domenica 27 dicembre 2009

V.Vysotsky "Было так.." (романс)

UNA VOCE, UNA STORIA (CLICK)



Chi è Vladimir Vysockij, poeta e attore, cantautore e ubriacone

E' morto trent’anni fa, ignorato dal regime russo. Ma tutti sapevano che avrebbe vinto lui

Nessun giornale sovietico aveva dato la notizia della morte, avvenuta nella notte tra il 24 e il 25 luglio 1980, di Vladimir Vysockij, attore del teatro Taganka, cantautore, noto ubriacone. Era uscita solo una riga, quasi invisibile, su un giornale della sera, Vecernaja Moskva. E anche radio e tv, ovviamente, zitte: il defunto non era un esempio di virtù socialista. Eppure due giorni dopo, in una Mosca resa irreale dalle Olimpiadi (il governo aveva espulso tutti i non residenti, tutti i pendolari, tutti gli “elementi antisociali”), una folla immensa di centomila persone si mise in fila, una fila di nove chilometri, per rendere l’estremo omaggio all’uomo che era entrato nel cuore di un paese intero. Fu la più grande manifestazione spontanea di tutta la storia dell’Urss. Ancora oggi, a ormai trent’anni da quel giorno, il fenomeno Vysockij continua a destare curiosità e passioni senza precedenti, di cui sono segno tangibile la sterminata bibliografia, le molte trasmissioni televisive a lui dedicate, le rivelazioni giornalistiche, le testimonianze di chi lo ha conosciuto e quei fiori sempre freschi che adornano la sua tomba al cimitero Vagankovskoe. Lo stesso Vladimir Putin, il 25 luglio del 2005, venticinquesimo anniversario della morte, ha voluto commemorarlo personalmente. E il 26 gennaio 2008, settantesimo della nascita, caso più unico che raro, Pervyj Kanal, la rete più popolare della televisione russa, gli ha dedicato la programmazione dell’intera giornata, dalle prime ore del mattino fino a notte inoltrata.

Alla fama fuori dal comune di cui Vysockij ha goduto e gode in patria (ma anche in Francia, negli Stati Uniti, in Germania, dove l’emigrazione intellettuale sovietica è stata fenomeno assai importante) ha sempre corrisposto, in Italia, un interesse piuttosto distratto (una delle poche eccezioni il premio Luigi Tenco nel 1993). Il quotidiano che diede il maggior rilievo alla notizia della sua scomparsa fu Paese Sera, il quale però titolò: “E’ morto il marito dell’attrice Marina Vlady”. Ora a questa disattenzione viene a rimediare un bel volume, molto ben documentato, “L’anima di una cattiva compagnia”, pubblicato dalla casa editrice I libri di Emil. Gli autori sono Elena Buvina, che insegna lingua russa all’Università di Genova, e Mario Alessandro Curletto, professore di letteratura russa all’Università di Pavia. Sono più di 400 pagine che raccontano le gesta epiche di Vysockij, dai timidi inizi nel teatro e nel cinema fino all’entrata, ancora vivo, nella leggenda e fino alla morte precoce (42 anni) che ne ha suggellato il mito. Il tutto intervallato dai testi (una quarantina) delle sue canzoni più famose.

E’ come cantautore, infatti, che Vysockij divenne l’artista più popolare nell’Urss degli anni Sessanta e Settanta. Aveva cominciato componendo, e accompagnando con la chitarra, canzoni della mala, sentimentali e spavalde. Quel suo tono aspro suonava improvvisamente dissonante e autentico rispetto alla retorica mielosa della canzone ufficiale sovietica. La forma era quella della ballata e raccontava, in prima persona, le storie di personaggi problematici, con qualche pregio e soprattutto con molti difetti. “Davo voce – dirà più tardi – allo pseudoromanticismo e ai turbamenti d’animo degli inquieti ragazzi dei cortili di Mosca”. Un critico molto acuto come Andrej Sinjavskij, che di Vysockij fu insegnante di letteratura russa, considerava quelle prime canzoni come il momento più alto dell’arte del suo allievo e si rammaricava del fatto che, a un certo punto, egli avesse cambiato genere. In realtà, quella tipica intonazione malavitosa non verrà mai meno nel corso della sua carriera. Ma col passare degli anni le sue moltissime canzoni (pare che fossero più di mille) finirono per comporre un universo poetico sempre più vasto, in cui ogni aspetto della vita sovietica veniva rappresentato: il lavoro, l’amicizia, l’amore, i ricordi di guerra, le bevute in compagnia, la passione per la natura, le prepotenze. Sempre però con il timbro di uno spirito indipendente, simpatetico col mondo dei più sfortunati, autore di gesti di ribellione minimi, appena percettibili, eppure così stridenti nell’atmosfera del conformismo generale. Non era il primo ad accompagnarsi con la chitarra. Suoi predecessori erano stati Bulat Okudjava e Aleksandr Galich, i caposcuola della canzone d’autore degli anni Sessanta: il primo aveva una vena lirica intimista che accompagnava con una voce calda e avvolgente, il secondo si era orientato presto verso la canzone di protesta politica ed era stato costretto all’esilio. Ma Vysockij, grazie anche a un innato candore, andava dritto al cuore della gente.

Dietro l’estrema semplicità delle parole e delle situazioni c’era però, da parte di Vysockij, un sapiente lavoro sulla lingua che lo ricollegava alla tradizione letteraria. Lui si sentiva particolarmente vicino, nella poetica e nella vita, a un altro grande “teppista” delle lettere russe, quel Sergej Esenin che a trent’anni, nel 1925, si era suicidato nell’Hotel d’Angleterre a San Pietroburgo. Più che canzoni in senso stretto, infatti, i suoi erano versi accompagnati dalla chitarra. Un giorno, a New York, Josif Brodskij, che non era mai prodigo di complimenti ai colleghi, gli dedicò un suo libro con le parole: “Al miglior poeta della Russia, dentro e fuori dai suoi confini”. E in un’altra occasione aggiunse: “In certo modo mi dava perfino fastidio che si accompagnasse con la chitarra. Perché il testo in sé era assolutamente straordinario”. Chitarra a parte (tra l’altro gli piaceva suonarla leggermente scordata), ingrediente fondamentale del magnetismo che Vysockij esercitava sul pubblico era la sua voce: rauca, da alcolista e fumatore accanito, graffiante, con le erre arrotate, e poi aggressiva come una sferzata. Ed è grazie a quella voce (e a una presenza scenica sempre un poco sopra le righe) che i suoi concerti rimanevano, per chi vi assisteva in religioso silenzio, esperienze indimenticabili.

Ora, si fa presto a dire concerti.
In realtà, di concerti a teatro, con tutti i crismi dell’ufficialità, Visockij in patria ne tenne ben pochi. E, se è per questo, anche all’estero i problemi non mancavano. Un giorno a Parigi, al culmine della notorietà, così dovette deludere i suoi fan: “Qui non posso cantare perché non ho ricevuto un invito ufficiale attraverso il Goskoncert. Da noi c’è un altro sistema: siamo degli impiegati statali. Il mio impiego è in teatro, sono un attore. E se vogliono invitarmi a cantare in un altro stato devono farlo ufficialmente”. E in Urss era lo stesso, solo molto più complicato. Fin dagli inizi della carriera, Visockij fu oggetto di violente campagne di stampa che lo indicavano come un pessimo esempio per la gioventù. Con tali credenziali, concerti veri e propri poté farne davvero pochi. La sua celebrità dovette seguire altre strade, prima tra tutte quella del “samizdat” musicale. Se il collettivo di lavoro di una qualche fabbrica lo invitava a cantare, tutti si presentavano muniti di registratore e nel giro di poche settimane quelle cassette passavano di mano in mano e facevano il giro dell’Urss.

In una lettera indirizzata a uno dei segretari del comitato centrale del Pcus, nella quale si lamentava delle angherie che il regime gli riservava, Vysockij si lascia scappare questa battuta: “Lei probabilmente sa che nel paese è più facile trovare un registratore sul quale risuonino le mie canzoni piuttosto che uno dove non ce ne siano”.
Non era un’esagerazione. Uno degli aspetti più sorprendenti della fama di Vysockij è che non conosceva eccezioni. Per una irripetibile alchimia di circostanze, il bardo della Taganka è riuscito, caso anche questo più unico che raro, a realizzare la plurisecolare aspirazione dell’intellighenzja russa: andare al popolo, stabilire un rapporto di fiducia con tutte le componenti della nazione. Conoscevano a memoria le sue canzoni non solo i giovani dallo spleen facile ma anche gente che faticava tutto il giorno e senza grilli per la testa: lo amavano e lo rispettavano gli intellettuali, i militari, gli operai, i detenuti, i cacciatori di orsi siberiani, i poliziotti, e perfino, sia pure di nascosto, gli agenti del Kgb che dovevano mettergli i bastoni tra le ruote. Ovunque andasse, era accolto come un eroe. In ogni ambiente, senza eccezione, era “uno dei nostri”. Tra i luoghi comuni sulla cultura sovietica uno dei più duri a morire è quello che rappresenta l’epoca brezneviana come un universo unico, grigio e ortodosso, cui si contrapponevano solo le sparute voci libere dei “dissidenti”, prontamente messi a tacere. E’ vero, l’ufficialità era plumbea e senza il visto del censore nulla poteva essere reso pubblico. Ma tra l’ufficialità e l’aperta dissidenza politica (che comprendeva anche far uscire scritti all’estero senza autorizzazione) si estendeva il vastissimo territorio della comunicazione autogestita oppure del linguaggio esopico, nel quale i sovietici erano diventati maestri.

Vysockij, pur senza essere mai un perseguitato, non era certo nelle grazie del regime: la televisione di Stato non trasmise mai un solo secondo delle sue canzoni e i pochi funzionari che ci provarono caddero rapidamente in disgrazia; i rari brani registrati dalla casa discografica Medodja erano accuratamente scelti dai censori e in genere si limitavano ai temi della guerra; riuscire a far accettare Vysockij come attore dalla burocrazia cinematografica era sempre un’impresa improba (ma uno dei film da lui interpretato, “Il luogo dell’appuntamento non si può cambiare”, in cui era un commissario di polizia, un duro alla Jean Gabin, divenne subito, grazie a lui, popolarissimo).

Detto questo, Vysockij non fu mai un “dissidente”, non ruppe mai con il governo del suo paese che pur lo sopportava a fatica. Non era un ambasciatore della cultura sovietica, ma neppure un “martire del comunismo”. Questo forse spiega la scarsa risonanza che ebbe la sua opera all’estero nel clima della guerra fredda. E a tale proposito è rimasta celebre un’intervista televisiva per la Cbs (1977) rilasciata a New York a Dan Rather (che lo aveva definito il “Bob Dylan sovietico”), nella quale abilmente dovette schivare tutte le domande che tendevano a presentarlo come un avversario del regime: “Amo il mio paese – concluse – e non voglio danneggiarlo”. Ma questo basso profilo politico forse spiega anche la sua enorme popolarità in patria, dove l’influenza dei dissidenti non era mai riuscita ad andare oltre la cerchia dell’intellighenzja. Semplificando un po’, si potrebbe dire che Vysockij, culturalmente, era un figlio del disgelo chrusceviano. Alcune sue prese di posizione politiche suonavano addirittura ortodosse: un giorno, rispondendo al questionario di un suo giovane ammiratore, indicò tra le figure storiche che lo disgustavano “Hitler e insieme con lui anche Mao”.

E poi compose una canzone: “Lettera degli operai di una fabbrica di Tambov ai dirigenti cinesi”, violenta contro il Grande Timoniere. Su questa base di “umanesimo socialista” si era poi innestata la sua invenzione poetica, al centro della quale era l’individuo, il povero e semplice individuo riottoso, che non piega la testa né di fronte alle grandi né alle piccole angherie. E, al di sopra di tutto, una grande impressione di sincerità: “Ciò che ho scritto come poeta, come compositore – disse una volta – non è mai stato pubblicato, o quasi mai, per cui non ho bisogno di autocensurarmi”. Poi, naturalmente, c’era il personaggio, che in nulla poteva corrispondere ai modelli sociali approvati. Lasciamo stare l’alcol, da cui divenne subito dipendente al punto da presentarsi non poche volte sul palcoscenico della Taganka ubriaco fradicio: in Russia è sempre stato un “vizio” accettato. Ma c’era lo spirito di indipendenza, e poi quella moglie francese (sia pure iscritta al Pcf), e gli atteggiamenti da macho, e il sesso, e la passione per le auto straniere (era l’unico a Mosca a possedere una Mercedes), e infine, negli ultimi anni, la droga. Come un simile personaggio abbia potuto muoversi relativamente in libertà nel chiuso mondo sovietico si spiega con un altro piccolo “miracolo” di quei tempi.

A Mosca nel 1964 Jurij Ljubimov, grazie a qualche appoggio nelle sfere più liberali del regime, era diventato regista del teatro Taganka e lo aveva trasformato nel tempio dell’anticonformismo culturale. Vysockij, nel ruolo di attore, fu uno dei suoi acquisti. Il collettivo della Taganka fu subito circondato da una mitica aura di bohème. La coraggiosa scelta del repertorio, l’originalità delle soluzioni registiche di Ljubimov “avrebbero (come scrive lo slavista Gian Piero Piretto nel suo bel libro ‘Il radioso avvenire’, Einaudi 2001) emozionato, commosso, entusiasmato, stupefatto l’Unione Sovietica”, almeno fin tanto che gli attacchi del potere non lo costrinsero all’emigrazione, “privandolo del più prezioso dei collaboratori: il pubblico sovietico”.


“I suoi spettacoli lontano da Mosca – aggiunge infatti Piretto senza quel pubblico in sala, senza quella tensione continua e costante, senza la percezione dei censori in agguato, senza la vibrazione emotiva, sincera e silenziosa che di sera in sera si ripeteva nel piccolo teatro moscovita, avrebbero perso molto del loro fascino”. Era la vecchia idea di Igor Stravinskij: l’arte, più è controllata, più è vera. Di quel teatro, per quindici anni, Vysockij fu la punta di diamante. Riviste oggi, certe sue interpretazioni possono fare sorridere, come quando, da Amleto, entrava in scena con la chitarra a tracolla o quando, in “Pugacëv”, veniva trascinato al supplizio coperto di catene e sembrava che volesse spezzarle con il torace nudo. Ma l’ansia di libertà che emanava da ognuno di questi piccoli dettagli, che spesso risultavano da estenuanti trattive con il censore di turno, attirava un pubblico che sempre usciva dallo spettacolo come se avesse preso parte a un evento unico, da non dimenticare. Ricordo una serata dei primi anni Novanta, nella cucina piena di fumo del mio amico filosofo Jurij Senokosov. Si discuteva, come sempre, dei massimi sistemi. A un certo punto se ne uscì, molto seriamente, con questa frase: “Nel cuore della gente il regime comunista è stato distrutto, più che da Solzenicyn, da Vladimir Vysockij”.

di Massimo Boffa

sabato 26 dicembre 2009

LA PARABOLA DEL TIRATORE DI PIETRE

In quel tempo, l'uomo del colle si avviò verso il monte dell' Ulivo, tra la valle della Quercia e il sentiero della Margherita. Ma all’alba si recò di nuovo al duomo e tutto il popolo andava da lui ed egli li salutava.
Così vide un uomo che era osannato assai, ma un passante colpì quello con un cavalletto, e poi un'altro lo colpì con una statuetta del duomo stesso, gridando "Mu...mu..muò...muori!".
E allora i soldati del re lo fermarono, ma l'assalitore tartagliò
"So...so..sono...pe...sono pe..."
"Sei Peppe ? " gli chiesero
"Sono pe... sono pentito!"
"Lasciatelo andare" disse l'uomo che era stato colpito, con grande magnanimità, ed essi lo lasciarono andare, e quello, appena svoltato l'angolo si fregò le mani, esclamando
"Ave... ave..."
"Ave anche a te, buon uomo" risposero al suo saluto quelli che gli erano vicini
"Macché ave, volé...volé...volevo dire...avete vi... avete visto come l'ho colpì...l'ho colpito bene ? Ah, come so...come sono bra...bra...bravo!"

Intanto, l'uomo che era stato colpito sanguinava ancora, e l'uomo del colle, preoccupato per tanta violenza, esclamò saggiamente:
"Nessuno di voi scagli più una pietra, se non è senza peccato !"
Ma in quel momento apparve un uomo dagli occhi di bragia, più spalancati di quelli di Ficarra, e strattonando con forza all'uomo del colle per la tunica, gli urlò
"Ma che c'azzecca ? Quest'uomo è il diavolo, e se tu lo teneressi stretto stretto, io lo colpissi con queste pietre, non troppo grandi né troppo piccole, per farlo soffrire di più !"

Parola di Shelburn.

venerdì 25 dicembre 2009

BUON NATALE CON IL PAPA


sabato 19 dicembre 2009

sabato 12 dicembre 2009

TUTTO DA LEGGERE (click)

Qui si troveranno degli scritti tutti da leggere e che non conviene perdere.
Li potrete anche scaricare gratuitamente.

lunedì 7 dicembre 2009

Su LA SINDONE

"Le iscrizioni sulla Sindone? Una testimonianza credibile"

La Sindone di Torino, il lenzuolo che secondo la tradizione avvolse il corpo di Gesù nel sepolcro, porta impresse delle scritte che risalgono «inconfutabilmente al I secolo» e che rappresenterebbero una sorta di «certificato di sepoltura». Lo sostiene Barbara Frale, studiosa dell’Archivio Segreto Vaticano, autrice di La sindone di Gesù Nazareno (il Mulino). Scoperte e interpretazioni che hanno prevedibilmente suscitato notevoli polemiche. Il Giornale ne ha parlato con Franco Cardini, storico del medioevo.
Si avvicina l’ostensione della Sindone, le recenti scoperte portano nuovi elementi in favore della sua autenticità e puntuali arrivano le polemiche...
«Credo che la sua fama dipenda sia dal fatto che si tratta di un documento storico notevolissimo (vero o falso che sia), sul quale si sono esercitati tutti i più moderni metodi sperimentali di ricerca, e sia, ohimè, dall’interesse che essa ha esercitato in ambienti esoterico-occultisti, anche a causa dell’attenzione che gli hanno dedicato certe pubblicazioni divulgative di successo, tipo Martin Mystère».
Barbara Frale ha pubblicato un libro in cui si sostiene che negli «anni bui» - trascorsi fra la scomparsa dell’immagine venerata a Edessa e poi a Costantinopoli, identificata con la Sindone, e il suo riapparire in Francia - il telo sia stato custodito dai Templari. Che cosa ne pensa?
«Frale è una studiosa seria e documentata, alla quale dobbiamo alcuni bei lavori sui Templari. Le sue ipotesi, che non mi risulta essa abbia mai inteso imporre come vere e proprie tesi, mi sembrano degne di considerazione. Certo, bisognerà lavorare alla loro verifica: e non è detto che tale verifica sia possibile. Di per sé, quanto Frale rileva non è né inverosimile, né impossibile. Che accenda le fantasie e provochi le polemiche, è vero: ma è un altro discorso».
Come si spiega, da storico, l’enorme interesse che i Templari suscitano e l’abnorme quantità di libri, saggi, romanzi a loro dedicati?
«È una lunga storia avviata fin dal Trecento, ma divenuta un’autentica mania a partire dal XVIII secolo, in coincidenza con l’inizio della rielaborazione in chiave cavalleresca delle tradizioni massoniche. Da allora si diffuse la complessa e perfino divertente mitologia dei Templari eredi dei segreti del costruttore del Tempio di Salomone, il fenicio Hiram. Il seguito lo conosciamo, attraverso un’infinita paccottiglia e la costruzione di certi falsi documenti che hanno condotto alcuni sconsiderati ad affermare che i Templari conoscessero il segreto della “verità” su Gesù, rimasticazione di vecchie tesi fondate sulla lettura di Vangeli apocrifi, e persino che avrebbero scoperto l’America quattro secoli prima di Colombo. Fantasie divertenti, se non fossero all’origine di una lunga serie di maniacali elaborazioni pseudostoriche e pseudoreligiose e anche di autentiche truffe».
Torniamo alla Sindone. Frale ha lavorato su alcune scritte impresse sul telo e che potrebbero essere un «cartiglio di sepoltura». Non crede che ci sia il rischio di vedere nella Sindone anche ciò che non c’è?
«Il rischio esiste, eccome. Ma le scritte individuate sono a quel che pare una realtà obiettiva: non si possono ignorare, il che vuol dire che bisogna cercar d’interpretarle. Gesù di Nazaret fu giustiziato in quanto potenziale agitatore politico-religioso: che l’autorità romana ne traesse in qualche modo registrazione utile per testimonianze giuridico-amministrative non è tramandato da nessuno, ma non mi sembra impossibile».
Il nuovo libro della Frale è stato aspramente criticato da Luciano Canfora...
«Canfora si è chiesto se a Gerusalemme esistessero becchini, e magari ufficiali di polizia mortuaria. La domanda, formulata con legittimo scetticismo, comporta il dubbio che, in mancanza di sicure testimonianze che escludano quell’eventualità, becchini e funzionari addetti alla polizia mortuaria, specie in rapporto con le pubbliche esecuzioni, potessero anche esistere. Rovescio la domanda e la rispedisco al mittente: siamo certi che a Gerusalemme o altrove, in quel tempo, non esistesse nulla di simile?».
Certe prese di distanza sembrano chiudere il dibattito senza confrontarsi con i dati in discussione. Che ne pensa?
«Non è il caso di Canfora, che è sempre ispirato a una grande onestà intellettuale ed è sempre pronto ad ascoltare gli altri. Non tutti si comportano allo stesso modo. Alludo anche al caso che ha avuto come protagonista Ariel Toaff e il suo libro Pasque di sangue, o ai molti casi che oggi riguardano i cosiddetti “revisionisti” o “negazionisti”. Sono convinto che si debba consentire a chiunque di esprimere su qualunque cosa un giudizio, specie se accompagnato da ragionamenti plausibili e da indizi seri, senza invocare la promulgazione di leggi liberticide che pretendano di stabilire la verità storica a colpi di codice penale».
Lei è stato definito da Alexander Del Valle un intellettuale organico all’asse Rosso-Bruno-Verde, che avrebbe come obiettivo combattere gli Usa e Israele. Come si sente a essere paragonato ai terroristi rossi e a quelli islamici?
«Mi sento obiettivamente oggetto di malevole e disinformate calunnie, ma sono ben lungi da farne una tragedia. È vero che sono un bastian contrario, che sono sempre incuriosito dalle ragioni degli altri, e che questo mi spinge talvolta a difendere cause difficili o cause perse. Un mio amico ebreo sostiene che io ho “l’istinto del salmone”: che debbo risalire sempre le correnti. Molte mie posizioni, specie recenti - sull’11 settembre, sulle guerre in Irak e in Afghanistan - sono state da me rigorosamente documentate: ho scritto al riguardo almeno cinque libri e molti saggi e articoli, si può consultare il sito www.francocardini.net. Dal momento che si trattava di posizioni chiare, escludo che tipi come Del Valle siano in buona fede o sappiano far correttamente il mestiere che pretendono di fare, cioè il giornalista o peggio ancora lo studioso: basterebbe un esame dei miei scritti per rendersi conto che non sono né antiamericano, né antisionista, pur riservandomi il diritto di discutere scelte dei governi statunitensi o israeliani come di qualunque altro».

martedì 1 dicembre 2009

TERREMOTO. GLI ANIMALI CI AVVERTONO (click)




Scritto da Giovanni Fronte
martedì 01 dicembre 2009
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Migrazione di rospi prima di un terremoto
Terremoti, eruzioni vulcaniche, maremoti, burrasche magnetiche, tuoni, ecc. sono fenomeni naturali che generano “infrasuoni”, ossia onde sonore con frequenza al di sotto della soglia inferiore (16 hertz) di udibilità dell’orecchio umano; sono onde lente e lunghissime e, come tali, quasi inarrestabili e senza barriere. E’ noto che gli animali, grazie ad organi di senso più affinati dei nostri, sono in grado di percepire onde infrasoniche che si propagano attraverso il terreno e "sentono", prima di noi, l'evento naturale che avanza. Il "suono sismico", oltremodo potente e cupo, li inquieta non poco e li mette in stato di agitazione e di paura che essi, con i loro suoni naturali, trasmettono poi agli altri animali per avvertirli che qualcosa di anomalo sta succedendo nel loro territorio. Questo spiegherebbe il fenomeno di "preveggenza" ad essi attribuito forse ingiustamente. Qualcuno infatti ipotizza che dagli animali venga avvertita l'influenza di onde elettromagnetiche piuttosto che infrasoniche. in stato di agitazione e di paura che essi,ualcuno infatti ipotizza che dagli animali venga avvertita l'influenza di onde elettromagnetiche piuttosto che infrasoniche. "suono sismico", oltremodo potente e cupo, li inquieta non poco e li con i loro suoni naturali, trasmettono poi agli altri animali per avvertirli che qualcosa di anomalo sta succedendo nel loro territorio.

Se così fosse, comunque da accertare, l’approssimarsi di detti eventi potrebbe essere dedotto da un loro comportamento insolito ed ansioso. Alcuni di loro infatti mostrano evidenti segni di nervosismo anche con un anticipo di parecchi giorni rispetto al verificarsi dell’evento. Questi segnali, se tempestivamente e correttamente interpretati dall’uomo, potrebbero essere utili come preallarme per salvare la vita a migliaia di persone.

Testimonianze sul comportamento anomalo degli animali, prima di un terremoto, non sono una leggenda priva di fondamento: i ricercatori hanno, infatti, osservato reazioni riconducibili alla percezione e alla produzione di infrasuoni ed ultrasuoni in molte specie animali. Va comunque precisato che alcuni animali sono in grado di percepire gli infrasuoni ed altri invece gli “ultrasuoni” che sono vibrazioni sonore con frequenza oltre la soglia superiore di udibilità umana (c.20 kHz), o entrambi, anche se con differente sensibilità.

Fra gli animali che percepiscono gli infrasuoni ci sono: le balene, gli elefanti, gli ippopotami, i rinoceronti, le giraffe, gli alligatori, tanto per citarne alcuni fra i più noti. Tutti gli animali, il cui apparato acustico è in grado di percepire ed emettere infrasuoni, captano anche le vibrazioni prodotte da altri animali e le interpretano come un segno della presenza di branchi nelle vicinanze. Per l’istinto di conservazione poi reagiscono di fronte a quello che reputano essere un "pericolo generico" e quindi non necessariamente un terremoto. Non sono cioè in grado di distinguere una anomalia causata da un sisma intenso da quelle prodotte artificialmente dalle moltissime attività umane.

Fra gli animali che invece percepiscono gli ultrasuoni ci sono: i cani, i delfini e le balene che li usano per comunicare tra loro, i pipistrelli che li usano per “vedere” gli ostacoli mentre volano di notte, ecc. e i gatti che hanno una maggiore sensibilità per gli ultrasuoni e una minore per gli infrasuoni.

Gli storici scrivono che nel 373 a.C. gli animali, compresi ratti, serpenti, furetti, ecc., abbandonarono la città greca di Alicia qualche giorno prima che un terremoto la devastasse. Da allora, i racconti di simili avvenimenti su animali che percepiscono in anticipo l’arrivo dei terremoti si ripetono nella storia. Il nervosismo degli animali, in queste particolari circostanze, è stato anche segnalato in TV dal Prof. Giorgio Celli, etologo e grande conoscitore degli animali.

Il continuo susseguirsi di eventi sismici (c. 500.000 terremoti all’anno in tutto il mondo) che frequentemente scuotono in modo più o meno severo la Terra, stimola gli studiosi a ricercare il motivo di un insolito e strano comportamento degli animali per dedurre se in esso c’è la probabilità di associarlo ad una possibile premonizione sismica. Preavviso che consentirebbe di organizzare tempestivamente e più efficacemente tutti i provvedimenti atti a minimizzare, per quanto possibile, i danni materiali e soprattutto quelli in vite umane. Una tale corrispondenza è stata osservata ed esiste, ma la deduzione di una previsione certa resta tuttora impossibile in quanto mancano gli strumenti atti ad interpretare univocamente il comportamento animale.

I sismologi americani però sono scettici. Anche se ci sono stati casi documentati di strani comportamenti animali prima dei terremoti, la USGS (U.S. Geological Survey), ente governativo che fornisce informazioni scientifiche sulla Terra, dichiara che un collegamento specifico e “riproducibile” tra l’insolito comportamento degli animali ed un terremoto non è mai stato fatto. Gli animali reagiscono a molti stimoli: alla fame, alla difesa del loro territorio, al desiderio sessuale, ai predatori, ecc. per cui diventa complicato realizzare uno studio controllato per ottenere quel segnale d’allarme anticipato. «Ciò che abbiamo non è altro che un sacco di aneddoti» afferma Andy Michael, un geofisico dell’USGS. Negli anni ’70 l’USGS ha svolto alcuni studi sulla previsione basata sugli animali, «ma non è venuto fuori nulla di concreto» conclude Michael. Da allora l’ente non ha svolto ulteriori indagini su quella teoria. Tuttavia i ricercatori sparsi nel mondo continuano a perseguire l’idea.

Ci sono però molti casi, documentati, in cui gli animali hanno dato prove di premonizione.
Uno dei paesi più colpiti dai terremoti è la Cina, dove le devastazioni hanno causato la morte di innumerevoli vite ed hanno provocato seri danneggiamenti materiali.
Ecco cosa è capitato in una provincia della Cina occidentale, poco prima che giungesse il disastroso terremoto del Maggio 2008: migliaia e migliaia di rospi, come in fuga, invadono le strade di Mianyang, sita a poca distanza dall’epicentro – le zebre di uno zoo che cominciano a sbattere la testa contro la porta della gabbia – elefanti, tigri, leoni, pavoni e serpenti che si muovono dai loro covi, anche nel freddo dell'inverno, giungendo persino ad uccidersi per cercare una via di fuga e, naturalmente, non mancano le polemiche sul perchè le autorità cinesi non abbiano tenuto conto di questi segni premonitori per prendere delle misure.

A Nanning, una delle zone più soggette a terremoti ed una delle 12 città cinesi controllate da apparecchiature ad alta tecnologia, un team di scienziati ha sviluppato un nuovo metodo per predire i terremoti servendosi di serpenti i quali, fra tutte le creature esistenti sulla Terra, sembra siano i più sensibili ai terremoti ed in grado di percepire anzitempo, con anticipo fino a cinque giorni, l'arrivo di un evento sismico. In un Paese così vasto, sottoposto in maniera rilevante alle scosse sismiche, la scoperta è senz'altro di grosso interesse.

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Dall’esame del comportamento di questi rettili è stata rilevata la loro capacità di percepire un tremito da 120 km di distanza ed oltre. Quando un terremoto è in arrivo, dicono gli scienziati, i serpenti si muovono dai loro nidi, anche nel freddo dell'inverno e se il sisma è di elevata entità arrivano persino a fracassarsi contro le pareti rocciose cercando una via di fuga. Con l’installazione di telecamere nei loro nidi si sono avuti dei miglioramenti nella capacità di prevedere i terremoti; tant'è che il sistema è stato esteso anche in altre parti del Paese per avere delle previsioni più precise sull’incombente terremoto.

Nel 1975 gli Ufficiali Cinesi ordinarono l’evacuazione di Heicheng, sita nella regione del Liaoning (Cina). Nel febbraio del 1975 avvenne il terremoto di magnitudo 7,3 Richter che viene citato come il primo terremoto realmente previsto. Si stima che l'allarme abbia salvato la vita di circa 150.000 persone; ne morirono solo (si fa per dire) oltre un migliaio. Secondo la versione iniziale delle autorità cinesi, la decisione di evacuare la regione fu presa dopo l'osservazione, da parte dei sismologi, di alcuni segnali ritenuti premonitori di scosse sismiche e cioè: spostamento degli equilibri della falda idrica, deformazioni geodetiche e comportamenti anomali di gatti ed altri animali domestici nei giorni precedenti la scossa. Soltanto una piccola parte della popolazione rimase danneggiata o uccisa. Se la città non fosse stata evacuata, si valuta che il numero di morti e infortuni avrebbe potuto superare i 150.000.

Nella tragedia e nella devastazione provocata dall'ormai famoso “tsunami” che colpì lo Shri-Lanka, c'è una curiosità che ha attratto l'interesse dei ricercatori. Il racconto di alcuni guardia-parco e l'osservazione delle persone impegnate nell'aiuto delle popolazioni indigene e dei turisti, ha escluso danni alla fauna selvatica. «Vediamo elefanti, antilopi e grossi felini, all'interno del parco», raccontavano i rangers, «ma non vediamo alcuna carcassa. Evidentemente gli animali hanno sentito il terremoto prima dell'uomo e si sono messi in salvo ritirandosi sulle colline».

Com’è noto, Istanbul è “in attesa” (come San Francisco) del suo big one che dovrebbe distruggere la città. Scienziati e studiosi stanno cercando di capire esattamente dove e quando questo terremoto, previsto di magnitudo 7,0 Richter, si verificherà. Un tale Kadir Sutcu, non esperto in materia, sostiene che egli è in grado di prevedere quando si verificherà un terremoto osservando le irregolarità di comportamento delle due colonie di formiche che egli tiene in casa. Il successo delle sue previsioni, con tale metodo, sarebbe confermato dal fatto di avere salvato migliaia di persone dopo averle avvertite, via e-mail, dell’imminente pericolo. Egli ha osservato che le formiche si muovono con grande difficoltà e cominciano a morire 24 ore prima del terremoto ed invita a iscriversi nella sua “mailing list “ in caso di bisogno.

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In effetti, egli ha previsto in tempo una scossa verificatasi nel giugno del 2008 e da allora gestisce una mailing list attraverso la quale vogliono essere avvisate con un congruo anticipo. Ha anche un sito internet, però solo in turco, per cui si omette il link. attraverso la quale avverte le persone che all’occorrenzaall’occorrenza vogliono essere avvisate con un congruo anticipo. Ha anche un sito internet, però solo in turco, per cui si omette il link.

Le segnalazioni dei proprietari di animali domestici descrivono gatti e cani che si comportano in maniera del tutto insolita prima di un terremoto: che abbaiano o gemono per nessun motivo apparente o mostrano segni di nervosismo o irrequietezza.

La proprietaria di un cane racconta che il giorno precedente del terremoto del Friuli del Maggio 1976, il suo cane si scavò una grande buca dove si rifugiò per tutta la notte precedente il terremoto fino al dopo terremoto del giorno successivo, nonostante tutti i tentativi di farlo uscire. La gatta, invece, scappò al mattino e ritornò in casa solo dopo 3 giorni. Si racconta anche di cavalli e vitelli che non vollero rientrare nelle loro stalle e di cani e gatti che fecero di tutto per abbandonare le abitazioni dei loro padroni, distrutte poi dall'arrivo del sisma.
Altre testimonianze arrivano dal Giappone dove prima di alcuni forti terremoti aumentò la pescosità di fiumi e laghi e dove, in pieno inverno, si videro vermi e serpenti fuoriuscire dalle tane per poi morire dal freddo precedendo di poco l'arrivo di una scossa.

In un pollaio, in una notte quieta, si sentono inspiegabilmente starnazzare galline, estemporanei chicchirichì e coccodè che precorrono un successivo grosso sussulto del terreno.

Oscar Grazioli (veterinario, scrittore e collaboratore del quotidiano Libero) scrive in un articolo: «Alcuni animali hanno i sensi più sviluppati dei nostri. I cani, per esempio, quando sta per arrivare un terremoto, si agitano e cominciano ad abbaiare. Un altro esempio potrebbe essere quello dei cavalli; anch'essi, infatti, si agitano prima di un evento naturale», e conclude «Se vedessi il cane ululare e cercare di uscire d'improvviso una notte, un giro fuori a fumare una sigaretta lo farei volentieri»!

domenica 29 novembre 2009

LETTERA ALL'ON. DENIS VERDINI

Egr. On. Denis Verdini

e p.c. ai parlamentari del PDL.

Sono un simpatizzante del PDL, almeno per ora.

Vorrei farLe presente che ho sempre votato nell’area di cdx anche prima della costituzione del nuovo partito, oggi ho delle forti perplessità a continuare a votare il partito di cui Lei è il coordinatore, data la presenza dell’on. Fini ormai orientato verso una sinistra obsoleta e logora che lui chiama farefuturo.

Non passa giorno che lui ed i suoi seguaci, intralcino il lavoro, già di per sé difficile, di questo governo, con dichiarazioni degne di Di Pietro.

Inoltre quella presentazione al 22/23 dicembre della legge sulla cittadinanza breve, in combutta con il PD , è al di fuori di ogni logica e soprattutto contraria al mandato che noi elettori Vi abbiamo conferito.

Sarà mia cura controllare quali deputati del PDL abbiano votato per questa legge, al fine di non votarli mai più.

Oltre a questo ho riscontrato, la mancata difesa di SB, dalla magistratura rossa, da parte del presidente della camera ed anche una certa “tiepidezza” da parte del resto del partito.

La lettera che le sto scrivendo, pur essendo a titolo personale, è condivisa da moltissime mie conoscenze sia reali che di web.

Posso quindi dire, che alle prossime regionali, se troviamo in lista candidati finiani, non esiteremo a votare per altro partito che dia garanzie sull’immigrazione, sulla sicurezza e che contrasti lo strapotere di questa Europa che si sta profilando orwelliana. Un’ Europa che svilisce tutte le nostre tradizioni, che annienta la nostra cultura, che porterà alla fine della Civiltà occidentale. Cerchiamo almeno di salvare l’Italia, non tanto per noi quanto per i nostri figli.

Distinti saluti

P.S

Se avesse del tempo Le consiglio di leggere questi post, con i relativi commenti sono una minima parte di quello che gira sul web di questo tenore. Non sottovaluti la “base” del CDX, non è trinariciuta.

http://sauraplesio.blogspot.com/2009/11/per-fare-futuro-il-piu-grave-dei.html

http://orpheus.ilcannocchiale.it/2009/11/26/io_non_ci_sto.html

http://laltrasponda.blogspot.com/2009/11/nono-e-meglio-non-fare-futuro.html

http://mangoditreviso.blogspot.com/2009/11/fare-o-durare.html

http://blacknights1.blogspot.com/2009/11/orgogliosamente-stronzo.html

http://gio88-giova.blogspot.com/2009/11/nuova-perla-dei-finioti.html

http://sarcastycon.wordpress.com/2009/11/27/fareschifo/

venerdì 27 novembre 2009

ECCOLO, GUIDO SPORTIVO.

Con Shin Dae Wong

Le interviste di Trepassi.

- Caro Trepassi, chi hai intervistato oggi per il nostro pubblico ? -
- Nientemeno che uno degli Ent ! -
- Ma non ti avevo detto di fare un'intervista nel campo dell'ambiente ? -
- Sissignore -
- E che c'entrano gli Enti, con l'ambiente ? -
- Gli Ent sono una razza antichissima di pastori degli alberi -
- Oh, bene, ...pastori... di ché ? Quando mai gli alberi vanno a pascolare ? -
- Capo, Lei non ha visto "Il signore degli anelli", e in particolare il secondo episodio ? Li si parla proprio degli Ent, quei giganti che sembrano degli alberi parlanti -
- Ah si. -
- Così mi sono recato nella foresta di Fangorn, dove avevo deciso di incontrare Treebeard, di cui le avevo accennato prima. In effetti "Fangorn", in sindarin, vuol dire "Treebeard". -
- Sindarin ? Che lingua è, non la conosco -
- Una lingua inventata da Tolkien, l'autore della saga del signore degli anelli. "Fanga" appunto vuol dire "beard" cioè "barba", e "orne" vuol dire "tree", cioè "albero". -
- Quindi "Treebeard" vuol dire "Alberobarba" -
- Si, ma lo chiamano Barbalbero. -
- E va bene, sei andato da questo signore, e che è successo ? -
- Sulle prime ho notato soltanto gli occhi.
Sembrava vi fosse dietro le pupille un enorme pozzo, pieno di secoli di ricordi e di lunghe, lente, costanti meditazioni; ma in superficie sfavillava il presente, come sole scintillante sulle foglie esterne di un immenso albero, o sulle creste delle onde di un immenso lago. Non so, ma era come se qualcosa che cresceva dalla terra quasi in letargo, o consapevole soltanto della propria presenza tra la punta delle radici e quella delle foglie, tra la profonda terra ed il cielo, si fosse improvvisamente destato e mi stesse considerando con la stessa lenta attenzione che aveva prestato ai prorpri problemi interiori per anni e anni
. -
- Come sei romantico e fantasioso ! -
- Capo, a dir la verità, questa frase l'ho copiata da "Le due Torri", pag.65, ed. Bompiani 2001. -
- Ah, mascalzone ! -
- Mi ha detto "hrum, huum" con voce bassa e profonda come il suono di un violoncello. -
- Trepassi, non vorrai copiare tutto il signore degli anelli, spero ! -
- No, no, vengo al dunque.
Questo signore, cioè, questo pastore di alberi, che aveva l'aspetto di un pino, ed in effetti si chiamava Giuseppe... -
- Aspetta un momento, non avevi detto che si chiamava Fangorn, o Treebeard, o Barbalbero ? -
- Quello era l'Ent che avrei voluto intervistare io, quello che ha recitato nel film, ma sa, questi attori famosi poi si montano la cima... -
- La cima ? -
- Si, quello che per loro è la testa... sempre alberi sono !
Insomma, quello è diventato difficile da avvicinare, e così ho potuto solo intervistare questo giovane, ma promettente Ent, che però lavora nel campo scientifico -
- Fa lo scienziato, il ricercatore, è laureato ? -
- Ma quale scienziato, quale ricercatore, quale laureato, lui, semplicemente, fa il campione -
- Ah, un giovane sportivo dunque -
- No, faceva parte di quei giovani che avrebbero dovuto fornire materiale scientifico nientemeno che a famosi scienziati dell'IPCC. -
- Ma davvero ? Un lavoro assai interessante, immagino -
- Eh no, poveretti. Un lavoro da cavie. Loro forniscono i loro anelli agli scienziati -
- Ah, questi giovani son tutti uguali, con gli anelli dappertutto, sul naso, sulle sopraciglia, per tutto il corpo...che squallore questa moda del piercing ! -
- Ma no, che ha capito ? -
- E che dovevo capire ? -
- Gli anelli che forniscono sono quelli che si formano nel loro tronco, uno ogni anno, man mano che il loro tronco cresce. -
- Ah, quelli ? -
- Si, si sega l'albero, ahimè - e qui Trepassi fece un partecipato sospiro pensando alla dura sorte dei colalboratori scientifici Ent - e si contano gli anelli per vedere quanti anni hanno, e se ne misurano gli spessori, per avere informazioni sulla temperatura e sul livello di CO2, che, quando sono più elevati, nutrono meglio l'albero e lo fanno crescere di più, per cui l'anello di un anno più caldo, e con più CO2 è più florido e spesso di quello di un anno freddo, e con poca CO2. -
- E quanti anni aveva Giuseppe ? -
- Essendo un Ent, un pastore di alberi, non c'è stato bisogno di segarlo, ma gliel'ho semplicemente chiesto. -
- E lui cosa ha risposto ? -
- Tre Anelli per i Re delle Elfi verdi, sotto il cielo che risplende di CO2,
sette per i Prìncipi dei non-giganti
... -
- Non diceva "nani" ? - intervenne Settepassi che aveva capito la citazione
- Non si può più dire "nani", non è politicamente corretto. Si deve dire "non-giganti". -
- Uffa, sta political correctness ! -
- Dicevo,
sette per i Prìncipi dei non-giganti, nelle loro rocche di pietra,
nove per gli Uomini Mortali, che la triste morte attende, ma non prima che si siano accattati il decoder,
uno per l'Oscuro Sire, chiuso nella reggia tetra, davanti ad un monitor collegato al Legnostorto,
nella Terra di Mordor, dove vanno i Troll a leggere quel che deven pensare e scrivere, e dove l'ombra scende,
un anello per domare gli elettori,
un anello per trovarli,
un anello per ghermirli, e nel buio della cabina elettorale incatenarli, finché non scrivono quel che il Signore Oscuro chiede,
e solo i Troll sanno quel che chiede il Signore Oscuro, che nella Terra di Mordor siede, davanti ad una tastiera nera e polverosa, dove l'ombra cupa scende
...
in tutto ventitre anelli, e quindi ventitre anni. -
- E che ti ha detto di interessante, questo Giuseppe ? -
- Ha detto che sono rimasti disoccupati -
- Oh poverini, e perché ? -
- Perché non hanno letto i report dell'IPCC, e non sapevano che dovevano crescere molto di più. Loro, sai, fanno quel che possono, si nutrono di CO2, quando splende il sole, e possono produrre tanto ossigeno -
- Oh, lo so che la loro attività è assai meritevole -
- E quindi crescono solo se ci sono Sole, caldo e CO2, e più ce n'è più crescono -
- Si, questo l'hai già detto -
- Ma gli scienziati dicono che non sono cresciuti abbastanza, che hanno battuto la fiacca, che dovevano crescere di più, e così li hanno licenziati, e non li metteranno più nei loro report -
- Oh che disgrazia, oh che disgrazia ! Ed ora si può fare qualcosa ? -
- Temo di no. Gli scienziati non possono pubblicare dati che contraddicono le loro teorie, e così loro sono spacciati, messi in cassa integrazione, e poi direttamente in pensione. -
- Ma come, non hanno diritto alla mobilità ? -
- Al massimo gli Ent, che hanno le gambe, ma agli altri alberi gli hanno negato anche quella, dicendo che tanto gli alberi non si muovono -
- Oh che cattiveria, oh che soppruso ! -
Trepassi si concesse un altro sospiro, allargò sconsolato le braccia e si allontanò, mentre una brezza leggera muoveva i rami e le foglie di Giuseppe.

martedì 24 novembre 2009

La lezione di Montesquieu su come limitare i magistrati (click)


Giuseppe Bedeschi
Pubblicato il giorno: 24/11/09
Il saggio di Fisichella

Secondo tutti i teorici della società democratico-liberale, questa deve essere incardinata sulla divisione dei poteri. Ma quali sono questi poteri? È ben nota la risposta data dalla vulgata: essi sarebbero il potere legislativo, il potere esecutivo e il potere giudiziario. Ma si tratta di una risposta del tutto sbagliata, anche se ha dalla sua la forza immarcescibile dei luoghi comuni: infatti (come ci ricordano i costituzionalisti più avveduti, a partire dal presidente Cossiga) il cosiddetto potere giudiziario non esiste (poiché esso non riceve nessuna investitura dal popolo sovrano,e quindi non è affatto un potere); esiste invece l’ordinamento giudiziario, che dovrebbe garantire la convivenza civile dei cittadini.

Dico dovrebbe perché esso è in grado di svolgere correttamente i suoi compiti solo se risponde a regole ben precise. Per esempio, esso non deve essere costituito da una casta onnipotente, senza una rigorosa distinzione fra magistratura requirente e magistratura giudicante: una distinzione che, purtroppo, è assente nel nostro Paese, e tale assenza porta a distorsioni gravissime.

Ma, per tornare alla cosiddetta dottrina della divisione dei poteri, e per capirne a fondo il significato, è opportuno risalire alle sue fonti classiche. E quindi a Locke (il primo grande teorico della società liberale), il quale parlò di separazione e di subordinazione dei poteri (il legislativo e l’esecutivo dovevano essere rigorosamente distinti e separati, e il secondo doveva essere subordinato al primo). Locke non parlò nemmeno di “potere giudiziario”, perché l’esercizio della giustizia civile e penale era per lui un’articolazione del legislativo, e quindi doveva essere assolutamente subordinato ad esso. Ma il pensatore più profondo, più ricco e più suggestivo su questo tema fondamentale è stato indubbiamente Montesquieu, al quale viene attribuita, secondo una definizione alquanto rozza e semplificatrice, una dottrina della “divisione dei poteri”.

Per capire di che cosa si tratti è assai utile l’ultimo libro di Domenico Fisichella, Montesquieu e il governo moderato (Carocci, pp. 195, euro 17,5): un libro che si legge con grande profitto per orientarsi nella difficile e complessa tessitura filosofico-politica del grande francese. Intanto è bene avvertire che l’espressione “divisione dei poteri” non si trova affatto in Montesquieu. E se proprio di “divisione dei poteri” si vuole parlare, si deve dire subito che essa non consiste nella separazione fra legislativo, esecutivo e giudiziario. L’occhio di Montesquieu è rivolto al sistema politico inglese del suo tempo e ai tre organi che ne rappresentano gli interessi permanenti: il monarca, la Camera alta e la Camera bassa. «Ecco dunque», dice, «la costituzione fondamentale del governo di cui parliamo. Essendovi un corpo legislativo diviso in due parti, l’una terrà a freno l’altra grazie alla reciproca facoltà di impedire. Entrambe saranno vincolate dal potere esecutivo, il quale lo sarà a sua volta dal potere legislativo». Dunque Montesquieu teorizza un governo bilanciato, in cui i diversi organi (re, Camera alta, Camera bassa) realizzano, in un sistema di pesi e di contrappesi, un equilibrio costituzionale capace di ostacolare l’affermarsi di un potere assoluto.

E l’ordinamento giudiziario? Il lettore si sarà accorto che Montesquieu finora non ne ha parlato affatto. Et pour cause! Infatti, come sottolinea Fisichella, Montesquieu non solo non annovera il giudiziario fra i poteri fondamentali della monarchia, ma tutti i suoi sforzi sono diretti a porgli dei limiti ben precisi, affinché esso non debordi e non leda i diritti dei cittadini e le prerogative della sfera politica.

Il potere giudiziario, dice il pensatore francese, «non deve essere attribuito a un senato permanente, ma deve essere esercitato da persone scelte fra il popolo, in determinati periodi dell’anno, secondo la maniera prescritta dalla legge, per formare un tribunale il quale rimanga in vita soltanto per il periodo che la necessità richiede».

E dopo avergli apposto questi paletti ben precisi e invalicabili, Montesquieu aggiunge, rendendo ancora più vivida la propria preoccupazione circa la possibilità che il giudiziario debordi dai propri confini: «In questo modo il potere giudiziario, così terribile tra gli uomini, non essendo legato né a una determinata condizione, né a una determinata professione, diviene, per così dire, invisibile e nullo», cosicché noi non avremo «continuamente dei giudici davanti agli occhi», e temeremo «la magistratura, non i magistrati».

Queste parole si leggono nello Spirito delle leggi, un capolavoro apparso nel 1748: ma sembrano scritte ieri, tanto sono sagge, premonitrici ed efficaci.

domenica 15 novembre 2009

I FIORI DEL GIARDINO DI MONTAGNA...




di Marco Cavallotti.

domenica 8 novembre 2009

CHE ROBA ! HA FATTO ANCHE IL CUOCO



E' sempre lui : Shelburn, Duepassi, Guido....

SHELBURN, IL NOSTRO POETA.


giovedì 5 novembre 2009

LE PARABOLE DI SHELBURN


La parabola del lupo pentito e dell'agnellino di Cosenza.

In quel tempo viveva un lupo feroce, autore di molti delitti, pentito però...di aver detto poche bugie, per cui voleva rimediare.
Qualcuno gli suggerì:
- Vedi lupo, quell'agnellino che pascola nei campi verdi, sotto i cieli azzurri ? Tu te lo devi pappare. Vai e mordi. -
E il lupo andò, ma non potendo aggredirlo senza esser visto, dovette dimostrare di averne ragione, e così disse all'agnellino
- Tu mi sporchi l'acqua -
- Ma come potrei se sei tu a stare a monte ? .
...e infatti, superior stabat lupus....e l'acqua scorre da monte a valle...
ma il lupo non demorse (come si dice), e replicò
- Nell'anno - e qui disse l'anno - tu ti facesti dare una borsa con cinquantamila dinàri euro ! -
- In quell'anno i dinàri erano ancora in lire, e non in euro -
- Tu hai incontrato il brigante - e qui ne disse il nome - negli anni 80...anzi nel 94 ! -
- Ma quel brigante nel 93 era in galera -
- Allora l'hai incontrato nel 92. -
- Anche nel 92 era in galera -
- Allora hai incontrato suo figlio -
- Anche lui era in galera, e non avrei potuto incontrarlo -
La folla dei contadini armati di falce, e dei falegnami armati di martello si fece minacciosa contro l'agnellino, urlando
- Sei stato accusato, dimettiti ! -
Un uomo dagli occhi di bragia, e dall'eloquio in perenne disaccordo coi congiuntivi, giunse ad unirsi a loro, gridando
- Dimettiti, fatti processare ! Se io mi avrebbe stato accusato, mi saressi dimesso, dico io. Tu dici che sei innocente ? E che c'azzecca ? Dimettiti ! -
Peccato che la stessa persona avesse appena usufruito dell'immunità parlamentare per non farsi processare, ma, si sa, il codice di Maga Magò dice giustamente che le dimissioni si pretendono da chi si e da chi no.

Parola di Shelburn.


La parabola del lupo e dell'agnello,

Il lupo voleva mangiarsi l'agnello.Ma il cane pastore cercò di impedirglielo.Così le anime buone dissero che il cane era cattivo assai, e vollero che si facesse pace.Pace tra il lupo e il cane pastore.Allontanato il cane pastore, il lupo si pappò l'agnello in quattro e quatt'otto, nel silenzio assordante delle (colpevoli) anime buone.Ancora adesso la raccontano che fu il cane ad aggredire il povero pacifico lupo.Anche se dell'agnello non c'è rimasto nemmeno più il ricordo.parola di Shelburn.

La parabola degli orsi scomparsi.

In quel tempo la gente piangeva dirottamente. Ruscelli di lacrime scorrevano dalle gote rubiconde di tenere fanciulle.Un viandante si fermò a guardare e chiese stupito- Perché piange tutta questa gente ? -- Stanno scomparendo gli orsi -- E come mai ? -- Fa sempre più caldo, non c'è più neve, e gli orsi scompaiono, per sempre, uah, uah, uah ! -- Su non faccia così. E poi, tutta quella neve che vedo ? -- Come può vedere neve se tutti gli scienziati dicono che non ce n'è ? -Il viandante ne raccolse un po' da terra- ...e questa cos'è ? -- Sarà panna montata, che vuole che le dica ? -- Ma è fredda... -- Certamente, la panna montata calda è una vera schifezza -- Non le posso dare torto. Ma questi orsi, quanti erano prima ? -- Erano ben cinquemila -- Ed adesso, quanti sono ? -- Si stima che siano tra i venti e i trenta mila. -- Ma allora sono aumentati. Perché piange la gente ? -- Vede, prima gli orsi che stavano scomparendo erano solo cinque mila. Era un problema. Volendo quantificarlo, era un problema per cinque mila animali.Ora gli orsi che stanno scomparendo sono molti di più, e quindi il problema è più grosso, perché più animali sono in pericolo. -E vedendo il viandante perplesso, aggiunse- Più animali in pericolo, più grosso è il problema. Come fa a non capire ? -- Già - mormorò il viandante grattandosi la zucca - ...come faccio a non capire ? -Parola di Shelburn.

La parabola della montagna

In quel tempo, uno straniero venne nella Terra dell'Arte, e vide una grande montagna.- Come si arriva là in cima ? - chiese ad una persona del luogo.- Ci sono due vie.L'una è irta di ostacoli. A chi vi si avventura viene messo un grosso carico in spalla, e mentre passa nei villaggi la gente lo insulta, e gli fa perdere tempo in ogni modo.Così la maggior parte desiste senza arrivare in cima, chi per paura, chi perché non sopporta i continui insulti o i continui ostacoli pretestuosi, chi perché si stanca o trova altro da fare. -- E l'altra via ? -- Oh, quella... è la teleferica,ma è destinata solo a quelli de sinistra. -E chi vuol capire capisca.parola di Shelburn.

Parabola delle capre e dei cavoli.

In quel tempo, un giovine furbone aveva novanta cavoli.- Ce ne voglion almeno cento, almeno cento ! - gli gridava il padrone.Almeno cento ? Qual'è il problema ?Aggiunse dieci capre, maschi e femmine, e contò:- Bene, adesso abbiamo cento capre e cavoli. -Giusto, ma dopo un certo tempo le capre si mangiarono dei cavoli, e nacquero tante belle caprette.E dopo qualche tempo, il furbone tornò a contare.E indovinate quante capre trovò e quanti cavoli ?Non è difficile immaginarlo.Basta volerlo capire... e chi vuol capire, capisca.Parola di Shelburn.

La Parabola del Buon Napoletano

Allora il Maestro disse: «Un uccellino cadde dal suo nido e rimase per terra mezzo morto. Per caso un sacerdote scendeva per quella stessa strada; e lo vide, ma passò oltre dal lato opposto.Così pure un Brontolone, giunto in quel luogo, lo vide, ma passò oltre dal lato opposto. Ma un Napoletano passandogli accanto, lo vide e ne ebbe pietà; avvicinatosi, lo cibò di formiche morte e si prese cura di lui. Il giorno dopo, presi due denari, li diede ad un amico e gli disse: "Prenditi cura di lui; e tutto ciò che spenderai di più, te lo rimborserò al mio ritorno".Quale di questi tre ti pare essere stato il prossimo del povero uccellino?Quegli rispose: «Colui che gli usò misericordia».Allora il Maestro gli disse: «Va', e fa' anche tu la stessa cosa».
(Dal Vangelo apocrifo di San Pcosta)

Parabola del lupo e del can pastore.

In quel tempo un lupo feroce azzannava le pecore dei poveri pastori, seminando terrore e morte.Giunto nella Valle dei Rossi Tramonti, si lanciò contro le pecore di un pastore che viveva colà, ma il suo cane reagì con energia, mettendo in fuga il lupo.Il pastore fece alte lodi al suo fedele cane, e quella sera gli dette molta più carne, come premio.Ma il giorno dopo si presentò di nuovo il lupo feroce, in presenza dell'autorità, affermando che il cane pastore doveva essere abbattuto perché assai pericoloso, e come prova mostrò i segni dei morsi che aveva ricevuto.Come andò a finire è scritto nel gran libro di quella valle, ma io mi asterrò dal raccontarvelo, per stimolarvi a pensare.Parola di Shelburn.

La parabola del Diogene moderno.

In quel tempo un uomo con una lanterna elettronica in mano fu visto percorrere le strade del web in pieno giorno, osservando ogni bucum, ogni pertugium, ogni forum, e allontanarsi ogni volta con aria delusa se non disgustata.Un giornalista del Legno Storto lo fermò, e gli chiese- Cosa cerca dunque Lei, buon uomo, con questa lanterna elettronica in mano ? -Diogene levò uno sguardo allucinato verso di lui, che pareva di pietro, ed esclamò con foga:- Cerco l'uomo intellettuale di destra, e non lo trovo -Il giornalista gli chiese ancora- Posso far qualcosa per aiutarLa ? - Ma il filosofo, brandendo un bastone, lo minacciò:- Si tolga da lì davanti, che non vedo il Sole24ore, e nemmeno la Gazzetta del Mezzogiorno... -Parola di Shelburn

La parabola di colori

In quel tempo c'era un bel mercato, affollato di gente che comprava di ogni cosa.
Ma vennero da fuori i messi del tiranno e dissero che nessuno poteva vindere o acquistare delle stoffe di color azzurro, perché erano lo simbolo del principe azzurro, e delle sue stucchevoli favole.
Così fu fatto, e di stoffe azzurre nessuno ne comprò più.

Ma poi tornarono ancora i messi dicendo che non si poteva né vindere né acquistare delle stoffe verdi, perché ricordavano i colori di Robin Hood, e dei suoi amici ladri.
E così fu fatto, e nessuno più ne comprò.

E poi tornarono li messi a proibire di comprare o vindere delle stoffe gialle, che offendevano il Sole, e di quelle bianche che offendevano la Luna, e nessuno più ne comprò di siffatti colori.

E poi tornarono ancora per proibire le stoffe di color rosa, e quelle marroni, e quelle di qualsiasi altro colore che non fosse il grigio.

E così tutto il mondo divenne grigio, e scomparve la vitalità e il sorriso perfino nei visi dei fanciulli.

E chi vuol capire capisca, tanto gli altri son talmente pieni di alterigia che non lo capiranno mai.

Parola di Shelburn.

La parabola dei sapori.

In quel tempo vennero i messi del tiranno e dissero che chi avesse mangiato del sale sarebbe stato imprigionato, perché il sale trattiene i liquidi e fa ingrassare, cosa che fa male alla salute e dispiace al tiranno.

Poi tornarono i messi del tiranno e dissero che chi avesse mangiato dello zucchero o qualcosa di dolce sarebbe stato imprigionato, perché lo zucchero fa ingrassare, cosa che fa male alla salute e dispiace al tiranno.

E tornarono ancora a proibire l'acre e il piccante, e, saputo del nuovo sapore, del brodo di carne, proibì anche di quello, ed ogni commensale avrebbe mangiato solo pane azimo e acqua, per dar onore al tiranno.

Nonostante tanto amore per loro, però, le genti, ingrate, si lamentavano di quel mangiare senza sapori. Ma egli, il tiranno, li rimproverò di voler offendere, mangiando del salato, chi non poteva mangiarne, e mangiando del dolce, chi di quello non ne poteva far uso, e così via.

Nella sua grande saggezza il tiranno si ritirò nelle sue stanze, lasciando che il popolo mormorasse.

Parola di Shelburn

La parabola della trattoria.

In quel tempo un viandante stava consumando la sua cena in una trattoria, ed aveva già alzato la forchetta per infilzare un boccone di costoletta, che aveva appena tagliato, quando il proprietario della trattoria gli tolse il piatto da sotto la forchetta.
- Che insolenza è mai questa ? - sbottò il viandante, con la forchetta ancora per aria.
- Mi dispiace, signore, ma quel signore laggiù è islamico e si offenderebbe se voi mangiaste della carne di maiale, che, sapete, secondo la sua fede è impura assai. -
- Mica gliela fo mangiare a lui, che capirei... che ha da offendersi di quel che mangio io ? -
- Lei può mangiare di carne di maiale a casa sua, ma questo è un luogo pubblico, e non si possono offendere le idee altrui -
- Quelle altrui, no, ma quelle mie, si ? -
- Signore, non v'inquietate per carità, che vi porterò una bella bistecca alla fiorentina, che quella non è di porco. -
Il viandante, che era un tipo accomodante, e per dimostrarlo s'era accomodato sullo sgabello che fungeva da seggiola, acconsentì al cambio, per amor di quiete, ma aggiunse
- Portatemi però un rosso di quello buono, che colla fiorentina è la morte sua ! -
- Abbiamo del Brunello di Montalcino di ottima annata -
- Questo mi aggrada, portatelo dunque. -
E dopo una breve attesa si presentò con una splendida bottiglia
- Sentite che meraviglia, che fragranza esce fuori da quest'orgoglio della mia cantina ! -
- Devo convenire che sia un bel bere. Orsù, versatene - esclamò, alzando il bicchiere
- Non vorrete berne a digiuno ? -
- No, per carità, aspetterò la fiorentina -
L'uomo si allontano, ma mentre il viandante era immerso nei suoi pensieri, tornò, versò il brunello dal bicchiere nuovamente nella bottiglia e fece per allontanarsi
- Ma che diavolo...? -
- Non s'inquieti, per carità, ma dovreste sapere che anche il vino è impuro ed offende un devoto Musulmano -
Il viandante fece per aprir bocca, ma quello s'era già allontanato colla bottiglia.
E tornò poco dopo con una brocca d'acqua fresca.
- Credetemi non c'è nulla di meglio di un sorso di sorgente pura e cristallina -
- Sarà - si rassegnò il viandante, poco convinto.
Ma finalmente il suo viso si illuminò, alla vista di una succulenta e traboccante bistecca.
- Urca, se magna ! - esclamò finalmente giulivo.
Ma aveva appena tagliato un bel pezzo di carne fumante, e l'aveva infilzato colla forchetta, alzandolo all'altezza della bocca vogliosa, quando qualcuno gli tolse la forchetta di mano, buttò il pezzo tagliato nel piatto, e portò via la bistecca.
- Per le mille e mille dune del Sahara, che significa tutto ciò ? -
- Purtroppo - sussurrò imbarazzato il proprietario della trattoria - è entrato quel signore indiano, e, sapete, per la loro religione è offensivo assai mangiar di carne di vacche... ma posso servirvi una spigola che vi farà venir l'aquolina in bocca ! -
- Vada per la spigola - acconsentì il viandante, pur di mangiare
- Eh no ! - s'intromise un altro viandante che era giunto proprio in quel momento - come vegetariano non posso permettere che si faccia uso di carni di animali. Troverete uova, latte, verdure appetitose, e frutta abbondanti per sfamarvi -
- Frutta, verdura, uova e latte ? Ma... e va bene, ma presto, che il mio stomaco reclama con prepotenza ! -
- Un momento ! - l'interruppe un altro viaggiatore entrato in quell'istante - Io sono vegan, e non permetterò che si mangi di uova, o di latte, che son alimenti che provengono da allevamenti...oh, voi non sapete quali orrori, quali lager siano questi allevamenti per quelle povere bestiole, che dovrebbero vivere invece libere e selvagge. -
- E allora vada per frutta e verdura -
- ...ma che non sia colta sull'albero ! Potete mangiare solo di quella che spontaneamente cade dall'albero, e null'altro -
Il viandante però a questo punto perse la pazienza, e quel che accadde dopo è disdicevole assai a raccontarsi.

Parola di Shelburn.

La parabola della bella vacanza.

In quel tempo si discuteva in famiglia su dove andare in vacanza.
Il padre propose di risalire il fiume Istro fino alle due città di Buda e Pest, e magari anche oltre, fino a quel borgo dove si posson mangiare di cotolette più fini di quelle che si impanano a Mediolanum.
Il figlio minore, amante dei fiordi vichinghi, suggerì invece la costa Brava.
Dipietrus saltò su, tutto rosso, esclamando, con occhi di bragia
- Ma dico, dico io, se hai detto che ti piacciono i fiordi...che c'azzecca la Costa Brava ?
Se hai detto fiordi, io anderessi in Danimarca ! -
- I fiordi sono in Norvegia - precisò il solito perfettino
- E se io mi troverebbe in Danimarca, non staressi tanto lontano dalla Norvegia, dico io -
sbottò Dipietrus ancor più rosso, e con gli occhi ancor più spalancati.
A questo punto la figlia bionda esternò con foga la sua preferenza per una vacanza in Germania, tra le tribù dei Cimbri e quelle dei Teutoni, pacifiche ed allegre. Salsiccine e Birra in quantità.
Ma la madre tagliò corto.
- Troppe opzioni, per non far torto a nessuno, faremo torto a tutti. Sceglieremo l'opzione "neutra". Si resta a casa. -
E così fu detto, e così fu fatto.
Amen.

Parola di Shelburn.

La parabola della facciata.

In quel tempo i condomini di un palazzo videro che la facciata era assolutamente sporca e indecente, e la gente che passava di lì criticava aspramente i proprietari di quel palazzo, tacciandoli per taccagni e spilorci. Taccagni di lunedi, e spilorci di venerdi. Per il resto della settimana dicevan di peggio.

Allora essi si riunirono in assemblea e decisero saggiamente di dar mano ai lavori e ridipingere la facciata.

Ma non si mettevano d'accordo sul colore. 14 dei 16 condomini la volevano azzurra, che è il colore del cielo, del mare, del Napoli Football Club, che già allora esisteva, e della nazionale italiana.

Uno la voleva invece rossa, con una bella falce e martello dipinta nell'angolo in alto a sinistra, di un bel colore giallo, affermando che così sarebbe stata artisticamente graziosa.

L'ultimo dei condomini invece non voleva che si mettesse mano ai lavori, e pretendeva che non ci fosse nessun colore, perché un palazzo deve essere neutro, e qualsiasi colore avrebbe offeso le minoranze.

Dato che gli altri pretendevano che in Democrazia prevalesse il parere della maggioranza, si rivolse allora ad una corte straniera.
I giudici di là gli dettero ragione, e così fu stabilito, che il palazzo non dovesse avere colore alcuno.

- Ma nessun colore è anch'esso un colore - esclamò un tale sig. Settepassi - perché ogni cosa ha comunque un colore, e anche se non ne metti alcuno, anche l'assenza è di fatto un simbolo essa stessa... è un ben preciso colore, un inequivocabile pronunciamento politico. -

Ma Settepassi non venne ascoltato, e il palazzo, non curato, incominciò a puzzare.

Parola di Shelburn.

La parabola del Sotuttoio

In quel tempo c'era un navigatore, di nome Sotuttoio e di cognome Voinonsapeteniente, che di porto in porto, di sito in sito, si trovò a galleggiare su un legno storto assai.
Arrivato colà, senza dir né buongiorno, né buonasera, senza salutar nessuno, ché è cosa di vil mortali, esclamò annoiato:
- Visto che mi viene chiesto di parlarne, come se fosse una cosa importante, scrivo cosa penso riguardo alla sentenza della corte europea , riguardante il crocifisso nelle scuole -
...e che volete, eravamo tutti ansiosi di conoscere la sua autorevole opinione, e nessuno di noi avrebbe dormito, se non avesse parlato, come oracolo parlasse.
Così, incapaci di proferir parola, ascoltammo tanta sapienza e tanta saggezza onorare le nostre umili orecchie.
Ed egli benignamente ci onorò, eh sì, ma che non si ripeta, ché non siam degni di cotanto onore !
- Le tradizioni non sono immortali - oh, qual grazia nell'enunciare codesta verità suprema !
- ...non c’e’ piu’ il Faraone - eh no, questo non doveva dircelo, a noi che ancora l'aspettavamo per cena !
- le tradizioni finiscono, e le radici si rompono, per quanto importanti siano state. -
...lo dicevo io di tirar pian piano le carote, che sennò si rompono. Ma ora che l'ha detto pure Sotuttoio starete più attenti.
- ...il cristianesimo e’ stato una importante radice dell’europa, e ha fatto parte della tradizione culturale europea. Oggi non più.
Ripeto: oggi non più. E sarebbe ora che qualcuno avesse il coraggio di dirlo.- e meno male che un coraggioso c'è stato.
e pensa un po', se non l'avesse ripetuto, qual danno ne avrebbero avuto le giovani menti assetate di sapere !
E mentre cotanto oratore parlava, l'umile gente ignorante si addormentava, ma fu svegliata dalla sua voce tonante che urlava
- Potrei mostrarvi la vostra profonda ignoranza, facendovi delle domande trabocchetto banali banali, come per esempio “gli angeli hanno la fede?” oppure che so io “Satana satana puo’ essere considerato un buon cristiano?” per - ehm, qui usò un termine crudo, che mi preme risparmiarvi...dunque diciamo che disse:
- mangiarvi come tanti salamini appesi alla trave. E questo per una seconda proprieta’ che il “cristiano” di oggi ha: non conoscere la propria religione. -
Quale religione conoscono i cristiani, forse quella buddhista, o quella indù ? Molti sono indotti a pensare che il saggio vate pensasse alla religione shintoista.
Tra un sonnellino e u n dormiveglia arrivavano gli strali
- ...voi tutti dovreste passare la vita a chiedervi “come si comporterebbe Cristo in questa situazione? -
e poi
- Lo fate? Vi comportate , ogni giorno, come si comporterebbe Lui? No, non lo fate. Nessuno di voi lo fa.-
e poi ancora
- Cosi’, ripeto, ho cattive notizie per voi: non solo e’ morto il cristianesimo, con tutte le sue “tradizioni”, ma c’e’ di peggio. Il cattolicesimo è morto, ed è morto per colpa dei cattolici. -

La gente cominciava a pensare, ma guarda che brutte notizie che dà il telegiornale, e nessuno si rendeva conto del dramma.
E mentre la povera gente, incapace di recepire tanto verbo, sonnecchiava e qualcuno, ahimè, ronfava sonoramente, la voce continuava a gridare
- Ma la cosa peggiore, è che non sapete nemmeno il perché. Io ho smesso di essere cristiano, e quando dico che ho smesso dico che so che cosa ho lasciato. -
Ma a quel punto non era rimasto nessuno sveglio.
Sotuttoio continuò ad arringare la folla dormiente con voce tonante e occhi di bragia, ma quei miseri omini da poco continuarono a ronfare e a rigirarsi nel sonno, sicché al vate immenso ed adirato non restò che andarsene, sbattendo la porta.
Si udì un grido, e, da dietro la porta un'imprecazione stizzita
- Porca miseria, ogni volta mi chiudo la coda nella porta ! -

Parola di Shelburn.

lunedì 2 novembre 2009

L’immigrazione, risorsa o problema? (click)

Relazione al seminario della Fondazione Magna Carta Identità, responsabilità e libertà, Roma, 3 novembre 2009

di Massimo Introvigne

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  1. Immigrazione, xenofobia, immigrazionismo

Nella magna carta della dottrina sociale della Chiesa per il XXI secolo, l’enciclica Caritas in veritate, Benedetto XVI fissa tre principi fondamentali relativi alla questione dell’immigrazione, che – sottolinea – è «di gestione complessa», comporta «sfide drammatiche» (n. 62) e non tollera soluzioni sbrigative.

1. Il primo principio è l’affermazione dei «diritti delle persone e delle famiglie emigrate» (ibid.). Una volta che è arrivato nel Paese di destinazione, il migrante deve vedersi riconosciuti i «diritti fondamentali inalienabili» (ibid.) e dev’essere sempre trattato come una persona, mai «come una merce» (ibid.).

2. Il secondo principio è che si devono ugualmente salvaguardare i diritti «delle società di approdo degli stessi emigrati» (ibid.): diritti non solo alla sicurezza ma anche alla difesa della propria integrità nazionale e della propria identità.

3. Il terzo principio riguarda i diritti delle società di partenza degli emigrati, che si deve porre attenzione a non svuotare di risorse e di energie, sottraendo loro con l’emigrazione persone che sarebbero utili e necessarie nel Paese di origine. Va sempre posta attenzione al «miglioramento delle situazioni di vita delle persone concrete di una certa regione, affinché possano assolvere a quei doveri che attualmente l’indigenza non consente loro di onorare» (n. 47): anzitutto dove sono nate, e senza essere costrette o indotte all’emigrazione. In occasione del viaggio del 2008 negli Stati Uniti Benedetto XVI aveva precisato: «La soluzione fondamentale è che non ci sia più bisogno di emigrare, perché ci sono in Patria posti di lavoro sufficienti, un tessuto sociale sufficiente, così che nessuno abbia più bisogno di emigrare. Quindi, dobbiamo lavorare tutti per questo obiettivo, per uno sviluppo sociale che consenta di offrire ai cittadini lavoro ed un futuro nella terra d’origine» (Intervista concessa dal Santo Padre ai giornalisti durante il volo diretto negli Stati Uniti d’America, del 15 aprile 2008).

Questi principi sono violati da due distinti atteggiamenti e ideologie. Il primo principio è negato dalla xenofobia – descritta e denunciata da Papa Giovanni Paolo II nel Messaggio per la 89a Giornata mondiale del migrante e del rifugiato del 2003, del 24 ottobre 2002 –, cioè dalla convinzione che l’altro, lo straniero è per definizione inferiore a chi abita da sempre il Paese di approdo dell’emigrazione e può essere quindi discriminato in quanto straniero. C’è una xenofobia rozza e talora semplicemente stupida, quella di chi scrive sui muri «Morte agli immigrati». E ce n’è una più scaltra e sottile, quella di chi sfrutta la diffusione di questi sentimenti per la manipolazione degli immigrati al servizio di strategie di potere economico – l’immigrato è considerato soltanto un lavoratore che costa meno – quando non criminale. Un certo «turbocapitalismo» davvero considera l’immigrato «come una merce» e non come una persona.

Il secondo e il terzo principio sono violati dall’immigrazionismo – l’espressione è stata coniata dal politologo francese Pierre-André Taguieff e ripresa dal giornalista statunitense Christopher Caldwell nel suo libro Reflections on the Revolution in Europe. Immigration, Islam and the West (Penguin, Londra 2009: il titolo è un omaggio alle Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia, il testo contro la Rivoluzione francese del 1789 di Edmund Burke, 1729-1797; trad. it.: L’ultima rivoluzione dell’Europa, Garzanti, Milano 2009) – cioè dall’ideologia secondo cui l’immigrazione è sempre e comunque un fenomeno eticamente e culturalmente buono ed economicamente vantaggioso, e negare che lo sia è di per sé manifestazione di xenofobia e di razzismo.
Sarebbe sbagliato sostenere che la xenofobia sia sempre «di destra» e l’immigrazionismo «di sinistra». C’è una sinistra – per esempio sindacale – che manifestando timori per la concorrenza degli immigrati sul mercato del lavoro assume toni xenofobi. E l’immigrazionismo ha una versione «di sinistra» e una «di destra». Nel suo libro Caldwell ricostruisce la genesi dell’immigrazionismo «di destra» in Europa, da Nicolas Sarkozy – peraltro più acceso sul tema da Ministro dell’Interno della Repubblica Francese e più moderato da presidente – a Gianfranco Fini.

C’è peraltro una differenza fra immigrazionisti di sinistra e di destra. I primi pensano che – per fare ammenda del passato coloniale e del presente neo-colonialista e imperialista – l’Occidente debba tollerare dagli immigrati comportamenti che non sopporterebbe mai dai suoi cittadini. La delinquenza e perfino il terrorismo degli immigrati sono visti dall’immigrazionista di sinistra con una certa indulgenza: dopo tutto, dirà, «li abbiamo sfruttati per anni», e se protestano in modo non precisamente compito «non è poi tutta colpa loro». L’immigrazionista di destra assicura che, se viola la legge, l’immigrato sarà trattato con la dovuta severità dalla polizia. «Tutti devono rispettare la legge», ripetono i Sarkozy e i Fini. Si può subito rispondere che questo è ovvio – solo l’ideologismo sfrenato dell’immigrazionista di sinistra suggerisce che qualcuno possa non rispettare la legge –: ma non è abbastanza. Un immigrato che non mette bombe nelle metropolitane, non brucia le automobili del quartiere e non picchia i poliziotti – ma nello stesso tempo vive e pensa secondo valori antitetici a quelli europei – è veramente una risorsa per l’Europa oppure rimane un problema?

Raramente la xenofobia è sostenuta da una elaborazione culturale, se non si vuole considerare tale il ritorno a vecchie teorie della razza da parte di qualche gruppuscolo neo-nazista. La xenofobia si combatte, come notava Papa Giovanni Paolo II nel documento citato, con il richiamo alla figura naturale e cristiana della persona creata, voluta e amata da Dio qualunque siano la sua etnia, la sua lingua e la sua nazionalità. Ci sono però dei «professionisti dell’anti-razzismo» che manipolano pericolosamente la lotta alla xenofobia sfruttandola per diffondere il relativismo culturale,cioè l’idea che tutte le culture sono uguali e che non esistono culture migliori o peggiori di altre. Questo «eclettismo culturale», che rischia di diffondersi anche a causa della globalizzazione che fa incontrare più spesso e più rapidamente le culture tra loro, sostiene – spiega la Caritas in veritate – che le culture sono «sostanzialmente equivalenti» (n. 26). Questa è un’opinione molto diffusa, ma è pure il cuore stesso del relativismo, che la Chiesa non può accettare. Le culture non sono affatto tutte dello stesso valore. Vanno giudicate alla luce della loro capacità di servire il bene comune e i veri diritti della persona, che non tutte le culture rispettano nello stesso modo. Una cultura fondata sulla poligamia e una fondata sul matrimonio monogamico non sono «equivalenti». Alla luce non solo della religione ma anzitutto del diritto naturale, che s’impone a tutti sulla base della ragione, la poligamia è sbagliata e la monogamia è giusta. Sono affermazioni poco «politicamente corrette», ma che vanno assolutamente mantenute se si vogliono difendere i diritti della verità ed evitare di promuovere il relativismo.

A differenza della xenofobia, l’immigrazionismo è sostenuto da argomenti di notevole impegno intellettuale. Non sarebbe dunque giustificata nell’esame del problema una par condicio nel criticare le due deviazioni – xenofobia e immigrazionismo – dai principi che la dottrina sociale fissa in tema d’immigrazione. Dal punto di vista intellettuale l’immigrazionismo è più insidioso, rischia di essere più persuasivo e dunque richiede una confutazione più articolata.

  1. Le cinque tesi dell’immigrazionismo

La propaganda immigrazionista si fonda su cinque tesi fondamentali, che è opportuno esaminare e confutare una per una.

1. La prima tesi è di carattere quantitativo. Sostiene che in Europa, dopo tutto, gli immigrati sono ancora una minoranza e l’allarmismo è ingiustificato. Echi di questa tesi si trovano, per esempio, nel rapporto Caritas/Migrantes Immigazione Dossier Statistico 2009. XIX Rapporto (IDOS, Roma 2009), che – se fornisce dati utili, che tutti utilizziamo e per cui siamo grati ai compilatori – è caratterizzato nei commenti da una buona dose d’immigrazionismo. Gli immigrati regolari (esclusi dunque i clandestini) secondo questo rapporto in Italia sono 4.330.000. La cifra – si dice – può essere considerata alta da chi vede il bicchiere mezzo vuoto. Ma per l’ottimista che lo vede mezzo pieno gli immigrati sono meno del dieci per cento dei circa sessanta milioni di residenti sul territorio italiano. E il dato è analogo per l’Unione Europea nel suo insieme: cinquecento milioni di cittadini, cinquanta milioni d’immigrati. Ci sarebbe dunque posto per tutti. Il problema, però, è che questo ragionamento guarda al dato sugli immigrati come a una fotografia. Ma l’immigrazione è un processo, e dunque è necessario guardare non alla fotografia o al singolo fotogramma ma al film. Ci sono delle bellissime e artistiche fotografie di un uomo che corre. Ma non ci dicono quando è partito, in che direzione corre e dove pensa di arrivare. Così – stando sempre ai dati Caritas relativi agli immigrati regolari – questi erano 2.670.514 nel 2005 e appunto 4.330.000 alla fine del 2008. Proiettando semplicemente il dato – e guardando appunto il decorso nel tempo, il film e non solo la fotografia – ci si accorge che saranno più che raddoppiati in cinque anni, dal 2005 al 2010. Ed erano già raddoppiati, da 1,3 a 2,6 milioni, dal 2003 al 2005. A questi ritmi nel 2030 ci sarebbero in Italia dodici milioni d’immigrati regolari, venti milioni nel 2050. Ed è un film già visto altrove: in Olanda, su tredici milioni di residenti, oltre tre milioni sono immigrati extra-comunitari, e questi sono un milione e mezzo su nove milioni di residenti in Svezia.

Naturalmente, questi dati li conoscono anche gli immigrazionisti. Rispondono invitandoci a un duplice atto di fede: dovremmo credere che in futuro ci saranno meno immigrati, e meno figli di immigrati nati nei nostri Paesi. Sul primo punto, battono la grancassa su dati ampiamente pubblicizzati secondo cui il sovraffollamento demografico è un fenomeno che va sparendo in tutto il mondo. Ma dimenticano che il sovraffollamento demografico non è l’unica ragione che spinge a emigrare. Per limitarsi a un esempio semplice – che presento solo come una prima approssimazione, perché in realtà le concause in gioco sono molte – in molti Paesi dell’Europa dell’Est non c’è nessuna esplosione demografica, anzi ci sono problemi di denatalità. Tuttavia si continua a venire in Italia, non perché non ci sia spazio a casa propria ma perché si vede la televisione italiana e ci si convince, a torto, che il nostro è il Paese di Bengodi dove ci si può arricchire rapidamente.

Quanto al secondo punto, è vero che le seconde e le terze generazioni, per esempio, di marocchini venuti in Italia iniziano a essere influenzate dal clima culturale e morale italiano e a limitare il numero dei figli. Ma questo rimane comunque più alto di quello degli italiani «nativi», e del resto continuano ad arrivare immigranti di prima generazione le cui abitudini demografiche rimangono per un certo periodo di tempo quelle del Paese di origine. Non vi è dunque nessuna certezza che il tasso di crescita dell’immigrazione diminuirà in futuro. E nessun Paese del mondo può permettersi le percentuali d’immigrati che si profilano all’orizzonte italiano ed europeo.

Gli esempi degli Stati Uniti o dell’Australia, invocati dagli immigrazionisti, non sono pertinenti, perché questi sono Paesi composti quasi interamente da immigrati. A meno di non considerare «americani» solo gli indiani e «australiani» solo gli aborigeni. A quel punto avrebbe ragione quel manifesto, per molti versi geniale, della Lega che mostra l’immagine di un pellerossa con lo slogan: «Loro hanno subito l’immigrazione. Ora vivono nelle riserve. Pensaci!».

2. Secondo argomento: accogliere grandi quantità d’immigrati, si dice, è un imperativo morale. Lo affermano politici di sinistra e (talora) di destra, e anche ecclesiastici. Si afferma che questo è il contributo moralmente obbligatorio dell’Unione Europea – anche come penitenza per i peccati del colonialismo – per risolvere i problemi della fame del mondo e del sottosviluppo. Ma, a prescindere dal fatto che presentare il colonialismo come soltanto dannoso e malvagio è piuttosto unilaterale e storicamente discutibile, non c’è nessuna prova convincente che sia meno costoso per l’Europa e più proficuo per il Terzo Mondo trasferire da noi milioni d’immigrati extra-comunitari piuttosto che destinare le stesse risorse ad aiutarli nei loro Paesi d’origine. Ci sono anzi fondati indizi del contrario. Chi afferma che molti immigrati sono ottimi candidati alla cittadinanza ci racconta spesso quanti geni dell’informatica, ottime infermiere e bravi medici vengono dai Paesi del Terzo Mondo. Ma non riflette sul costo etico costituito dal fatto che così facendo si sottraggono ai Paesi d’origine proprio quelle élite che sarebbero loro indispensabili per uscire dal sottosviluppo. L’infermiera ugandese che viene in Italia è sottratta all’Uganda, dove servirebbe come il pane per combattere le epidemie.

Un argomento etico molto usato anche in Italia si riferisce al diritto d’asilo. Tuttavia questo diritto è di rado definito in modo rigoroso, e talora è ridotto a una semplice farsa. Chiunque non si trovi bene in un Paese non democratico o sia vittima di gravi sperequazioni economiche avrebbe diritto a chiedere asilo politico – in una parola, la stragrande maggioranza degli abitanti del Terzo Mondo avrebbe questo diritto.

Al contrario, c’è un argomento etico per opporsi all’immigrazionismo, fondato sul rispetto dei diritti delle maggioranze, non meno importanti di quelli delle minoranze. La maggioranza dei cittadini dell’Unione Europea nei sondaggi e anche nelle elezioni si dichiara contraria ai progetti immigrazionisti. Nonostante l’opinione maggioritaria dei cittadini europei, questi progetti continuano a essere trasposti nelle leggi di molti Paesi. Il fatto che il parere della maggioranza degli elettori sia ignorato non crea forse un problema alla democrazia?

3. Il terzo argomento degli immigrazionisti è di tipo economico. Questa tesi è talora ripetuta acriticamente anche da critici dell’immigrazione. Si dice che l’Europa, a causa della denatalità, ha bisogno d’immigrati – non importa provenienti da dove –: e in ogni caso ci sono «lavori che nessun europeo vuole più fare» e che possono essere svolti solo dagli immigrati. È vero, l’Europa ha un drammatico problema demografico e le cifre sono ormai quelle tipiche di civiltà moribonde. Ma non è certo che l’aumento indiscriminato degli immigrati sia la soluzione, per tre principali motivi.

In primo luogo, gli immigrati extra-comunitari, con i loro bassi salari, spesso tengono in vita temporaneamente posti di lavoro comunque destinati a sparire. Questo accanimento terapeutico non è necessariamente salutare per l’economia. L’industria tessile del Nord della Francia e una buona parte della siderurgia in Germania avrebbero perso comunque la grande maggioranza dei loro posti di lavoro alla fine del XX secolo per ragioni indipendenti dal calo demografico: a causa del progresso tecnologico e della disponibilità di prodotti a costi minori provenienti dalla Cina. Questi posti di lavoro – che non avrebbero potuto essere conservati al salario normale di un operaio francese o tedesco – sono sopravvissuti per qualche anno grazie all’impiego d’immigrati sottopagati. Ma alla fine le officine hanno comunque chiuso. Tenerle in vita artificialmente per qualche anno è stato possibile grazie agli immigrati. Ma i costi hanno superato i benefici. Sarebbe stato meglio chiuderle prima.

In secondo luogo, i «lavori che nessun europeo vuole» sono spesso «lavori che nessun europeo vuole se il salario non è attraente». Esistono pochissimi lavori che gli europei si rifiutano di fare «qualunque sia il salario». La verità è un’altra: ci sono datori di lavoro che preferiscono impiegare per certi lavori gli immigrati, i quali costano meno. Questo altera e distorce il mercato del lavoro, e viola i diritti dei cittadini disoccupati che si vedono passare davanti immigrati disposti a lavorare a basso costo. Si assiste al paradosso per cui in alcuni Paesi, mentre aumenta la disoccupazione, aumenta contemporaneamente anche l’immigrazione.

Per amore di equità, si deve peraltro riconoscere che non tutto in questo argomento degli immigrazionisti è falso. Ci sono settori dove effettivamente senza gli immigrati i problemi almeno a breve termine sembrano di difficile soluzione: il caso delle badanti in Italia sembra, qui, pertinente. Ma l’esempio può essere occasione di distinguere fra immigrati extra-comunitari e intra-comunitari. Su cinquecento milioni di residenti nell’Unione Europea, come accennato, cinquanta milioni sono immigrati. Ma di questi circa venti milioni sono abitanti di un Paese dell’Unione che si sono spostati in un altro. Benché, come sanno gli italiani, questi spostamenti non siano privi di problemi, l’immigrazione intra-comunitaria è di norma più facile da assorbire di quella extra-comunitaria per ragioni giuridiche e anche culturali. Dopo tutto, ci sono molte badanti romene e poche marocchine, cinesi o tunisine.

4. Il quarto argomento degli immigrazionisti è sociale. Sempre a causa della natalità (e naturalmente del fatto che grazie ai progressi della medicina si vive più a lungo), il welfare europeo è in profonda crisi. Per dirla semplicemente, ci sono troppi pochi giovani e troppi vecchi, troppi pochi lavoratori che sostengono con i loro contributi gli enti previdenziali e troppi pensionati. In alcune zone d’Europa in cinquant’anni si è passati da una situazione dove una media di quattro lavoratori sosteneva un pensionato a una dove per ogni pensionato ci sono solo due lavoratori. Di qui la presunta idea geniale dei teorici immigrazionisti: niente paura, ci penseranno gli immigrati extra-comunitari. I due lavoratori che mancano all’appello perché ogni pensionato sia di nuovo sostenuto da quattro pagatori di contributi li importiamo dal Marocco o dal Pakistan. Anche il citato rapporto Caritas/Migrantes 2009 insiste su questo punto: gli immigrati (regolari) sono un buon affare per il welfare perché danno agli enti previdenziali più di quanto ricevono.

Ma le cose non stanno proprio così. Ancora una volta ci si propone una fotografia, mentre per capire abbiamo bisogno di un film. Sarà forse una novità per qualche immigrazionista, ma dovrà farsene una ragione: anche gli immigrati invecchiano e un giorno diventeranno pensionati. In Italia l’immigrazione è un fenomeno relativamente recente e gli emigrati pensionati sono pochi. Ma sono destinati fatalmente ad aumentare. Gli immigrati inoltre di solito hanno lavori poco remunerati, dunque pagano contributi relativamente bassi. Uno studio dettagliato sulla Spagna citato da Caldwell nel suo libro mostra che in cinquant’anni, aumentando del 50% il numero degli immigrati extra-comunitari, le entrate degli enti previdenziali crescono solo dell’8%. Inoltre, fin da subito, sia loro sia i loro figli hanno come chiunque problemi di salute di cui la previdenza sociale si deve fare carico.

Una soluzione, per la verità, ci sarebbe, e qualcuno (non in Italia) l’ha anche seriamente sostenuta, senza neppure farsi dare del nazista: considerare gli immigrati «lavoratori ospiti» e rimandarli a casa quando hanno finito di lavorare, far pagare i contributi oggi ma non versare alcuna pensione domani. La soluzione provocherebbe tensioni tali da non potere essere presa davvero in considerazione da nessuno. E manderebbe anche alla rovina qualunque argomento etico degli immigrazionisti.

5. C’è un quinto argomento, che per la verità gli immigrazionisti esprimono raramente ad alta voce. Ma il loro discorso lo presuppone. È la tesi che la religione degli immigrati sia indifferente. Ogni tanto qualcuno lo dice esplicitamente: siamo laici, e dobbiamo affrontare il problema immigrazione senza tenere conto della religione, di cui potrà occuparsi al massimo la Chiesa. Ma si tratta di una sciocchezza. Anche il più ateo degli osservatori non può non riconoscere che la religione esiste e ha delle conseguenze sociali. Se a Torino, come avviene periodicamente, migliaia di peruviani portano in processione le loro statue della Madonna la gente applaude e i giornalisti manifestano una benevola curiosità. Se migliaia di musulmani occupano il suolo pubblico con le loro stuoie e magari mescolano alla preghiera invettive contro gli Stati Uniti e l’Occidente la gente e i media si spaventano. Denunciare queste reazioni come xenofobe non risolve il problema. Certamente – anche tra gli immigrati – ci sono molti islam, e alcuni sono meno lontani dai valori prevalenti in Europa di altri. Ma se da questa premessa – corretta – si arriva alla conclusione che non esistono caratteristiche specifiche dell’islam si cade nel più completo relativismo, forse di moda in un contesto culturale postmoderno ma privo di senso. Esistono gli islam ma esiste anche l’islam. Che è difficile assimilare alla cultura europea su punti fondamentali che riguardano i rapporti fra fede e ragione, fra religione e violenza, fra maggioranze e minoranze religiose, fra uomini e donne.

Certo, processi di assimilazione d’immigrati islamici, singoli e gruppi, non sono impossibili. Ma in verità nessuna civiltà nella storia è riuscita a fronteggiare senza esserne distrutta l’arrivo in così poco tempo di così tante persone portatrici di una cultura e di una religione sia radicalmente diverse sia forti. Diverso era il caso dei barbari, che portavano in Europa una cultura debole; o degli irlandesi emigrati nel XIX secolo negli Stati Uniti il cui cattolicesimo era diverso dal protestantesimo maggioritario in America: ma non così radicalmente diverso com’è l’islam rispetto all’ethos europeo contemporaneo.

C. Leggi immigrazioniste: l’ora di religione islamica e la cittadinanza breve

Il 30 luglio 2009 gli onorevoli Fabio Granata (PDL) e Andrea Sarubbi (PD) – al dire della stampa, longa manus rispettivamente degli onorevoli Gianfranco Fini e Massimo D’Alema – hanno presentato una proposta di legge (n. 2760) dal titolo Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza. Tra le diverse modifiche legislative proposte, tutte all’insegna di percorsi più facili perché gli immigrati possano ottenere la cittadinanza italiana, la norma saliente che si propone d’introdurre riduce da dieci a cinque anni il tempo di permanenza sul territorio nazionale che consentirebbe, previo un semplice esame di lingua e di educazione civica, di diventare cittadini italiani. Il 16-17 ottobre 2009 ad Asolo (Treviso) la Fondazione FareFuturo, che fa capo all’on. Fini, e la fondazione Italianieuropei, che fa capo all’on. D’Alema, hanno presentato un rapporto – firmato peraltro dalla sola Fondazione FareFuturo – dal titolo Immigrazione integrata e cittadinanza di qualità. Un contributo alla definizione delle politiche migratorie (FareFuturo, Roma 2009). Vi si espongono argomenti a sostegno della proposta di legge Granata-Sarubbi e si lancia l’ulteriore proposta dell’introduzione di un insegnamento della religione islamica nelle scuole italiane, rilevando in via generale – non senza una frecciata anche in direzione delle scuole cattoliche – che «la strada dell’insegnamento facoltativo delle religioni nelle scuole pubbliche, statali e non statali, che garantiscono la qualità dell’interno percorso formativo, è certamente preferibile alle presenza di scuole specifiche a fondamento religioso, che nel nostro contesto rischiano di diventare alternative e contrastanti, fonte di esclusione e di contrasto» (p. 52). Esaminerò brevemente il tema dell’ora di religione islamica e quello della cittadinanza breve, non solo perché sono di attualità ma anche perché sono esempi particolarmente chiari di applicazione pratica dell’ideologia immigrazionista.

1. Ci sono due buoni motivi per respingere la proposta di un’ora di religione islamica nelle scuole italiane. Anzitutto, perché l’ora di religione islamica e non quella ortodossa o Testimone di Geova? E’ possibile che, se parliamo non di origine religiosa ma di contatto più o meno regolare con istituzioni religiose organizzate, queste comunità siano più numerose degli islamici in Italia. I Testimoni di Geova (contati come li contano i sociologi in analogia a ogni altra comunità religiosa, non come si contano loro stessi, che considerano «testimone» solo chi svolge opera di proselitismo suonando alle porte) in Italia sono 400.000 e gli ortodossi – in maggioranza immigrati – almeno mezzo milione, mentre del milione e più d’immigrati di origine islamica è difficile dire quanti mantengano un contatto con la loro religione. Con la crescita della diversificazione religiosa tra un po’ non si potrebbe negare neppure l’ora di religione pentecostale (350.000 fedeli se si considerano gli immigrati), seguita da quella buddhista, sikh, induista e così via. A parte i problemi organizzativi – sarebbe interessante chiedere al ministro dell’Economia on. Giulio Tremonti che cosa pensa dell’idea di pagare con soldi dello Stato centinaia d’insegnanti d’islam, buddhismo e così via – ne risulterebbe una Babele e un supermercato delle religioni. Costituzionalizzando con il Concordato l’ora di religione il legislatore ha voluto riconoscere il ruolo della tradizione cattolica – senza la quale è difficile capire in Italia l’arte, la cultura, la letteratura – nella nostra storia e nel nostro ethos nazionale, non dare a tutti i ragazzi che vivono in Italia la possibilità di trovare a scuola la «loro» religione. L’insegnamento di religioni diverse dalla cattolica è del resto liberamente impartito fuori della scuola.

Secondo: chi gestirebbe l’ora di religione islamica? Tutti i governi, di destra e di sinistra, in Italia ma anche in Francia, in Belgio e in Spagna hanno provato a trovare un interlocutore musulmano unico e rappresentativo. Nessuno ci è riuscito. L’islam (sunnita: quello sciita è un po’ diverso, ma in Italia è pressoché assente) è una religione orizzontale, non verticale: non ha un Papa, non ha vescovi, a rigore non ha neppure parroci. Gli imam sono scambiati per vescovi islamici solo in Italia, grazie ai talk show televisivi. Non sono neppure l’equivalente dei parroci, e nei Paesi musulmani a nessuno verrebbe in mente di considerarli i «capi» dell’islam. Da noi sì, grazie a Porta a porta; ma si tratta di un equivoco. In Francia è viva la discussione su come lo stesso Consiglio francese del culto musulmano (CFCM), costituito dall’allora Ministro dell’Interno Sarkozy per dare allo Stato un interlocutore islamico, nella sostanza non funzioni. Da una parte, per presentarsi come rappresentativo, ha dovuto includere le organizzazioni più fondamentaliste – che lentamente ne stanno prendendo il controllo, proprio quello che Sarkozy non voleva –, dall’altra le liti fra musulmani, e fra i governi che li finanziano (Algeria contro Marocco, Arabia Saudita contro Maghreb), ne paralizzano il funzionamento. Stabilita l’ora di religione islamica anche in Italia occorrerebbe trovare chi impartisca le lezioni. Se fosse l’organizzazione più grande, l’UCOII, l’Unione delle Comunità e Organizzazione Islamiche in Italia (che peraltro si è detta non interessata), che affonda le sue radici nel pensiero fondamentalista, avremmo la scuola di fondamentalismo islamico finanziata dallo Stato. Se non fosse l’UCOII questa – che, piaccia o no, controlla ancora la maggioranza delle moschee italiane (nonostante pregevoli sforzi per creare alternative) – avrebbe ragioni di dire che gli insegnanti non sono rappresentativi, sono «musulbuoni», «sindacalisti gialli dell’islam» o «zii Tom», come va già dicendo per qualunque iniziativa che non la ricomprenda.

Ora di religione islamica a scuola in Italia? Per dirla con l’ispettore Clouseau nel film La pantera rosa «c’è una sola cosa che non va in questa idea: è stupida».

2. Quanto alla cittadinanza breve, la proposta si basa su una confusione fondamentale. La cittadinanza è il cuore – delicatissimo – della nazione. Se per ipotesi paradossale si trasferisse in una nazione in qualche mese un numero di stranieri superiore a quello dei cittadini, e se questi stranieri fossero dichiarati cittadini mettendo in minoranza i «nativi», la nazione – che è ben più di un semplice spazio geografico – cesserebbe di esistere. Certo, è possibile cambiare nazionalità. Ma questa modifica non è creata: è riconosciuta dalla legge. Lo Stato, cioè, prende atto che Tizio che vive in Italia da tanti anni, parla da italiano, pensa da italiano ormai è italiano. Perché il processo sia completo e non ambiguo Tizio dovrebbe, vedendosi riconosciuta la cittadinanza italiana, rinunciare alla sua cittadinanza di origine. L’idea che si potesse avere due cittadinanze era una facilitazione pensata anzitutto per gli italiani d’altri tempi emigrati all’estero. Non dovrebbe avere più ragione di esistere oggi: non c’è in Paesi come la Germania e l’Olanda, mentre c’è nella nostra legge vigente e c’è nella proposta Granata-Sarubbi. Se Tizio si sente italiano, lo dimostri anzitutto rinunciando a ogni altra cittadinanza.

Riconoscere la cittadinanza è la fine di un processo d’integrazione o assimilazione: non è il suo inizio. La proposta Granata-Sarubbi confonde appunto l’inizio e la fine del processo. Concede subito la cittadinanza nella speranza che questa concessione faciliti una successiva integrazione. Gli immigrati moderni – spesso estremamente mobili, pronti a scrutare le condizioni migliori e a studiare il mercato del lavoro per trasferirsi da un Paese all’altro o tornare a casa – raramente dopo cinque anni di soggiorno in Italia hanno cambiato così radicalmente mentalità da non sentirsi più né essere considerati dai loro vicini cinesi, marocchini o nigeriani ma soltanto e a tutti gli effetti italiani. La proposta di legge dunque nasce vecchia, perché pensa a un antico tipo d’immigrato, quello che partiva con il piroscafo per l’America e sapeva bene che non si sarebbe più spostato né sarebbe tornato. Ed è vecchia anche perché – mentre lo studio scientifico dell’immigrazione sempre di più sottolinea che l’integrazione è un fatto qualitativo – dichiara l’immigrato integrato fino al punto da farne un cittadino sulla base del dato puramente quantitativo dei cinque anni di soggiorno. Sugli esami di lingua ed educazione civica non è lecito farsi troppe illusioni in Italia – dove rischierebbero di essere… «all’italiana» –, e nella stessa Gran Bretagna persone poi protagoniste di episodi di terrorismo avevano agevolmente passato esami analoghi. O davvero ci s’immagina che alla domanda dell’esaminatore «Lei è d’accordo con la Costituzione?», qualcuno risponda: «No, io sono d’accordo con Osama bin Laden, viva Al Qa’ida»?

Su una materia così delicata e cruciale come la cittadinanza, davvero è meglio queta non movere, andare con i piedi di piombo e semmai sbagliare per eccesso di prudenza. Del resto nel momento in cui l’Italia vuole allargare le maglie della cittadinanza la Gran Bretagna, che ha avuto le sue esperienze tragiche, nel luglio 2009 ha reso la legge in materia più restrittiva.

D. Che fare?

Lo abbiamo sentito dal Papa all’inizio del nostro discorso: la questione dell’immigrazione è complessa, nessuno ha la bacchetta magica, non ci sono soluzioni miracolistiche o ad horas. Tuttavia, proprio seguendo Benedetto XVI, si possono indicare tre piste per cominciare almeno ad affrontare il problema.

1. La prima è il governo dell’immigrazione. Nessuno Stato europeo oggi – a fronte delle cifre della denatalità – può pensare di «abolire» l’immigrazione, e nessuna forza politica può ragionevolmente chiederglielo, a meno che si tratti di pura demagogia elettorale. Tuttavia l’immigrazione può e deve essere governata. Il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 2241 insegna che «le autorità politiche, in vista del bene comune, di cui sono responsabili, possono subordinare l’esercizio del diritto di immigrazione a diverse condizioni giuridiche». Le autorità che rinunciano a governare l’immigrazione non sono buone, ma buoniste, e vengono meno ai loro doveri verso il bene comune.

2. La seconda è la riaffermazione della propria identità culturale. L’immigrazione sgretola le società soprattutto quando non vi trova un’identità forte. L’Europa oggi, dopo avere rinunciato alle radici cristiane tante volte richiamate da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI, è talmente immersa nel relativismo da non avere affatto le idee chiare su quale cultura voglia difendere e proporre agli immigrati. In Olanda qualcuno ha deciso di proporre ai nuovi immigrati i «valori olandesi» riassunti in un video che devono obbligatoriamente vedere. Vi si vedono, tra l’altro, due omosessuali che si scambiano effusioni in pubblico e una bagnante in topless. Non è certo che la maggioranza degli olandesi si riconosca in questi valori. Per contro, è certissimo che il video confermerà gl’immigrati musulmani nel loro sentimento di superiorità rispetto all’Occidente decadente. In altri Paesi i corsi sulla cittadinanza proposti agl’immigrati esaltano il presunto diritto all’aborto. È evidente che non si tratta di temi intorno a cui una persona sensata può pensare di costruire un’immagine «forte» dell’Europa o delle sue radici, o di rabbonire immigrati musulmani già di per sé convinti della superiorità morale dell’islam. Vengono in mente le parole del poeta francese Charles Péguy (1873-1914) – che pure scriveva nel 1910 e non aveva conosciuto Antonio Di Pietro e le sue inchieste giudiziarie, dette appunto «Mani pulite» – secondo cui c’è una posizione diffusa che «ha le mani pulite ma non ha mani». Non ha mani chi non ha identità né radici. Ma chi non ha mani non può neppure stringere le mani altrui nel dialogo.

3. La terza pista è molto poco «politicamente corretta». Eppure non si può rinunciare a citarla. La differenza di religione, lo abbiamo visto, è un pericoloso fattore di disintegrazione sociale. Al contrario, la conversione religiosa è un fattore d’integrazione. Ci sono pregevoli studi sulle popolazioni romaní – la più nota delle quali è quella rom, e di cui sono note le difficoltà d’integrazione – secondo cui tra coloro che frequentano assiduamente le missioni cattoliche o protestanti – queste ultime in maggioranza pentecostali – il tasso di criminalità, purtroppo in questi gruppi piuttosto alto, scende rapidamente e in modo significativo. Una volta – e per la verità ancora oggi – eravamo tutti sollecitati a dare il nostro obolo perché i missionari potessero andare a convertire gli africani in Africa. Oggi che gli africani vengono da noi, e sembrerebbe che il missionario non debba più neppure scomodarsi ad andarli a cercare, c’è – purtroppo perfino fra il clero – chi curiosamente sostiene che non si deve cercare di convertire gli immigrati perché sarebbe irrispettoso, maleducato o etnocentrico. Pentecostali protestanti e Testimoni di Geova sul punto ci danno una lezione: fanno molta missione presso gli immigrati, anche musulmani, e ne convertono un certo numero. Libertà religiosa e dialogo da una parte e annuncio dall’altra non sono in contraddizione, anzi vanno insieme. Insegna Benedetto XVI ancora nella Caritas in veritate: «La libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali» (n. 55). Se non sono uguali, annunciare la verità della religione cattolica all’immigrato significa volere il suo bene, e anche favorirne l’integrazione. Chi considera questa prospettiva inopportuna o di cattivo gusto è relativista. Ed è il relativismo il vero motore dell’immigrazionismo: un’ideologia arrogante, intollerante e pericolosa che irrita le maggioranze e prepara la strada precisamente a quella xenofobia che vorrebbe evitare.