domenica 27 dicembre 2009

UNA VOCE, UNA STORIA (CLICK)



Chi è Vladimir Vysockij, poeta e attore, cantautore e ubriacone

E' morto trent’anni fa, ignorato dal regime russo. Ma tutti sapevano che avrebbe vinto lui

Nessun giornale sovietico aveva dato la notizia della morte, avvenuta nella notte tra il 24 e il 25 luglio 1980, di Vladimir Vysockij, attore del teatro Taganka, cantautore, noto ubriacone. Era uscita solo una riga, quasi invisibile, su un giornale della sera, Vecernaja Moskva. E anche radio e tv, ovviamente, zitte: il defunto non era un esempio di virtù socialista. Eppure due giorni dopo, in una Mosca resa irreale dalle Olimpiadi (il governo aveva espulso tutti i non residenti, tutti i pendolari, tutti gli “elementi antisociali”), una folla immensa di centomila persone si mise in fila, una fila di nove chilometri, per rendere l’estremo omaggio all’uomo che era entrato nel cuore di un paese intero. Fu la più grande manifestazione spontanea di tutta la storia dell’Urss. Ancora oggi, a ormai trent’anni da quel giorno, il fenomeno Vysockij continua a destare curiosità e passioni senza precedenti, di cui sono segno tangibile la sterminata bibliografia, le molte trasmissioni televisive a lui dedicate, le rivelazioni giornalistiche, le testimonianze di chi lo ha conosciuto e quei fiori sempre freschi che adornano la sua tomba al cimitero Vagankovskoe. Lo stesso Vladimir Putin, il 25 luglio del 2005, venticinquesimo anniversario della morte, ha voluto commemorarlo personalmente. E il 26 gennaio 2008, settantesimo della nascita, caso più unico che raro, Pervyj Kanal, la rete più popolare della televisione russa, gli ha dedicato la programmazione dell’intera giornata, dalle prime ore del mattino fino a notte inoltrata.

Alla fama fuori dal comune di cui Vysockij ha goduto e gode in patria (ma anche in Francia, negli Stati Uniti, in Germania, dove l’emigrazione intellettuale sovietica è stata fenomeno assai importante) ha sempre corrisposto, in Italia, un interesse piuttosto distratto (una delle poche eccezioni il premio Luigi Tenco nel 1993). Il quotidiano che diede il maggior rilievo alla notizia della sua scomparsa fu Paese Sera, il quale però titolò: “E’ morto il marito dell’attrice Marina Vlady”. Ora a questa disattenzione viene a rimediare un bel volume, molto ben documentato, “L’anima di una cattiva compagnia”, pubblicato dalla casa editrice I libri di Emil. Gli autori sono Elena Buvina, che insegna lingua russa all’Università di Genova, e Mario Alessandro Curletto, professore di letteratura russa all’Università di Pavia. Sono più di 400 pagine che raccontano le gesta epiche di Vysockij, dai timidi inizi nel teatro e nel cinema fino all’entrata, ancora vivo, nella leggenda e fino alla morte precoce (42 anni) che ne ha suggellato il mito. Il tutto intervallato dai testi (una quarantina) delle sue canzoni più famose.

E’ come cantautore, infatti, che Vysockij divenne l’artista più popolare nell’Urss degli anni Sessanta e Settanta. Aveva cominciato componendo, e accompagnando con la chitarra, canzoni della mala, sentimentali e spavalde. Quel suo tono aspro suonava improvvisamente dissonante e autentico rispetto alla retorica mielosa della canzone ufficiale sovietica. La forma era quella della ballata e raccontava, in prima persona, le storie di personaggi problematici, con qualche pregio e soprattutto con molti difetti. “Davo voce – dirà più tardi – allo pseudoromanticismo e ai turbamenti d’animo degli inquieti ragazzi dei cortili di Mosca”. Un critico molto acuto come Andrej Sinjavskij, che di Vysockij fu insegnante di letteratura russa, considerava quelle prime canzoni come il momento più alto dell’arte del suo allievo e si rammaricava del fatto che, a un certo punto, egli avesse cambiato genere. In realtà, quella tipica intonazione malavitosa non verrà mai meno nel corso della sua carriera. Ma col passare degli anni le sue moltissime canzoni (pare che fossero più di mille) finirono per comporre un universo poetico sempre più vasto, in cui ogni aspetto della vita sovietica veniva rappresentato: il lavoro, l’amicizia, l’amore, i ricordi di guerra, le bevute in compagnia, la passione per la natura, le prepotenze. Sempre però con il timbro di uno spirito indipendente, simpatetico col mondo dei più sfortunati, autore di gesti di ribellione minimi, appena percettibili, eppure così stridenti nell’atmosfera del conformismo generale. Non era il primo ad accompagnarsi con la chitarra. Suoi predecessori erano stati Bulat Okudjava e Aleksandr Galich, i caposcuola della canzone d’autore degli anni Sessanta: il primo aveva una vena lirica intimista che accompagnava con una voce calda e avvolgente, il secondo si era orientato presto verso la canzone di protesta politica ed era stato costretto all’esilio. Ma Vysockij, grazie anche a un innato candore, andava dritto al cuore della gente.

Dietro l’estrema semplicità delle parole e delle situazioni c’era però, da parte di Vysockij, un sapiente lavoro sulla lingua che lo ricollegava alla tradizione letteraria. Lui si sentiva particolarmente vicino, nella poetica e nella vita, a un altro grande “teppista” delle lettere russe, quel Sergej Esenin che a trent’anni, nel 1925, si era suicidato nell’Hotel d’Angleterre a San Pietroburgo. Più che canzoni in senso stretto, infatti, i suoi erano versi accompagnati dalla chitarra. Un giorno, a New York, Josif Brodskij, che non era mai prodigo di complimenti ai colleghi, gli dedicò un suo libro con le parole: “Al miglior poeta della Russia, dentro e fuori dai suoi confini”. E in un’altra occasione aggiunse: “In certo modo mi dava perfino fastidio che si accompagnasse con la chitarra. Perché il testo in sé era assolutamente straordinario”. Chitarra a parte (tra l’altro gli piaceva suonarla leggermente scordata), ingrediente fondamentale del magnetismo che Vysockij esercitava sul pubblico era la sua voce: rauca, da alcolista e fumatore accanito, graffiante, con le erre arrotate, e poi aggressiva come una sferzata. Ed è grazie a quella voce (e a una presenza scenica sempre un poco sopra le righe) che i suoi concerti rimanevano, per chi vi assisteva in religioso silenzio, esperienze indimenticabili.

Ora, si fa presto a dire concerti.
In realtà, di concerti a teatro, con tutti i crismi dell’ufficialità, Visockij in patria ne tenne ben pochi. E, se è per questo, anche all’estero i problemi non mancavano. Un giorno a Parigi, al culmine della notorietà, così dovette deludere i suoi fan: “Qui non posso cantare perché non ho ricevuto un invito ufficiale attraverso il Goskoncert. Da noi c’è un altro sistema: siamo degli impiegati statali. Il mio impiego è in teatro, sono un attore. E se vogliono invitarmi a cantare in un altro stato devono farlo ufficialmente”. E in Urss era lo stesso, solo molto più complicato. Fin dagli inizi della carriera, Visockij fu oggetto di violente campagne di stampa che lo indicavano come un pessimo esempio per la gioventù. Con tali credenziali, concerti veri e propri poté farne davvero pochi. La sua celebrità dovette seguire altre strade, prima tra tutte quella del “samizdat” musicale. Se il collettivo di lavoro di una qualche fabbrica lo invitava a cantare, tutti si presentavano muniti di registratore e nel giro di poche settimane quelle cassette passavano di mano in mano e facevano il giro dell’Urss.

In una lettera indirizzata a uno dei segretari del comitato centrale del Pcus, nella quale si lamentava delle angherie che il regime gli riservava, Vysockij si lascia scappare questa battuta: “Lei probabilmente sa che nel paese è più facile trovare un registratore sul quale risuonino le mie canzoni piuttosto che uno dove non ce ne siano”.
Non era un’esagerazione. Uno degli aspetti più sorprendenti della fama di Vysockij è che non conosceva eccezioni. Per una irripetibile alchimia di circostanze, il bardo della Taganka è riuscito, caso anche questo più unico che raro, a realizzare la plurisecolare aspirazione dell’intellighenzja russa: andare al popolo, stabilire un rapporto di fiducia con tutte le componenti della nazione. Conoscevano a memoria le sue canzoni non solo i giovani dallo spleen facile ma anche gente che faticava tutto il giorno e senza grilli per la testa: lo amavano e lo rispettavano gli intellettuali, i militari, gli operai, i detenuti, i cacciatori di orsi siberiani, i poliziotti, e perfino, sia pure di nascosto, gli agenti del Kgb che dovevano mettergli i bastoni tra le ruote. Ovunque andasse, era accolto come un eroe. In ogni ambiente, senza eccezione, era “uno dei nostri”. Tra i luoghi comuni sulla cultura sovietica uno dei più duri a morire è quello che rappresenta l’epoca brezneviana come un universo unico, grigio e ortodosso, cui si contrapponevano solo le sparute voci libere dei “dissidenti”, prontamente messi a tacere. E’ vero, l’ufficialità era plumbea e senza il visto del censore nulla poteva essere reso pubblico. Ma tra l’ufficialità e l’aperta dissidenza politica (che comprendeva anche far uscire scritti all’estero senza autorizzazione) si estendeva il vastissimo territorio della comunicazione autogestita oppure del linguaggio esopico, nel quale i sovietici erano diventati maestri.

Vysockij, pur senza essere mai un perseguitato, non era certo nelle grazie del regime: la televisione di Stato non trasmise mai un solo secondo delle sue canzoni e i pochi funzionari che ci provarono caddero rapidamente in disgrazia; i rari brani registrati dalla casa discografica Medodja erano accuratamente scelti dai censori e in genere si limitavano ai temi della guerra; riuscire a far accettare Vysockij come attore dalla burocrazia cinematografica era sempre un’impresa improba (ma uno dei film da lui interpretato, “Il luogo dell’appuntamento non si può cambiare”, in cui era un commissario di polizia, un duro alla Jean Gabin, divenne subito, grazie a lui, popolarissimo).

Detto questo, Vysockij non fu mai un “dissidente”, non ruppe mai con il governo del suo paese che pur lo sopportava a fatica. Non era un ambasciatore della cultura sovietica, ma neppure un “martire del comunismo”. Questo forse spiega la scarsa risonanza che ebbe la sua opera all’estero nel clima della guerra fredda. E a tale proposito è rimasta celebre un’intervista televisiva per la Cbs (1977) rilasciata a New York a Dan Rather (che lo aveva definito il “Bob Dylan sovietico”), nella quale abilmente dovette schivare tutte le domande che tendevano a presentarlo come un avversario del regime: “Amo il mio paese – concluse – e non voglio danneggiarlo”. Ma questo basso profilo politico forse spiega anche la sua enorme popolarità in patria, dove l’influenza dei dissidenti non era mai riuscita ad andare oltre la cerchia dell’intellighenzja. Semplificando un po’, si potrebbe dire che Vysockij, culturalmente, era un figlio del disgelo chrusceviano. Alcune sue prese di posizione politiche suonavano addirittura ortodosse: un giorno, rispondendo al questionario di un suo giovane ammiratore, indicò tra le figure storiche che lo disgustavano “Hitler e insieme con lui anche Mao”.

E poi compose una canzone: “Lettera degli operai di una fabbrica di Tambov ai dirigenti cinesi”, violenta contro il Grande Timoniere. Su questa base di “umanesimo socialista” si era poi innestata la sua invenzione poetica, al centro della quale era l’individuo, il povero e semplice individuo riottoso, che non piega la testa né di fronte alle grandi né alle piccole angherie. E, al di sopra di tutto, una grande impressione di sincerità: “Ciò che ho scritto come poeta, come compositore – disse una volta – non è mai stato pubblicato, o quasi mai, per cui non ho bisogno di autocensurarmi”. Poi, naturalmente, c’era il personaggio, che in nulla poteva corrispondere ai modelli sociali approvati. Lasciamo stare l’alcol, da cui divenne subito dipendente al punto da presentarsi non poche volte sul palcoscenico della Taganka ubriaco fradicio: in Russia è sempre stato un “vizio” accettato. Ma c’era lo spirito di indipendenza, e poi quella moglie francese (sia pure iscritta al Pcf), e gli atteggiamenti da macho, e il sesso, e la passione per le auto straniere (era l’unico a Mosca a possedere una Mercedes), e infine, negli ultimi anni, la droga. Come un simile personaggio abbia potuto muoversi relativamente in libertà nel chiuso mondo sovietico si spiega con un altro piccolo “miracolo” di quei tempi.

A Mosca nel 1964 Jurij Ljubimov, grazie a qualche appoggio nelle sfere più liberali del regime, era diventato regista del teatro Taganka e lo aveva trasformato nel tempio dell’anticonformismo culturale. Vysockij, nel ruolo di attore, fu uno dei suoi acquisti. Il collettivo della Taganka fu subito circondato da una mitica aura di bohème. La coraggiosa scelta del repertorio, l’originalità delle soluzioni registiche di Ljubimov “avrebbero (come scrive lo slavista Gian Piero Piretto nel suo bel libro ‘Il radioso avvenire’, Einaudi 2001) emozionato, commosso, entusiasmato, stupefatto l’Unione Sovietica”, almeno fin tanto che gli attacchi del potere non lo costrinsero all’emigrazione, “privandolo del più prezioso dei collaboratori: il pubblico sovietico”.


“I suoi spettacoli lontano da Mosca – aggiunge infatti Piretto senza quel pubblico in sala, senza quella tensione continua e costante, senza la percezione dei censori in agguato, senza la vibrazione emotiva, sincera e silenziosa che di sera in sera si ripeteva nel piccolo teatro moscovita, avrebbero perso molto del loro fascino”. Era la vecchia idea di Igor Stravinskij: l’arte, più è controllata, più è vera. Di quel teatro, per quindici anni, Vysockij fu la punta di diamante. Riviste oggi, certe sue interpretazioni possono fare sorridere, come quando, da Amleto, entrava in scena con la chitarra a tracolla o quando, in “Pugacëv”, veniva trascinato al supplizio coperto di catene e sembrava che volesse spezzarle con il torace nudo. Ma l’ansia di libertà che emanava da ognuno di questi piccoli dettagli, che spesso risultavano da estenuanti trattive con il censore di turno, attirava un pubblico che sempre usciva dallo spettacolo come se avesse preso parte a un evento unico, da non dimenticare. Ricordo una serata dei primi anni Novanta, nella cucina piena di fumo del mio amico filosofo Jurij Senokosov. Si discuteva, come sempre, dei massimi sistemi. A un certo punto se ne uscì, molto seriamente, con questa frase: “Nel cuore della gente il regime comunista è stato distrutto, più che da Solzenicyn, da Vladimir Vysockij”.

di Massimo Boffa

Nessun commento: