro l'immoralità privata del premier. Prediche misurate, rispettose, dosate con cura. Tali però da scontentare molti, per il loro troppo o poco vigore a seconda dei punti di vista. In segreteria di Stato, naturalmente, l'imprudenza "moralistica" del giornale della CEI appariva solo foriera di rovine, come la micidiale rappresaglia de "il Giornale" avrebbe poi confermato..

Vissuta in CEI come un attacco alla linea di Ruini, l'offensiva contro Boffo ha visto quindi schierarsi in difesa dell'aggredito, in prima linea, anzitutto lo stesso cardinale Ruini e il suo successore, Bagnasco, con l'esercito di quella "Chiesa di popolo" che Boffo ha saputo in effetti straordinariamente esprimere e interpretare, nei quindici anni della sua direzione.

Ma tra i cardinali, i vescovi e il clero c'è anche chi si è tenuto in disparte oppure ha invocato da subito le dimissioni di Boffo, nonostante le iniziali accuse a suo carico si rivelassero presto largamente infondate. Lo stesso Boffo ha dato adito a sospetti tardando giorni a scrivere una circostanziata difesa di sé, prima di dimettersi per sua decisione personalissima, contro la volontà del presidente della CEI e indipendentemente da qualsiasi sollecitazione di papa, che non c'è mai stata.

Entro settembre il direttivo della CEI nominerà il suo successore, che sarà forse Domenico Delle Foglie, ruiniano a tutto tondo. Anche perché, per paradosso, né gli antiruiniani né il cardinale Bertone hanno un loro candidato alternativo.



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“La questione non finisce qui”. Sul caso Boffo e sul suo successore

La scelta del successore di Dino Boffo alla direzione di “Avvenire” compete all’editore del giornale, cioè alla conferenza episcopale italiana. Si prevede che la decisione finale sarà presa quando, il 21 settembre, si riunirà il consiglio permanente della CEI. Di questo direttivo non fa parte il cardinale Camillo Ruini. Ma è indiscutibilmente “ruiniano” e in continuità con Boffo il candidato numero uno della stessa CEI, Domenico Delle Foglie.
“Avvenire” infatti, con Boffo direttore, ha fatto tutt’uno col “progetto culturale” lanciato dalla CEI di Ruini, cioè con quello “sforzo gigantesco di trasformare il messaggio della Chiesa in cultura popolare”, come ha detto il rettore dell’Università Cattolica, Lorenzo Ornaghi, in un dibattito a Milano lo scorso 9 settembre.
Contro la nomina “continuista” di Delle Foglie si agita però un fronte variegato, con il Vaticano in prima fila.
La segreteria di Stato punta su tre candidati: Roberto Righetto, responsabile delle pagine culturali di “Avvenire” non sempre consonante con Boffo; Giacomo Scanzi, direttore del “Giornale di Brescia” e docente di giornalismo alla Cattolica, molto stimato da Giovanni Maria Vian che dirige “L’Osservatore Romano”; Gianfranco Fabi, vicedirettore del “Sole 24 Ore” e direttore di Radio 24.
Quest’ultimo potrebbe essere l’uomo del compromesso, nel caso in cui cadesse la candidatura di Delle Foglie. Fabi è esterno agli equilibri cattolici ed ecclesiastici ed è quindi il più accettabile sia dai ruiniani che dagli antiruiniani.
In ogni caso, la discussione sul futuro di “Avvenire” si intreccia con i giudizi sull’attacco sferrato contro Boffo e il giornale della CEI.
Il sito www.chiesa ne ha dato conto in tre servizi del 31 agosto e del 3 e 10 settembre.

Qui di seguito, ecco invece sul caso Boffo l’analisi inedita del professor Pietro De Marco:

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1. Due schieramenti simmetrici, ora espliciti ora coperti, hanno caratterizzato lo scontro nella stampa e nell’opinione pubblica dopo l’attacco del “Giornale” a Dino Boffo (28 agosto), attacco portato in un teatro di polemiche e iniziative del “Giornale” stesso, di “Libero”, e del premier Silvio Berlusconi in prima persona.

Abbiamo da un lato lo schieramento dell’intelligencija, anzitutto sensibile alla denuncia di “Repubblica” e dell’”Unità” da parte degli avvocati di Berlusconi, ma abile nel situare subito la vicenda Boffo entro il mondo onirico della guerra antiberlusconiana e antigovernativa. A questo automatismo si sono conformate voci cattoliche del laicato militante e della politica, e qualche prelato. Per alcune di queste voci più che di cattocomunismo e cattocomunisti, formula desueta, bisognerebbe parlare di cattomanicheismo e cattomanichei.

Dall’altro c’è lo schieramento della stampa e di alcuni ambienti del centro-destra, in formazione di attacco: un “surge” deciso a replicare colpo su colpo alla lunga guerra aperta da “Repubblica” e dalla sinistra, e convinto delle ragioni dell’attacco di Vittorio Feltri al direttore di “Avvenire”.

Boffo è posto per gli uni come vittima e per gli altri come aggressore, in questo caso assieme a “la Repubblica” e De Benedetti, alla famiglia Agnelli, a D’Alema, magari a Fini, insomma al composito pantheon degli “dèi che cadono e si fanno molto male”, come titolava “il Giornale” del 6 settembre scorso.

È stato talmente comodo e conflittualmente efficace costringere Boffo in questo schema duale, che a pochi è parso utile ricordare che Boffo era altra cosa da un nemico per l’area di governo. Quello che Boffo ha detto ad Alfonso Signorini di “Chi”, fatto salvo il suo diritto a dissentire poi sui tagli e sulle accentuazioni cui il giornalista avrebbe sottoposto le sue frasi, esprime bene una arcinota verità: Dino Boffo e “Avvenire” non erano in nessun modo omologabili ai nemici del premier e del governo.

Una prima conclusione: Dino Boffo è stato vittima del cosiddetto “fuoco amico” ed è stato difeso da falsi amici.

Si è cercata la distruzione di Boffo, da parte di Feltri, perché lo si è preso per un nemico, nell’ansia di sparare a vista. Se ne è data, sull’altro fronte, una protezione contingente e strumentale.
Un errore, quello che ha portato al fuoco amico, con implicazioni pesanti quanto difficili da controllare. Proprio come nella frase attribuita a Boffo, non “minacciosa” ma facile prognosi: “La questione non finisce qui e avrà pesanti conseguenze anche sul fronte politico”.
Un errore, anzitutto. Basti pensare che Feltri ha ottenuto in un attimo il risultato che anni di circolazione intracattolica di un falso diffamatorio non erano riusciti ad ottenere. Ma non solo. Con l’autogol si offrivano alle sinistre, sia politiche che cattoliche, un pacchetto che comprendeva: la fine di Boffo e della sua sapiente moderazione di “Avvenire” e di altri media; la sanzione di una presunta “fine dell’età ruiniana”; il pretesto per una ennesima campagna contro Berlusconi liberticida e contro il governo; l’occasione per tutta la sinistra di mostrarsi “defensor Ecclesiae” e per i laicati cattolici critici, per gli scontenti della Chiesa “silenziosa e indulgente con premier e governo”, un motivo di alzare la voce e proclamare giunta la stagione della “Chiesa della profezia”, in concreto la mobilitazione dei fedeli, da parte di influenti cleri parrocchiali e organi di opinione ecclesiale, alla militanza contro la moderazione e l’intelligenza delle gerarchie e di “Avvenire”, oltre che contro il governo.

2. Ma vi è qualcosa di più complesso e di maggiore spessore. Il distruttivo attacco a Dino Boffo è un “lavoro sporco” di sinistra fatto da destra, a solo vantaggio della sinistra.
In effetti l’Anonimo, ovvero il falso rapporto che diffama Boffo, risulta da molti anni anticipato da lettere anonime equivalenti, inviate ai vescovi a più riprese. La comparsa di queste carte e la loro funzione evidente sono coincise col cambio di guardia nel governo dell’Università Cattolica (cioè con la nomina a rettore di Lorenzo Ornaghi, di cui è in scadenza nel 2010 il secondo mandato) e nell’Istituto Toniolo, che dell’università è l’ente fondatore e promotore, quando in fasi successive la componente laicale “cattolico-democratica” fu messa in minoranza. Boffo stesso entrava nel comitato permanente del Toniolo. Qualcuno non ha mai perdonato all’allora cardinale presidente della CEI, Camillo Ruini, questa profonda innovazione di uomini e indirizzi nell’ateneo dei cattolici italiani. Da tale ostilità, e non dai Sacri Palazzi immaginati à la Dan Brown, proviene il “coltello di Mackie Messer” di cui parla enfaticamente “la Repubblica”.
L’obiettivo errore diagnostico e strategico di Feltri e di alcuni ambienti conservatori anche cattolici ha prodotto così il successo di uno spericolato uso di dicerie e sospetti da parte di quei nemici reali di Boffo che oggi forse se ne dicono difensori ed estimatori. Il camuffamento dei fatti è tale che qualche ingenuo, nel mondo cattolico conservatore, ha fatto propria l’allucinazione feltriana di un “Boffo di sinistra” e ha pensato a una liberazione di “Avvenire”! Eppure in questa nuova e confusa situazione la risposta al “cui prodest” è inequivoca.
Lascio da parte la questione dei problemi di governo della conferenza episcopale italiana. Ritengo che si sarebbe potuto difendere Boffo con mosse che chiarissero subito l’assurda alleanza obiettiva di Feltri con un sottobosco ostile alla linea pastorale ed ecclesiale-politica del cardinale Ruini e alla sua eredità; un sottobosco con cui i vescovi non hanno propriamente a che fare. Occorreva, e occorre, far intendere “a destra” che si stava facendo un lavoro sporco a pro di molti nemici, e alle “sinistre” cattoliche di essere compromesse proprio con ciò che stavano deprecando.
Il nodo critico dell’Università Cattolica e del Toniolo, e la sconcia ritorsione di qualche anonimo per la sconfitta della parte “cattolico-democratica” in Cattolica, era e resta la dimensione politica della cosa, non gli eventuali peccati e reati di Boffo o qualche oscillazione di “Avvenire”. La volontà di non aggravare il disorientamento palese nel mondo cattolico ha certamente prevalso nella CEI, nella concitazione del dopo 28 agosto; purtroppo, però, a danno del discernimento veridico di quanto stava accadendo, della sua portata non contingente e pubblica (altro che “vizi privati” di un singolo!), e senza poter inibire la eventualità di altri calcoli spericolati e suicidi da ogni parte.

3. Le cose vanno considerate con respiro. Un patologico ipermoralismo da intelligencija invade da mesi, da anni, i quotidiani, i fogli di opinione e i siti della sinistra. L’opinione pubblica cattolica antigovernativa, anche di penna ecclesiastica, ne è coinvolta e si esprime ad esempio nei vaticini allarmistici di nuovo razzismo e fascismo. Il peggio è quando la lettura quotidiana della sfera pubblica è segnata da una discriminazione secondo il valore; e uomini e atti del potere avverso sono trasformati in “inimici” personali, non “hostes” pubblici e politici. Uno sviluppo perverso, entro l’equilibrio della politica occidentale, è che il privato del sovrano diviene politico, contro la dottrina classica dei due corpi del re. Così il privato è spiato non per tutelare alcuno o alcunché, ma per colpire l’avversario pubblico e il suo potere legittimo, tradendo le regole della sfera politica.
Un dualismo gnostico – a piena conferma del celebre teorema di Eric Voegelin – ha prodotto il mito di una presenza malvagia che ha contaminato il paese. L’intelligencija ha vissuto con angoscia la propria sconfitta nell’ultimo quindicennio politico come avvento di un universo alieno, sotto il dominio di un demiurgo inferiore, cieco e malevolente. L’odio dell’intelligencija alla persona del premier è odio ontologico. Anche Boffo era da anni un bersaglio, non minore, di questo odio, tradotto nelle forme e nei linguaggi del conflitto intracattolico.
Aver reso esecutivo da parte del “Giornale”, dunque dal lato di chi governa, ciò che nella prassi dell’intelligencija resta spesso solo un conato impotente di opposizione al Principe, è un tragico errore da non ripetere. Nell’abbondante letteratura sul “fuoco amico” vi è un capitolo importante su come distinguere senza errore, sul teatro delle operazioni, l’amico dal nemico. Sarà opportuno adattare analogicamente quelle tecniche di identificazione alla sfera politica, sperando e operando perché le numerose, e già leggibili, conseguenze dell’aggressione a Boffo possano essere neutralizzate o contrastate.

(Di Pietro De Marco, Firenze).


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"C'est FIni!": Galli, Mieli e la Chiesa

Di Antonio Socci

Voci insistenti sussurrano: “il Cavaliere è convinto che dietro i discorsi di Fini ci sia Paolo Mieli” (ieri un quotidiano lo ha anche scritto). Ma finora è rimasta in ombra la parte ecclesiastica di questo “progetto”. Provo a svelarla.

Che gli intellettuali della generazione sessantottina abbiano sempre aspirato a “dare la linea”, a etero-dirigere i leader politici e il Paese, magari grazie a una corazzata come il Corriere della sera, è risaputo. Ci provarono con Bettino Craxi e andò male perché li liquidò bruscamente come “intellettuali dei miei stivali”. Con Berlusconi il tentativo era impossibile per la sua atavica diffidenza verso quei cenacoli. Con Fini tutto è diverso. La sua ansia di legittimazione e il vuoto culturale che ha alle spalle si presta ad essere riempito (e così legittimato) da queste teste pensanti.

Ecco il senso della campagna di Galli della Loggia e del Corriere sui festeggiamenti per l’Unità d’Italia e sulla mancanza di un vero spirito nazionale nelle classi dirigenti. Costituisce una prima tappezzeria ideologica su cui può essere proiettata l’entrata in scena di Fini come nuovo leader di un centrodestra liberalnazionale (tipo Destra storica), in sostituzione di un Berlusconi che La Repubblica (e ora anche il Corriere) tentano di logorare quotidianamente e infine di affondare.

Una nuova “Destra storica” – questa di Galli e Fini – che ha, come la vecchia, un suo spirito ghibellino e Fini lo ha esibito negli ultimi quattro anni. Tanto è vero che l’altro strano editoriale recente di Galli sul Corriere era dedicato – guarda caso – all’abolizione del Concordato, idea bislacca per cui Galli si è inventato pure un’improbabile legittimazione cattolica, ma che di fatto entusiasma solo i radicali, sempre blanditi da Mieli e oggi tifosi dell’ex leader missino.

Il “trait d’union” intellettuale fra Galli della Loggia e il presidente della Camera pare sia Alessandro Campi, docente all’università di Perugia, collega e amico di Galli nonché “ghost writer” di Fini, forse ideatore pure della sparata che proclamava l’Italia “erede del politeismo” (quello di Nerone).

Ma c’è un altro vuoto che questo circolo intellettuale pensa di riempire per inglobare la Chiesa in quel progetto politico “gallofiniano”: è appunto il vuoto creatosi nella leadership cattolica dopo il pensionamento di Ruini e la defenestrazione di Boffo.

In realtà l’area Mieli-Galli ha avuto un buon rapporto con Ruini, ma per quei temi che riguardano l’identità giudaico-cristiana del’Occidente, per arginare – nel clima dell’11 settembre – quel cattoprogressismo terzomondista che strizza l’occhio all’Islam e detesta Stati Uniti e Israele. Invece il dissenso sui “valori non negoziabili” di Ruini è stato profondo, tanto che il Corriere di Mieli (schieratissimo) fu il vero sconfitto del referendum sulla legge 40 che nel 2005 vide vincitore Ruini.

Un nuovo orizzonte per questi circoli intellettuali e per Fini si apre con la fine dell’epoca Ruini. C’è un antefatto. Quando Bertone è diventato segretario di Stato vaticano ha reclamato il diritto di gestire in prima persona, dal Vaticano, il rapporto della Chiesa con la politica italiana, fino ad allora tenuto in esclusiva dal cardinale Ruini. Si è creato un certo conflitto con la Cei e alla fine ha vinto Bertone grazie al pensionamento di Ruini.

Ma il colpo di grazia è venuto con il “pensionamento” traumatico di Dino Boffo dalla direzione di “Avvenire”, perché Boffo era molto di più del direttore del giornale della Cei. Era lo stratega del ruinismo che puntava a fare dell’Italia il modello del cattolicesimo europeo.

Allora diventa significativo che ad assestare il colpo del ko a Boffo sia stato il direttore dell’Osservatore romano, Gian Maria Vian, parlando quasi come portavoce ufficioso di Bertone, proprio nelle ore successive all’attacco del “Giornale”. Con una intervista al Corriere della sera – pur esprimendo solidarietà umana per l’attacco di Feltri – ha sparato a zero sulla linea di Avvenire.

L’antagonismo fra le due linee si era evidenziata anche sui “valori non negoziabili” durante il caso di Eluana, quando le posizioni della Cei e di Bertone apparvero assai distanti, quanto quelle dell’Osservatore e dell’Avvenire.

In questi giorni altri segnali emergono con chiarezza. Ieri, per esempio, sulla pagina culturale di Avvenire, si poteva leggere che ad un convegno a Milano con Ruini e Galli della Loggia, è intervenuto Vian il quale, commentando le scelte di Ruini dopo la fine della Dc, ha testualmente definito “una sorta di araba fenice il Progetto Culturale di cui ora si incomincia a intravedere qualcosa”.

Qualunque giudizio si dia sul “Progetto Culturale” che ha connotato l’epoca Ruini alla presidenza della Cei, non si era mai visto un direttore dell’Osservatore romano attaccare così, esplicitamente e frontalmente, colui che è stato finora il leader della Chiesa italiana.

E’ solo un episodio? No. Per capire l’ “aria nuova” che tira, anche sui “valori non negoziabili”, basta vedere l’Osservatore del 9 settembre dove è apparso un articolo di Lucetta Scaraffia intitolato “Qual è la vita che difendiamo?”, il cui svolgimento è confuso, ma chiaro nella conclusione, obiettivamente assai critica verso la “cultura della vita” dell’epoca Wojtyla-Ruini.

Citando infatti Ivan Illich, la Scaraffia scrive: “Bisogna riflettere sulla provocazione di Illich: i cattolici devono essere capaci di trasmettere l’amore per la Vita come è intesa nelle parole di Gesù, una Vita che diventa amore per le creature sofferenti, e non continuare a diffondere e sostenere un concetto biologico astratto che è estraneo alla nostra tradizione, che spesso ci rende ideologici e poco credibili”.

Wojtyla è sistemato. Qualcuno potrebbe credere che – per quanto sia singolare leggere questi argomenti sull’Osservatore – si tratti di idee di una singola editorialista. Sennonché la Scaraffia – che, guarda caso, è pure la moglie di Galli Della Loggia – nell’epoca Vian (talvolta con gaffe e scivoloni) esprime un po’ la linea del giornale, come lo stesso Vian ha fatto capire nell’intervista al Corriere.

Di certo questo “nuovo approccio” è molto più compatibile con le posizioni laiciste di Fini rispetto a quello di Ruini. Infatti, emblematicamente, nel pieno del “caso Boffo”, Fini ha tentato una sortita in campo cattolico – a lui precluso da tempo – e al convegno delle Acli ha parlato, come un politico di centrosinistra, sul tema dei diritti politici degli immigrati. Proprio nei giorni in cui Berlusconi era in crisi con la Chiesa, con l’ambizione di soppiantarlo.

A questo punto non stupirà che sempre sull’Osservatore, il 13 agosto scorso, sia apparso un articolo di un intellettuale, di “area Galli”, che fa un monumento a Galli della Loggia stesso per la sua campagna sulle “celebrazioni per l’unità d’Italia” e suona una fanfara risorgimentale un po’ buffa sull’Osservatore, soprattutto laddove dice che “i fattori coesivi della nostra identità” sono “la lingua e il patrimonio letterario”.

Dimenticando la religione che poteva menzionare anche solo citando un risorgimentale cattolico come Manzoni, il quale cantava l’Italia “una d’arme, di lingua, d’altare/ di memorie, di sangue e di cor” (l’altare – almeno sull’Osservatore – vogliamo mettercelo?).

Tutto questo somiglia alla predisposizione di un retroterra ideologico di un nuovo centrodestra post-berlusconiano (che magari torna a inglobare l’Udc): potrebbe andare da Montezemolo alla Scaraffia, con Casini (Fiat Lucetta invece che Fiat lux). E magari Fini al Quirinale. Un disegno ambizioso. Probabilmente velleitario. Che però spiega bene il senso delle parole di Mieli, l’altroieri, al convegno di Milano, dove ha “consigliato” alla Chiesa di “dedicarsi ai laici in dialogo perché il soccombere di questa posizione provoca danni a tutti”.

Dunque se affonda “Papi”, avremo “Mieli Papa” ?


lunedì 7 settembre 2009

Dove vuole arrivare il "compagno" Fini (click)

di Vittorio Feltri

Caro presidente Fini,
sono abituato agli attacchi personali di giornalisti e politici e non mi sono offeso dei tuoi nella circostanza dell’affaire Boffo. Hai definito i nostri servizi in proposito esercizi di killeraggio, qualcosa di vergognoso, un esempio di giornalismo da bandire; le stesse accuse rivolteci dalle voci e dalle penne di sinistra non più intinte nell'inchiostro rosso, bensì nell’acqua santa; voci e penne che fino ad alcuni mesi orsono erano impegnate a criticare la Chiesa, il Papa, i vescovi, i parroci e anche i sacristi colpevoli di ingerire negli affari interni dello Stato italiano.

Poiché anche tu, come me, sei avvezzo agli attacchi (per lustri ti hanno dato del fascista, a te e perfino a Tatarella, giudicato indegno di sedere al governo perché missino), accetterai quanto sto per dirti con spirito sportivo. Specialmente adesso, che sei amato più dall’opposizione che dalla maggioranza, reputerai civile un dibattito alla luce del sole, addirittura pubblico e con i crismi della democraticità.

Sulla vicenda Boffo ti sei comportato, tu, e non il Giornale, in modo vergognoso. Hai espresso un'opinione dura verso di me senza conoscere, nella migliore delle ipotesi, i fatti. Se li avessi conosciuti saresti stato prudente. Invece hai sparato per il piacere di sparare o per convenienza, che è anche peggio. Ti sei accodato agli intelligentoni del Pd e ai cronisti mondani di la Repubblica nella speranza di fornire un’altra prova che hai le carte in regola per entrare nel club dei progressisti.

Non c’è altra spiegazione logica al tuo atteggiamento ostile verso un quotidiano che non ha ficcato il naso sotto le lenzuola ma nelle carte del Tribunale, divulgando un decreto di condanna e non le confessioni di una puttana come ha fatto la Repubblica con il tuo tacito consenso, visto che non risulta tu l'abbia biasimata per la campagna trimestrale, contro il leader del tuo partito, condotta esclusivamente sulla scorta di chiacchiere da postribolo.

Prima di unirti al coro invocante la mia crocefissione in piazza, dato che non sei ancora il segretario del Pd, bensì il presidente della Camera, avresti dovuto informarti. Bastava una telefonata a me, e non sarebbe stata la prima; se non altro, ascoltando l'altra campana, ti saresti chiarito le idee e le tue dichiarazioni sarebbero state più caute. Non ti è neanche passato per la mente che un conto sono i pettegolezzi e un altro i reati. Obietterai. Ma tu hai dato dell'omosessuale al direttore dell'Avvenire. Ti rispondo, caro Fini: l'omosessualità non è un reato; e neppure un peccato, per me non cattolico. Piuttosto tu, amico mio, un paio di anni orsono ti lasciasti sfuggire una frase infelice e memorabile: "Un maestro elementare non può essere gay". Con ciò dando per assodato che un gay sia anche pedofilo.
Converrai, di questo dovresti vergognarti.
Poiché l'omosessualità non è in contrasto con la legge, non mi sarei mai sognato di rimproverarla a Boffo. E in effetti gli ho solo "ricordato" le molestie a sfondo sessuale a causa delle quali è stato condannato dalla giustizia ordinaria, e non da me. Il Giornale si è limitato a riferire un episodio, ciò rientra nel diritto di cronaca (ho scritto cronaca, non gossip).

Prendo atto che in un biennio hai cambiato posizione sui gay e non li consideri più - era ora - immeritevoli di stare in cattedra. Però un'altra volta avvisaci prima delle tue virate, altrimenti ci cogli impreparati. A proposito di virate. Sei ancora di destra o da quella parte ti sei fatto superare da Berlusconi? Non è una domanda provocatoria. Nasce piuttosto da una costatazione. Sulla questione degli immigrati, parli come un vescovo. Sul testamento biologico parli invece come Marino, quello della cresta sulle note spese dell'Università da cui è stato licenziato.

Intendiamoci, su questo secondo punto, molti sono d'accordo con te perfino nel Pdl, me compreso. Ma sul primo, scusa, è difficile seguirti. Tempo fa con Bossi firmasti una legge, che porta i vostri nomi, per regolamentare gli ingressi degli extracomunitari. La quale legge, nella pratica, si è rivelata insufficiente per una serie di lacune organizzative e burocratiche su cui sorvolo per brevità. Era ovvio che il governo di centrodestra, non appena insediato, correggesse e integrasse quelle norme introducendo il reato di clandestinità e, grazie alla collaborazione della vituperata Libia, i respingimenti, che non riguardano gli aventi diritto all'asilo politico, ma chi viene qui convinto che l'Italia sia un gruviera in cui ogni topo, delinquenti inclusi, ottiene ospitalità e impunità.

A te la nuova disciplina, benché indispensabile, non va a genio. E vai in giro a dire che è una schifezza, e immagino, tu punti a farla cancellare. Affermi che occorre essere più umani. Edificante. Ma come si fa? Ci teniamo tutti gli immigrati incentivando altri arrivi in massa? E dove li mettiamo? Case, ospedali, scuole, servizi e posti di lavoro: provvedi tu a crearli? Con quali soldi? Buono chiunque a essere umano scaricando sulla collettività - in bolletta - ogni onere. Perché viceversa non ti dai da fare per persuadere l'Europa, che ci fa le pulci, a condividere con noi il problema e a pagare le spese della soluzione? Per esempio con la spartizione, fra i vari Paesi membri della Ue, degli immigrati che approdano alle nostre coste?

A te non premono soluzioni alternative, sennò faresti proposte anziché lanciare critiche alla tua stessa maggioranza. Ti sta a cuore la simpatia della sinistra, che non sai più come garantirti. Il motivo si può intuire; se sbaglio correggimi. Miri al Quirinale perché hai verificato che la successione a Berlusconi avverrà con una gara cui è iscritta una folla. Fare il ministro non ti va; hai già dato. Fare l'uomo di partito, figurarsi; anche qui hai già dato. Continuare ad occupare la presidenza della Camera? Che barba. E allora rimane il Colle, lì a due passi da Montecitorio.

Per arrivarci servono molti voti, ma non ne hai abbastanza nel Pdl. È necessario raccattarne a sinistra, alla quale, dunque, fai l'occhiolino nell'illusione di sedurla. Oddio. L'hai sì conquistata; lo si è potuto vedere alla Festa dell'ex Unità dove sei stato salutato quale novello Berlinguer. Ma la sinistra ti usa perché le fai comodo; sei il suo tassì. Al momento di eleggere il presidente della Repubblica (la prossima legislatura) ai progressisti sarà passata la cotta. E da loro non beccherai un voto.

Consiglio non richiesto: rientra nei ranghi. Torna a destra per recitare una parte in cui sei più credibile; non rischierai più di essere ridicolo come lo sei stato spesso negli ultimi tempi.

venerdì 4 settembre 2009

Riconciliazione storica (click)

Con l'accordo tra Ankara ed Erevan si sgonfia la bolla del genocidio armeno

di 4 Settembre 2009

L’accordo per la normalizzazione dei rapporti tra Armenia e Turchia siglato pochi giorni fa tra i due governi avrà immense conseguenze e tra queste non ultima vi sarà un’onda di vergogna che ricadrà sul Parlamento francese e su quello europeo che hanno preteso di legiferare – non avendone il minimo titolo e il minimo diritto – sulla verità storica, arrogandosi addirittura il blasfemo diritto di inventare il reato di “negazione del genocidio armeno” per cui uno dei più grandi storici contemporanei (e di tutti i tempi) dell’Islam, Bernard Lewis, è stato condannato.

L’accordo tra Repubblica di Turchia e Repubblica di Armenia contemplerà infatti la formazione di una commissione comune di storici che avranno il compito di esaminare tutti i documenti esistenti e soprattutto di definire una verità condivisa dalle due nazioni sui massacri del 1914-15. Verrà così assegnato agli unici titolari –i due popoli e i loro due stati, le loro due culture e storiografie – il compito di fare luce su quell’episodio atroce della loro storia e chiunque nel frattempo si è arrogato il diritto (da duemila chilometri di distanza e sessanta anni dopo) di stabilire per legge “verità assolute” e pene detentive per chi le neghi, verrà a trovarsi in una posizione meschina e indifendibile (perché meschini e indifendibili erano in realtà i motivi di questa operazione schifosamente – è il caso di usare questo termine- elettoralistica).

Come si sa, l’oggetto del contendere tra turchi e armeni, decantati negli ultimi decenni gli animi e formatosi finalmente lo Stato Armeno dopo la dissoluzione dell’Urss, non è tanto sull’esistenza o meno dei massacri e sulla morte o meno di centinaia di migliaia di armeni di cittadinanza turca nel 1914-15 (morte ammessa dalla parte turca, anche se limitata a “sole” 300.000 persone), quanto la loro finalità. Secondo la comunità armena si è trattato di un genocidio, del primo genocidio del secolo (che avrebbe addirittura ispirato Hitler), della volontà cioè del governo dei Giovani Turchi di uccidere gli armeni in quanto popolo, di estirparlo con la morte dal territorio ottomano. Secondo la storiografia turca, invece, si è trattata di una legittima operazione bellica – lo spostamento lontano dal fronte di scontro con l’esercito russo (cristiano come gli armeni) di una immensa “quinta colonna” che simpatizzava con il nemico russo (dando luogo a vere e proprio rivolte filo russe, come quella di Van del 1914, e organizzando disfattismo e diserzioni dentro l’esercito ottomano), durante il quale sono morte 300.000 persone non per volontà del governo, ma per attacchi di bande di curdi e altre casualità.

Secondo una storiografia equilibrata, che condividiamo in pieno e di cui è totalmente convinto anche Guido Rampoldi di Repubblica, si è effettivamente trattato di un massacro ma non di un genocidio, della volontà determinata di “uccidere gli armenti in quanto armeni” (come fu fatto con gli ebrei nella Shoà), bensì di una clamorosa – e orrenda – operazione di pulizia etnica, che trova le sue motivazioni reali nella dinamica bellica (gli armeni erano effettivamente schierati a fianco dei russi) e che però è trascesa in una pratica di sterminio spesso voluta espressamente dal governo di Istanbul, spesso favorita (l’odio etnico reciproco tra i razziatori e assassini curdi e gli armeni era di lunga e millenaria data). La differenza politica e morale tra i due termini “genocidio” e “pulizia etnica” è immensa ed è su questa, esattamente su questa, che si gioca la difficile partita di definizione della verità condivisa tra turchi e armeni oggi.

Per essere chiari: i giovani Turchi presero esempio per la loro decisione di deportare gli armeni (sfiancandoli e uccidendoli) dal regio esercito italiano che questo aveva fatto durante la guerra di Libia del 1911-13, deportando la popolazione civile della Cirenaica e decimandola durante marce forzate di mesi. Esercito di un Italia democratica e pre-fascista, durante una guerra coloniale che era stata salutata dal socialista Giovanni Pascoli con le parole d’incitamento: “La grande proletaria si è mossa…”. Ma se mai qualcuno osasse definire i massacri compiuti in Libia dall’esercito giolittiano e poi da quello fascista come “genocidio”, l’Italia intera si ribellerebbe perché sarebbe un’onta, un’infamia che macchierebbe la coscienza nazionale e la bandiera nazionale. Altrettanto si potrebbe dire per altri popoli e nazioni –in primis l’Urss staliniana – per gli immensi – e sanguinosissimi – spostamenti di milioni di persone appartenenti alla stessa etnia (con centinaia di migliaia di morti) operati durante le seconda guerra mondiale all’interno e all’esterno del proprio territorio nazionale.

Per di più, a smentire la volontà genocida dei turchi nei confronti degli armeni, la volontà cioè di ucciderli e sterminarli in quanto popolo, vi sono proprio le cifre ufficiali riportate dalle due principali fonti contemporanee che testimoniarono del massacro degli armeni. Arnold Toynbee che viene sempre citato come storico (in effetti è stato uno dei maggiori del ‘900), ma che in realtà sul tema scrisse in qualità di agente del Foreign Office e quindi con una buona dose di parzialità di propagandista bellico, afferma che ben 150.000 armeni (su una popolazione che stima tra 1,6 e 2 milioni), residenti a Istanbul e Izmir, non furono perseguitati. Cifra che Johannes Lepsius (un pastore protestante tedesco) eleva a 205.000 unità.

Per tornare al paragone col genocidio ebraico, che gli armeni rivendicano per le loro vittime, il quadro, trasferito alla Germania hitleriana avrebbe comportato la totale immunità delle decine di migliaia di ebrei residenti a Berlino e Vienna, mentre sarebbero stati sterminati solo quelli della estrema periferia del reich. In realtà, si ha notizia della deportazione di 2.500 armeni di Istanbul, scelti tra i leader e l’intellighentsjia della comunità, a suffragio della tesi di una feroce volontà di pulizia etinca motivata dal timore che la comunità armena agisse – e effettivamente ve ne erano state le prove – come quinta colonna dell’esercito russo.

Insomma, con tutto il più partecipato risepetto per le vittime armene e per i sopravissuti, le ragioni di una Turchia che finalmente è uscita negli ultimi anni dalla negazione totale – e violenta e inaccettabile – di quegli eccidi, ma che rifiuta l’infame appellativo di nazione genocida, paiono solide e ben motivate e scarsamente provata, per converso pare quella volontà di “uccidere gli armeni in quanto armeni”, quindi tutti gli armeni, che giustificherebbe l’accusa genocida. Ma, detto questo, solo per inciso e per chiarire – non per la prima volta – quale sia il punto di vista di chi scrive, va ribadito un punto che riteniamo determinante: la verità storica condivisa non può e non deve essere imposta da parlamenti, non può essere trasformata in legge, ma deve essere affidata innanzitutto al confronto tra i due popoli – turchi e armeni – le loro culture, i loro stati. In realtà il parlamento francese – e quello europeo – e anche il parlamento Usa (che fu però bloccato da G. W. Bush su questa strada, che però Obama stava pericolosamente per intraprendere), nel momento in cui si è proclamato detentore di verità storica e ha addirittura deciso di punire il negazionismo sul genocidio armeno, non sì è mosso per alti ideali. Si è mosso sulla base di bieche e poco onorevoli motivazioni elettorali.

Va infatti ricordato che negli anni ’70 si ebbe una forte ondata di terrorismo armeno contro obbiettivi turchi che provocò decine di vittime in Turchia, così come in Europa. Quegli attentati irrigidirono ancora di più l’intera comunità turca – ovviamente – ma riuscirono nell’obbiettivo di riportare la questione all’onore della cronaca. La fortissima comunità armena dell’emigrazione, che influenza in Francia e negli Usa quote non trascurabili dell’elettorato, pur dissociandosi dai terroristi armeni (ma non sempre e non in toto), riprese così una sua legittima attività di lobbyng sul tema, anche perché nessuno pensava che l’Urss sarebbe crollata e che quindi quella Repubblica armena che essi si aspettavano dal trattato di Sèvres del 1920, si sarebbe ripresentata alla storia con tutta la sua piena e libera sovranità (sia pur parziale, dal punto di vista territoriale).

Il successo di questa attività di lobbyng in Francia e nel Parlamento europeo e la conseguente approvazione della legislazione che proclama verità storica indiscutibile il “genocidio degli armeni” e di conseguenza punisce penalmente i trasgressori, fu però il portato di motivazioni trasversali ai gollisti e ai socialisti di ben misero profilo. Innanzitutto la volontà di ingraziarsi una componente che poteva muovere l’1-2% dell’elettorato (che in un sistema a doppio turno può essere determinante, soprattutto perché concentrata su Parigi e pochi altri centri urbani, quindi con impatto ben più elevato sui singoli collegi) e poi per dare – questo i gollisti – un forte segnale anti-turco, quindi antislamico all’insofferenza nei confronti dell’immigrazione di parte dell’elettorato. Segnale rafforzato dal “no” all’ingresso della Turchia nell’Ue, espresso da queste stesse forze.

Una pagina poco brillante –per meglio dire, vergognosa – del Parlamento francese che ha prodotto una legislazione non solo illiberale, ma che soprattutto ha alimentato una situazione di permanenza di odio e risentimento nella comunità armena nei confronti della Turchia (a cui fa da contrappeso una speculare situazione di odio e risentimento in ampi ambienti della Turchia, va detto), che fa poco onore alla Francia e all’Europa e che ora la coraggiosa iniziativa del presidente turco Gül (che inaugurò una diplomazia del football, andando a Erevan, tra le polemiche, ad assistere ad una partita per i mondiali tra le due nazionali) e che poi ha condotto con l’omologo armeno una lunga e paziente trattativa che ora pare dare i suo frutti. Nel segno della pacificazione e del rispetto reciproco, nonostante la pessima azione di disturbo franco-europea.


RU 486- così in Italia (click)

Ru486. Firmi qui, e vada pure a casa ad abortire

«Non è contro la 194». «Non si preoccupi». «Non fa male». Ecco come negli ospedali si risponde a chi chiede di utilizzare la “kill pill.

Roccella: dopo inchiesta Tempi, necessaria un'indagine parlamentare

Il Tg1 parla dell'inchiesta di Tempi. Guarda il video

Gasparri: inchiesta Tempi dimostra uso domestico Ru486

Leggi l'intervista a Romano Colozzi (Aifa)

di Benedetta Frigerio

Il 30 luglio scorso l’Agenzia italiana per il farmaco (Aifa) ha approvato la commercializzazione della pillola Ru486, che induce l’aborto senza bisogno di interventi chirurgici. Il farmaco è al centro della polemica tra chi ne vuole la distribuzione nel paese e chi denuncia la sua pericolosità (la letteratura scientifica attesta ventinove casi di morte). L’espulsione del feto dall’utero materno avviene tra il terzo e il quarto giorno dall’assunzione, ma in data impossibile da stabilire, rendendo così complessa l’assistenza della paziente. Nel 2005 il ginecologo radicale Silvio Viale ha ottenuto il permesso di sperimentare la pillola presso l’ospedale Sant’Anna di Torino a condizione che le donne rimanessero ricoverate per un periodo minimo di tre giorni nel rispetto della legge 194 sull’interruzione di gravidanza, che richiede che l’aborto avvenga all’interno della struttura ospedaliera. Nello stesso periodo sono state avviate sperimentazioni anche in Liguria, Toscana, Emilia Romagna e, nel 2006, in Puglia. Il progetto torinese è stato poi interrotto l’anno successivo in seguito a un’indagine della magistratura, insospettita dai troppi aborti avvenuti fuori dall’ospedale (le donne possono chiedere le dimissioni volontarie, ma il medico è tenuto a convincere i pazienti a rimanere in ospedale finché richiesto dal protocollo clinico). In questi anni le sperimentazioni avviate in diversi ospedali sono continuate, diventando prassi regolare di cui, però, poco si conosce. Per questo motivo e in seguito alla decisione dell’Aifa, il capogruppo Pdl Maurizio Gasparri ha chiesto al Senato di avviare un’indagine conoscitiva sulla Ru486.
Tempi, così come farebbe una donna incinta alle prime settimane di gravidanza, ha chiesto informazioni telefoniche a medici, personale ospedaliero e consultori che utilizzano o hanno utilizzato la Ru486. Ecco i resoconti dei dialoghi.

Ospedale Santa Maria di Borgotaro
Volevo sapere come funziona la Ru486.
Viene qui, le do la prima pillola e torna a casa, il terzo giorno ritorna per prendere la seconda pastiglia, poi torna di nuovo a casa e viene in ospedale quattordici giorni dopo per un esame di controllo.
Se abortisco a casa violo la legge 194? Delle persone fidate mi dicono che l’aborto farmacologico è doloroso.
Sa cosa bisognerebbe dire alle amiche? F.c.t. che vuol dire: fatti i cazzi tuoi. Lasci perdere i consigli delle amiche e venga qui che ci penso io.

Ospedali Riuniti di Ancona
Vorrei usare la Ru486. Devo rimanere in ospedale?
Sì, in teoria dovrebbe fermarsi fino all’espulsione del feto, ma non si preoccupi: basta mettere una firma sulla cartella clinica e se ne può andare senza problemi.
E' doloroso?
Prima pensi ad andare al consultorio a presentare domanda, poi le spiegheranno.

Azienda Ospedaliera Senese
Da voi si può abortire con la Ru486?
Mi spiace signora il servizio è stato sospeso, se vuole c’è l’aborto chirurgico.


Ospedale Riuniti della Valdesa
Mi può spiegare come funziona la Ru486?
Non si usa più. So che si faceva qualche anno fa ma è stato solo per alcuni mesi in via sperimentale. Ora che è stata autorizzata la vendita ricominceremo il servizio, penso da settembre.
Ma è stato sospeso tutto anche nel resto d’Italia?
Credo di sì, perché c’è stata una normativa che vietava l’uso del farmaco.

Ausl di Empoli
Praticate l’aborto con la pillola?
Il servizio non è ancora ricominciato. La Ru486 qui non viene più usata. Abbiamo bloccato tutto, quando il ministero della Sanità ha interrotto la pratica. Ci stiamo riorganizzando, ma siamo fermi da un anno e ci vorrà un po’ di tempo.

Ausl di Pontedera
Posso tornare a casa dopo aver preso la pillola?
In teoria deve venire in ospedale e rimanere ricoverata per tre giorni.
Quindi non abortirò in casa.
No, anche se normalmente quelle che abitano lontane firmano per uscire prima. In quel caso l’espulsione avviene sicuramente fuori dall’ospedale.
Si corrono pericoli?
No signora.

Ausl di Montecchio
Sono obbligata a stare in ospedale?
No, qui non ci sta, salvo problemi.
Così non vado contro la legge 194?
No, no, assolutamente no! E' tutto consentito dalla legge, assolutamente, ci mancherebbe altro, se no non verrebbe fatto, soprattutto in un ospedale pubblico. è tutto legale. Non si preoccupi: anche se rimane qui solo un’ora lei risulta ricoverata, ma poi non è che rimane qui a dormire. L’espulsione non avviene qui. Avverrà quando è fuori perché qui ci rimane solo mezz’oretta e normalmente l’espulsione è tra il terzo giorno e il quattordicesimo.
Sentirò male?
Bè, fa male: è una mestruazione dolorosa, non è che non sente niente. Non posso dirle che non sentirà assolutamente niente, l’utero si contrae per far uscire il contenuto, ma comunque è un tipo di dolore che avrebbe anche con l’interruzione chirurgica. Non è molto diverso.

Azienda ospedaliera di Reggio Emilia
Lei ha un accento lombardo, dove abita?
Vicino a Milano, ma qui, che io sappia, non ci sono ospedali che usano la Ru486. Devo rimanere ricoverata nel vostro ospedale?
Assolutamente no. Mi scusi, ma quanti giorni vorrebbe rimanerci? Tra una cosa e l’altra sarebbero tra i dieci e i quindici giorni, è una cosa assurda. So che il vostro presidente della Regione ha fatto sì che ci sia un ricovero di tre giorni, ma questo è assolutamente demenziale.
Quindi non posso stare lì?
Assolutamente no, signora. Anche perché l’ospedale è per casi acuti, non per cose che si possono tranquillamente gestire a domicilio. L’aborto avviene spontaneamente a casa.
A casa?
Sì, sicuramente. (...) Poi verificheremo se è avvenuto.
E' doloroso?
Certo che è doloroso. L’aborto è aborto e fa male. La Ru486 non è una pillola magica. Se poi questo è il messaggio che stanno facendo passare non è colpa mia, ma è una fandonia.

Ausl di Carpi
Non è vero che la legge richiede di rimanere in ospedale?
(...) No perché non viene ricoverato nessuno. Non è un alloggio. O c’è una necessità medica o altrimenti non è un albergo, e poi non è fattibile, non avremmo posti letto a sufficienza.

Azienda ospedaliera di Modena
Se l’aborto non avviene subito posso tornare a casa?
Sì.
Così non violo la 194?
Questa procedura è una procedura interna alla 194.
Ma la 194 richiede l’aborto fatto in ospedale e non a casa da soli.
Non è assolutamente vero, la legge non dice così.
Devo fare qualche esame d’idoneità?
Noi non lo richiediamo. Cosa vuole, fin che è giovane e non ha mai avuto problemi allergici può fare tutto!

Ospedale Maggiore di Bologna
Non si resta in ospedale. Prende il farmaco e poi può tornare a casa.
Ma non devo fare prima degli esami d’idoneità alla pillola?
Non c’è bisogno, se succede qualcosa può tornare in ospedale.

Azienda ospedaliera S. Anna di Ferrara
Certo che l’espulsione può avvenire in casa, ma non c’è alcun problema se accade.
E quando vengo in ospedale?
Quando prende la prima pillola che abbiamo ordinato e poi per la seconda pillola. Ma non deve trattenersi in ospedale.
Nemmeno se voglio?
No signora, non si può.

Consultorio di Ravenna
Vorrei abortire con la Ru486.
Prima devo chiederle per protocollo se ha già deciso.
Sì.
Bene. Ci vuole un certificato medico e poi vada subito in ospedale e faccia richiesta della pillola ma bisogna che faccia in fretta e ci vada subito.
Come funziona il farmaco?
Ci vuole il certificato del ginecologo, poi lo porta in ospedale. Le conviene andare a Ravenna, lì fanno meno storie. Loro richiedono il farmaco, poi torna dopo una settimana, prende una pillola e dopo poco la seconda. Nel frattempo può avere un aborto spontaneo che è una mestruazione abbondante, poi bisogna fare una visita di controllo per vedere se è venuto tutto pulito.
Posso stare in ospedale?
No, lei non deve stare in ospedale, lì va solo a prendere la compressa poi torna a casa.
Cosa succede se abortisco a casa?
Non succede niente perché lei praticamente avrà solo una mestruazione abbondante. Se ha particolari dolori magari si rechi al pronto soccorso, altrimenti non deve fare niente. Comunque, la sostanza da eliminare è veramente poca. Lei cosa pensa di fare?
Sono un po’ confusa.
Abortire a casa non è illegale perché questa sperimentazione è un pezzo che si fa. Tra l’altro adesso l’hanno anche approvata, per cui non è assolutamente illegale.
Ma la 194?
La 194 è un’altra cosa: prevede l’aborto entro il terzo mese. La sperimentazione con questa pillola a Ravenna la facciamo da due anni. Ora verrà commercializzata a breve e si userà in tutti gli ospedali, anche in Lombardia probabilmente. (...) Non si immagini chissà che cosa, è una semplice mestruazione, tutto qua.

Ausl di Scandiano
Posso poi tornare a casa?
Deve. Non si sta mica qui.
L’aborto avviene a casa?
Dipende. Capita che avvenga subito qui, ma se le succede a casa è lo stesso.


Ospedale di Guastalla
Non è necessario il ricovero.
Posso abortire a casa?
Mi scusi, il senso della Ru486 è questo: prendere la pillola per abortire a casa.

Ospedale Delta di Ferrara
Non rimane ricoverata. Viene qui la mattina, poi va a casa e ritorna solo a fare i controlli.
L’espulsione del feto avviene in casa?
Sì, cioè avrà delle perdite, non è che vede proprio il... Non è niente di più che una normale mestruazione. Se ha problemi torna subito in ospedale.
E' doloroso?
E' una mestruazione un po’ più dolorosa.
Quindi sto tranquilla, è tutto legale?
E' tutto legale e rispetta i protocolli. Il ricovero non ha senso, se no non ci sarebbe nessun vantaggio. Altrimenti fa il raschiamento in un giorno, viene la mattina, va via la sera e tutto finisce lì.

Ausl di Lugo
Cosa vuole? Stare ricoverata quindici giorni?
E' tutto legale?
In effetti adesso c’è un dibattito su questa procedura, ma noi non abbiamo ancora ricevuto disposizioni diverse. Comunque le donne qui entrano ed escono, questa è la nostra procedura approvata.
L’aborto con la Ru486 è sicuro, vero?
Le probabilità di insuccesso sono del 15 per cento e succede che bisogna poi ricorrere all’intervento chirurgico. Molte volte non c’è la pulizia dell’utero ma noi abbiamo la nostra procedura che è così e non possiamo fare diversamente.
Ma è doloroso?
Bè, dopo la prima pillola un po’ di dolorini le vengono, dopo la seconda può avere perdite ematiche abbondanti: contrazioni uterine, vomito o diarrea e malessere generale. Le mando un fax che spiega tutto.

Ospedale Santa Chiara di Trento
Rischio di espellere il bambino a casa?
Capita di rado, di solito avviene tutto in ospedale.
Quindi resto ricoverata?
No, entra ed esce dall’ospedale ma noi le diamo un numero di telefono per sicurezza.
Non c’è pericolo che abortisca a casa?
E' più raro che avvenga a casa. Non si preoccupi.

Ausl di Fiorenzuola

So che da voi si può usare la pillola abortiva.
Per il momento no. Non so se ha seguito la polemica sui giornali, ma la Ru486 ora è stata introdotta nella farmacopea italiana, tuttavia non è ancora stato stabilito il protocollo d’uso, perciò siamo in attesa di questo corollario e contemporaneamente abbiamo sospeso la modalità precedente. Noi facevamo venire dalla Francia il prodotto ed effettivamente è vero, fin che non è stato approvato il farmaco ci siamo comportati così. è stata una decisione della Regione Emilia Romagna, della Regione Toscana e dell’Umbria, di procedere comunque in attesa del regolamento nazionale. Però, adesso che è stata approvata la pillola siamo in attesa: l’interpretazione che ho dato io e la Usl di Piacenza è di sospendere l’uso del farmaco fino a nuovo ordine del ministero della Sanità.
Non c’è nessun altro che usa la pillola?
Non che io sappia nei dintorni. Nella provincia di Piacenza è così.

Ausl di Piacenza
Si può abortire con la Ru?
Il nostro ospedale la usa. Qui le donne continuano a prendere la pillola e tornano a casa dove avviene tutto senza problemi.

Ospedale Policlinico di Bari
Volevo delle informazioni sull’interruzione di gravidanza con la pillola Ru.
Mi spiace, il servizio riprenderà a settembre, al momento è sospeso per ferie.

mercoledì 2 settembre 2009

Beslan: September, 2004

Beslan, la strage degli innocenti coperta dalle menzogne russe

L'anniversario che non piace a Putin (click)

1 Settembre 2009

L’altro settembre nero, il peggiore dopo l’11/9, fu quello del 2004 in Ossezia del Nord. La mattina del 4, alle 9.30 in punto, i ragazzi si preparavano a iniziare le lezioni del nuovo anno scolastico nella cittadina di Beslan. C’erano un migliaio di persone quando i terroristi islamici e i separatisti ceceni si abbatterono come uno sciame di cavallette sulla scuola. Scesero dai camion armati di kalashnikov e di cinture esplosive, presero in ostaggio i ragazzi, gli insegnanti e i loro genitori, e la loro malvagità ebbe il sopravvento per tre lunghissimi giorni. Chiusi nella scuola assediata dall’FSB e dall’esercito russo, gli studenti furono costretti a bere urina per dissetarsi, mentre le donne e le giovani ragazze venivano denudate e stuprate per insegnargli cosa vuol dire essere sottomesse. I maschi adulti erano già stati eliminati tutti in una volta, una dozzina almeno, per dare l’esempio.

Quando le forze di sicurezza russe intervennero il risultato fu una strage: 331 ostaggi morti, 186 di loro bambini. 700 feriti, decine di orfani e mutilati. Per i pochi sopravvissuti e per le famiglie delle vittime fu un trama inaudito, che alcuni cercarono inutilmente di rimuovere mentre altri, anch'essi testimoni, vollero elaborare per fare chiarezza su ciò che era avvenuto. L’allora presidente Putin e le autorità del Cremlino non hanno mai offerto spiegazioni ufficiali credibili e sono stati spesso smentiti. Gli ufficiali dell’FSB hanno dichiarato di aver fatto partire l’attacco dopo che era già iniziata la mattanza degli ostaggi, ma le fonti emerse successivamente indicano che furono i proprio i militari russi a innescare la battaglia: lanciando granate e usando armi termobariche contro l’edificio, facendo crollare il tetto della scuola sulle teste di vittime e carnefici, sparando addirittura con i carri armati contro gli islamisti asserragliati all’interno (31 dei 32 assalitori morti, 10 soldati russi delle forze speciali rimasti uccisi).

Vi abbiamo riproposto alcune sioccanti immagini dei momenti che seguono l’attacco: scene raccapriccianti, in cui il dolore e la pietà scompaiono e a dominare è la tragedia. In questa indescrivibile confusione, nel totale fallimento delle operazioni di soccorso, c'è anche posto per i trattori dell’esercito russo che nei giorni successivi avrebbero seppellito rapidamente i resti di future e sgradite scoperte. “Siamo assolutamente convinti che il governo voglia dimenticare Beslan”, ha detto a RFE/RL la signora Kesayeva, che in quei tre giorni perse due nipoti. Tutto resta immobile e sotto controllo nella Russia dello zar Putin. Nel 2006 la commissione d’inchiesta della Duma ha attribuito l'intera responsabilità dell'eccidio alle autorità ossete. L'anno dopo, da un sondaggio emerse che solo l’8 per cento dei russi credeva che il governo avesse detto la verità.

Di verità su Beslan ne sono state dette tante a cominciare da un dato inconfutabile: i terroristi idealmente guidati dal ceceno Mashkadov avevano intenzione di fondare un emirato islamico nel Nord del Caucaso. La Russia si trovava quindi ad affrontare la sua fetta di guerra al terrorismo ma la reazione di Mosca fu esagerata e condotta nel più totale disprezzo della vita umana. L’attacco avrebbe potuto essere prevenuto visto che la "Novaya Gazeta" ha pubblicato documenti che mostrano come il ministero degli interni russo fosse a conoscenza del piano terrorista. Circolavano voci sul gruppo legato ad Al Qaeda che si stava addestrando nella vicina Inguscezia. Eppure i nazisti di Bin Laden raggiunsero indisturbati il loro obiettivo a bordo dei camion. E fin qui il paragone con l’11 Settembre potrebbe anche reggere, anche gli Usa furono colti di sorpresa nonostante le agenzie di intelligence e di spionaggio sapessero chi era il nemico, sottovalutandolo.

La differenza è che mentre Atta e i suoi decisero semplicemente di conficcarsi con un aereo in un grattacielo, i terroristi di Beslan forse si illudevano di poter trattare con Putin. Avevano preso centinaia di ostaggi ma ne rilasciarono 26 per mantenere aperto un canale di dialogo con l’esterno. Cercarono di negoziare attraverso un “papiello” consegnato a uno dei mediatori che riuscì a entrare nella scuola. Ma l’FBS russo fece saltare le comunicazioni, minacciò di arrestare il presidente ossetino, impedì a Basayev di recarsi sul posto per ottenere quello che voleva: una Cecenia indipendente che sarebbe comunque rimasta nell’area del rublo e probabilmente all'interno della CSI (una specie di emirato islamico non ostile allo zar). In cambio, i russi lanciarono un attacco che sarebbe un insulto definire “chirurgico”. Dopo il crollo del tetto della scuola e il divampare dell’incendio trascorsero due ore prima che arrivasse l’ordine ufficiale di domare le fiamme. Intanto dentro si moriva bruciati vivi.

Nei giorni scorsi il presidente Putin ha scritto una bella lettera riparatoria ai giornali polacchi sulle lontane vicende della Seconda Guerra mondiale. Dovrebbe ricordarsi anche di eventi a lui molto più vicini come Beslan. Se non lo fa vuol dire che si tratta di storie ancora troppo scomode per la presunta democrazia russa.