lunedì 28 aprile 2008

CUBA. Continua la repressione comunista

Agenti di polizia hanno disperso con la forza una manifestazione delle Damas de Blanco, nella Plaza de la Revolución dell'Avana, dove si erano riunite per consegnare una lettera al ministro degli Interni Abelardo Colomé Ibarra, con una copia per Raul Castro.
Blanca Reyes, rappresentante delle Damas de Blanco in Europa, ha affermato durante un'intervista: «Che cambiamento c'è stato nel paese se reprimono con la forza dieci donne che chiedono la liberazione dei loro mariti innocenti? Sono questi i cambiamenti portati da Raul?
Le donne sono state trascinate con la forza fino ad un autobus, dopo aver rifiutato di lasciare la piazza dove si erano riunite per chiedere la liberazione dei loro mariti, prigionieri politici del regime comunista.
L'agenzia AFP afferma che nella lettera viene denunciato che «attualmente 27 prigionieri si trovano esiliati dalla loro provincia di residenza e da cinque anni vivono sotto uno stretto regime di sicurezza; gran parte di loro soffre malattie che non sono adeguatamente trattate a causa del regime restrittivo a cui sono costretti nella prigione e dei trattamenti crudeli e inumani a cui sono sottoposti».
Le Damas de Blanco, Premio Sakharov 2005 del Parlamento Europeo, chiedono la liberazione dei loro mariti, incarcerati nella primavera del 2003, con manifestazioni pacifiche che generalmente si concludono nella chiesa dell'Avana.
Fonte: ACIprensa
http://www.lucisullest.it/dett_news.php?id=3298

sabato 26 aprile 2008

Un progetto israeliano


18.04.2008
Auto elettrica, e fine della dipendenza dal petrolio
Testata: PanoramaData: 18 aprile 2008, Pagina: 43, Autore: Dimitri Buffa
Titolo: «ISRAELE LANCIA LA SFIDA AL PETROLIO ARABO: AUTO ELETTRICHE PER TUTTI»

Da Economy, magazine economico di PANORAMA, del 17 aprile 2008
Lo slogan è quello di "promuovere la pace tra l'ambiente e i mezzi di trasporto". Il progetto si chiama "Un posto migliore". L'idea è di far diventare l'automobile, elettrica, come un telefonino: ricaricabile o in abbonamento il servizio, gratis l'hardware .
Lo sponsor istituzionale è lo stato di Israele che entro il 2012 vorrebbe fare in modo che la maggior parte dei propri cittadini si converta all'auto elettrica di modo da non dovere dipendere più dal petrolio arabo. E le due marche automobilistiche che hanno aderito con entusiasmo, mettendo disposizione i propri modelli e i prototipi (oltre a un po' di ulteriori soldi per la ricerca), sono la Renault e la Nissan. Si chiama invece Shay Agassi l'inventore del "Project better place" che ha l'ambizione di rivoluzionare tutti i rapporti fra l'uomo e l'automobile.A cominciare dai prezzi di vendita.
L'auto infatti, nell'immaginazione di questo ricercatore noto per le proprie battaglie ambientaliste (e che nel tempo perso tiene un blog in cui discute con i propri fan le invenzioni e le esperienze fatte negli anni), non dovrebbe più essere venduta come merce ma come servizio.
Come per i telefonini che le varie marche danno gratis all'utente in cambio della firma di un contratto poliennale. Si paga il consumo e la ricarica energetica secondo un parametro sui chilometri che si percorrono. Come in una specie di leasing futuribile. E quando si arriva al tempo massimo di vita previsto per il motore elettrico in questione si ritira un'automobile nuova.
Nessuno si sbilancia sui costi visto che il progetto andrà a regime dopo il 2012, ma gli interessati fanno capire che il servizio potrebbe costare meno della rata di finanziamento per comprare un automobile: tra i 120 e 300 euro al mese a seconda dei modelli.
Il governo israeliano presieduto da Ehud Olmert e il capo dello stato Shimon Peres hanno dato l’annuncio lo scorso 21 gennaio quasi con accenti trionfalistici: per loro la corsa contro il tempo che prevede un finanziamento di oltre duecento milioni di dollari al famoso scienziato ecologista è anche una questione di sicurezza nazionale. Vivere infatti con intorno paesi potenzialmente ostili come Egitto, Arabia Saudita, Libano e Giordania (contro i quali in un passato abbastanza recente si sono combattute e vinte ben cinque guerre, senza contare la attuale minaccia che viene dall'Iran e dalla Siria oltre che dai territori palestinesi che tardano a diventare uno stato, possibilmente "non canaglia") e dovere contemporaneamente dipendere energeticamente da loro può alla lunga diventare una contraddizione insostenibile per Israele.
Di qui l'afflato pionieristico nel progettare non semplicemente un motore elettrico per due marche di auto che ci mettono la carrozzeria e qualche altra decina di milioni di dollari per finanziare la ricerca, ma un vero e proprio "sistema alternativo di trasporti e di vita". Che non a caso prende il nome di "project better place".
Le macchine elettriche nei piani dell'imprenditore e "inventore seriale" Shay Agassi, ebreo americano, dovrebbero andare avanti con batterie ricaricabili agli ioni di litio. Chi le compra, in realtà compra un contratto e acquista anche il diritto di servirsi gratis o con poco sforzo economico dei centri in cui le macchine vengono ricaricate, riparate o sostituite.
Si calcola che i centri, che sono vere e proprie stazioni di servizio, possano costare due o tre milioni di dollari l'uno e con questo primo investimento di duecento milioni di dollari Israele ne potrebbe finanziare una cinquantina. Con la meta di fare diventare tutto lo stato di Israele una sorta di laboratorio di questo new deal ambientale. E infatti nei prossimi anni verrà lanciata una massiccia campagna di incentivi a cambiare le proprie auto con auto elettriche a colpi di detrazioni fiscali. Inoltre il modello di vita innovativo proposto da Agassi, che si acquista insieme all'auto elettrica targata Nissan o Renault, prevede una quota mensile di spesa che poi si potrà ulteriormente dedurre dalla dichiarazione dei redditi. Si pagherà in proporzione ai chilometri fatti con il contratto paragonabile alla carta ricaricabile di un cellulare, oppure con un chilometraggio forfettario previsto da varie forme di abbonamento. Anche qui né più né meno di quanto già non avvenga in tutto il mondo sempre nel pianeta dei telefonini.
I prezzi come si diceva dovrebbero oscillare tra i 120 e i 300 euro al mese con possibilità alla scadenza del contratto di avere un nuovo modello di macchina esattamente come già avviene con il cellulare. Solo che il costo copre anche il carburante elettrico. Ovviamente il "project better place" prevede l'allestimento futuribile, a spese dello stato ebraico, di centinaia, se non migliaia, di infrastrutture simili a stazioni di servizio dove potrà essere ricaricata l'auto elettrica, sia sull'autostrada sia in città, e dove avverranno gratis le eventuali manutenzioni comprese nell'abbonamento.
E' chiaro il motivo per cui Israele fa molto volentieri da cavia a questo progetto innovativo, visti i vicini che si ritrova. Ma deve essere altrettanto chiaro che se la cosa funzionerà non si fermerà a Gerusalemme o a Tel Aviv. Alcuni altri paesi si sono già fatti avanti con Agassi chiedendogli di esportare il "project better place" anche ad altre latitudini. Fra questi l'India e la Cina che per problemi ambientali e di bilancia commerciale sono sempre più restii a entrare nel gioco al rialzo dell'Opec.
Inoltre l'elettricità che servirà a ricaricare i motori progettati da Agassi (e sistemati nei modelli forniti da Renault e Nissan) verrà quasi tutta prodotta con fonti alternative come il solare. Altro campo in cui lo stato ebraico è all'avanguardia nel mondo grazie ai pannelli che vengono prodotti nelle fabbriche locali e poi piazzati a produrre energia nell'assolatissimo deserto del Neghev.
Il lato B della faccenda? Che, se questa idea funzionerà e sarà esportata nel resto del mondo, sarà sicuramente promossa "la pace tra i mezzi di trasporto e l'ambiente", come recita lo slogan, ma in compenso, tra l'Occidente e i paesi arabi e islamici che vivono di petrolio, potrebbe invece incominciare una nuova "guerra di civiltà".

venerdì 25 aprile 2008

Il ritorno di superduepassi

Ma come, non vi ricordate di quel magnifico supereroe ? Quello, un po' imbranato, che interviene sempre quando qualcuno è in pericolo ?
Quello che vuol far attraversare le vecchiette, e poi si sente dire:
"Giovanotto, io sto aspettando una persona, e non devo attraversare";
quello che è il mito ineguagliato di tutti i sognatori, che se l'immaginano mentre vola, e lui soffre di vertigini;
e se l'immaginano con la vista di falco, e lui porta gli occhiali;
quello che è talmente veloce che deve sempre partire dieci minuti prima per arrivare in tempo...
si, insomma lui, l'indomito, l'immarcescibile, lo straordinario, favoloso, mitico superduepassi !

Eccolo intervenire a favore dei deboli, e delle persone in pericolo.

Ma questa volta le sue imprese sono vere, assolutamente vere.

Primo intervento.
Una ragazza gli sta venendo incontro, con a fianco un cagnolino.
Alle loro spalle arriva un camioncino che evidentemente non ha visto il minuscolo cagnolino, e gli sta per passare sopra con la ruota esattamente in linea col punto in cui cammina il cagnolino, ignaro.
Che poi i cani dovrebbero essere più svegli, ma questo, sarà cucciolo inesperto, e non dà segni di aver percepito neanche minimamente il pericolo.
E allora si scatena superduepassi, fermando il camioncino a pochi centimetri dalla frittata fredda di cagnolino ingenuo.
La bestiolina è salva. L'eroe modesto se ne va senza fermarsi, soddisfatto di aver salvato una vita.

Secondo intervento.
Un bimbetto sta salendo sulle scale mobili, con i lacci delle scarpe slacciati.
Manco a farlo apposta uno dei lacci si infila là dove la scala mobile finisce, e incomincia a tirare il piede del bimbo.
Ma superduepassi veglia per la salvezza dell'Umanità. Egli afferra il bimbo per sotto l'ascella, e se lo tira, attirando l'attenzione della madre, che riesce a liberare il piede del figlioletto.
Un altra vita è salva, ma non è finita.

Terzo intervento.
mentre accompagna la superfiglia, superduepassi nota delle fiamme vivaci sotto una macchina. Subito si mette a bussare come un matto sul clacson, si affianca all'altra auto e gli grida di scappare dall'auto, che è in fiamme.
L'altro s'era fermato, ma non scendeva dall'auto. Forse non si era accorto delle fiamme.
La figlia, preoccupata che l'auto possa esplodere, grida all'eroe di allontanarsi, ma superduepassi non ci pensa nemmeno. Prima vuole far capire all'uomo che deve scappare dall'auto.
E finalmente l'uomo capisce e si mette in salvo.
Come le altre due volte, il nostro eroe, pago di aver salvato delle vite, si allontana discretamente.

Ma non temete, superduepassi veglia su di voi, e se siete in pericolo, e lui è nei pressi, state sicuri che interverrà, a sprezzo del pericolo.

Va bene, non sarò stato così eroico, ma, nel giro di pochi giorni, comunque ho salvato due persone e un cane.
Posso essere soddisfatto.

Come scrivere un nome italiano in giapponese.


Il giapponese non ha un alfabeto, come l'italiano, ma ha sviluppato due "sillabari", cioè qualcosa di equivalente al nostro alfabeto, che non tratta singoli suoni (vocali e consonanti), ma sillabe.
Questi sillabari sono chiamati "hiragana" (usato per sillabe in parole giapponesi o sino-giapponesi) e "katakana" (usato per parole di origine straniera).
Perciò le sillabe "katakana" sono quelle giuste per scrivere un nome.

Oltre ad hiragana e katakana, i giapponesi usano i kanji, cioè dei simboli presi dal cinese.
"kan" significa "Cina",
"ji" significa "simbolo"
così "kanji" significa "simboli cinesi".
In cinese sono chiamati "hanzi", dove "han" corrisponde al giapponese "kan", e "zi" corrisponde al giapponese "ji".

Ma cinese e giapponese sono lingue molto diverse.
Il cinese usa i toni, che sono 4 (il primo alto, il secondo crescente, il terzo che prima scende e poi sale, il quarto che scende) e c'è anche la sillaba priva di tono.
I toni sopperiscono in parte allo scarso numero di sillabe della lingua cinese.
Il giapponese non ha i toni.
Per questo motivo, quando i giapponesi hanno copiato le parole cinesi, hanno perso i toni, che differenziavano, appunto, molte sillabe in cinese, che, portate in giapponese, sono diventate omofoni, cioè parole che si pronunciano alla stessa maniera, ma hanno diverso significato, coem in italiano i "conti" (nobili) e i "conti" (2+2 e così via), il "seme" delle piante e il "seme" delle carte (da cui non nascono, ahimé, altre carte), e via dicendo.
A causa dei tanti omofoni, trovo più facile leggere la scrittura coi kanji (quando li conosco), rispetto a quella che fa uso di hiragana o katakana.
Penso ai kanji come a dei rebus.
In fondo è un po' come le icone, i segnali stradali, le figure usate al posto delle scritte:
spesso sono più immediate della scritta, a patto di conoscerle. Altrimenti ti complicano la comprensione.

Quando si transillerano i suoni in giapponese, bisogna tenerne a mente la struttura sillabica.
Infatti una parola giapponese non finisce mai in consonante (ecceto "n"), né contiene due consonanti vicine (con la solita eccezione della "n").
Inoltre alcuni suoni non esistono in giapponese.

Alcuni esempi:

"glass" diventa "gurasu"
g = gu
la = ra
ss = su

"Table" = "teburu"
ta = te
b = bu
le = ru

fork = fooku (intendo dire che "o"è lunga)
for = foo
k = ku

Potete notare che la transillerazione è guidata dal suono, e non dal modo in cui è scritta la parola.

knife = naifu
kni = nai
fe = fu

tobacco = tabako
to = ta
ba = ba
cco = ko

shower = shawaa (finale lunga "a")
sho = sha
wer = waa

single = shinguru
("si" diventa di solito "shi")
si = shi
n = n
g = gu
le = ru

spoon = supuun ("uu" = lunga "u")
s = su
poo = puu
n = n

record = rekoodo ("oo" = lunga "o"... d'ora in poi ometterò tali indicazioni)
re = re
cor = koo
d = do

disco = disuko
di = di
s = su
co = ko

speech = supiichi
s = su
pee = pii
ch = chi

bus = basu
bu = ba
s = su

alcol = arukooru
a = a
l = ru
co = koo
l = ru

hotel = hoteru
ho = ho
te = te
l = ru

soft drink = sofuto dorinku
so = so
f = fu
t = to
d = do
ri = ri
n = n
k = ku

Gli esempi che ho usato sono tutti reali parole giapponese (provenienti dall'inglese).

giovedì 24 aprile 2008


Indro Montanelli è considerato a ragione un gigante del giornalismo e sarà ricordato come padre di un giornalismo moderno, da cui quasi tutti hanno imparato a scrivere articoli d'opinione.
La storia di Montanelli si può trovare sulle enciclopedie, sulle quali tuttavia non apparirà la cronaca spicciola della sua vita, che mostra un Montanelli iracondo, bilioso, invidioso, fondamentalista per quanto riguardava le sue ferree opinioni.
Io c'ero al suo tempo e ne ero lettrice assidua, riconoscendo in lui una superiorità professionale indiscussa ed anche una generica condivisione di indirizzo politico.
Tuttavia questa mia ammirazione non m'impedì mai di dissentire da certe sue prese di posizione.
La più clamorosa fu quella contro Berlusconi, subito dopo che essendosi allontanato da il Giornale per ragioni di incompatibilità con il nuovo editore fondò La Voce.
Mi abbonai alla cieca al nuovo quotidiano, ma, fin dal primo numero, mi pentii amaramente di averlo fatto e rescissi l'abbonamento immediatamente.
La ragione ? Sulla prima pagina del primo numero, nel bel mezzo in alto, c'era una vignetta che raffigurava Piazzale Loreto, ma, al posto del Duce, si vedeva Berlusconi appeso a testa in giù.
Questo fu espressione di puro e cieco odio, di cui ancor oggi paghiamo le conseguenze per quanto rancore, disgusto, odio e di lì invidia e disprezzo ingenerò nei tanti che vedevano in Montanelli un vate della libertà e della domocrazia.
Giusto riportare qui di seguito il racconto dei ricordi di un amico, dei quali avallo ogni parola, perché il nostro Luchy ha la memoria di quell'elefantino con cui si firma (niente a che vedere con la stazza di Ferrara, solo memoria).
E' il racconto dell'incontro fra Montanelli e l'editore Silvio Berlusconi.

Nella sede de Il Giornale.
E' stata ricostruita, minuto per minuto, la visita di Silvio Berlusconi alla testata, con la presenza in assemblea di tutti i giornalisti, o quasi.

Berlusconi chiese di convocarla, l'assemblea, non per parlare della sua discesa in campo, nè di una richiesta di appoggio da parte della redazione e dei singoli giornalisti.

La richiesta d'incontro, era per spiegare le difficoltà che stava avendo con Montanelli, sull'ammodernamento del quotidiano, sulle rotative, sugli sprechi di gestione che Berlusconi riteneva non sostenibili, perchè considerava Montanelli un grande giornalista ma un pessimo amministratore.

Lo stesso Montanelli lo diceva, ma si intestardiva di voler avere sempre l'ultima parola a prescindere dai risultati economici.

Berlusconi diceva : sono disponibile a immettere ulteriori capitali, oltre quelli che ho messo a fondo perduto e che non hanno dato, in questi due ultimi anni, nessun risultato positivo, ma tu, caro Indro, devi passare la mano sulla gestione economica e tenere solo quella editoriale.

Montanelli, da toscano incazzoso e traditore, gli disse di sì sull'assemblea da convocare, nello stesso momento in cui stava contrattando con gente esterna e con i suoi fedelissimi, la possibilità di costruire una nuova testata da lui diretta e gestita in toto.

Ed attaccò Berlusconi con la falsità che ho scritto inizialmente : fedeltà all'editore che si candidava alla guida del Paese e fondava per questo proposito, FI.

Che sia come ho scritto la faccenda, ne è prova il fatto che successivamente vennero alla luce gli accordi che Montanelli aveva allacciato con personaggi non di cdx, per costruire la Voce.
Prova ne sia che aveva allacciato rapporti tali che addirittura dentro al sindacato, in generale sulla triplice ma non solo, vennero fatte sottoscrizioni per fare abbonamenti al quotidiano : soldi che permisero, all'inizio, una diffusione abbastanza utile per tenere aperto.

Prova ne sia, che vennero scritti interventi da parte di giornalisti che si tennero al riparo e non si schierarono da subito per nessuna delle due "fazioni" : quella che voleva andarsene e se ne andò, e quella che del Giornale consideravano la loro casa naturale : scrissero pubblicamente che nel momento in cui Berlusconi discuteva degli impegni economici e della sua disponibilità ad ottemperarli, Montanelli aveva aperta la trattativa per la Voce, in segreto di Pulcinella, ovviamente, visto che sotto questo aspetto, venne sputtanato.

Io da tempo avevo anche un rapporto con Montanelli, cartaceo e da quando, fallita la Voce, anche internettiano dopo la sua presa al Corriere, della "Stanza di Montanelli" : non ebbi mai problemi ad esternargli che non credevo una mazza del suo dire, su quella faccenda, gli scrissi anche nomi e cognomi di coloro che mi avevano spiegato cosa davvero aveva fatto : poi, venne fuori anche un libro, oltre a tanti articoli, di Paolo Granzotto sulla faccenda e, mi pare, lo stesso Montanelli smise di raccontare balle : troppo precise le cose spiegate da Granzotto, per poterle confutare.

A me, pur cercando di difendersi da quanto gli scrivevo, mai ha negato ciò che gli scrivevo.

Montanelli fu, secondo me, un fottinculo per tutta la vita, non per niente qualche giornalista scrisse cose su di lui che non lo mettevano in buona luce, sia su articoli da lui scritti, sia per certe dichiarazioni"forzate intellettualmente e onestamente false" : anche in questi casi, Montanelli si mise "in silenzio stampa".

martedì 22 aprile 2008

Darfur - genocidio ignorato


22/4/2008 (8:35) - TESTIMONIANZA
Darfur il silenzio che grida

Il carnefice ballava mentre il sangue della bambina gli colava addosso
DAOUD HARI


Quella sera, mentre aspettavo il ritorno di alcune squadre che si erano avventurate ai margini di quel grande campo, un amministratore uscì dal suo ufficio e mi vide. «Daoud!» esclamò. «Che ci fai qui?». Sapeva che la legge vietava a un rifugiato in Ciad di fare il lavoro che stavo facendo, quindi mi incamminai lentamente verso di lui, prendendomi il tempo di riflettere. Ero a metà strada quando un uomo non ancora quarantenne, con una veste sporca e lacera e uno scialle sulla testa, sbucò all’improvviso dalla boscaglia che circondava il campo e venne verso di me. Sembrava molto agitato, e forse un po’ demente. Il suo viso irradiava dolore come una stufa il calore. Mi afferrò la mano e la tenne stretta, dandomi dei leggeri buffetti. «Tu sei uno zaghawa» disse «e devo dirti qualcosa in privato».


Dopo un breve tratto nella boscaglia mi invitò a sedermi con lui sulla sabbia. La moglie dell’uomo si avvicinò: «Non c’è più con la testa. Per favore, non fargli domande». Ma io vedevo che quell’uomo aveva bisogno di sfogarsi, quindi chiesi alla moglie se potevo semplicemente ascoltarlo, poiché due zaghawa devono essere amici comunque. Lei acconsentì e si tenne a distanza, passeggiava avanti e indietro e ci osservava.


Venivano del Darfur settentrionale. Il loro villaggio era stato attaccato e distrutto qualche mese prima del mio. «Tutti fuggivano il più velocemente possibile. Mia moglie stringeva tra le braccia il nostro figlioletto di due anni, e correva in una certa direzione fra gli arbusti. Grazie a Dio era la direzione giusta. Io ho preso la mia bimba di quattro anni, Amma, e siamo scappati in tutta fretta in un’altra direzione. Quando loro mi hanno preso, i janjaweed, ho lasciato andare la sua mano e le ho detto di fuggire. Ma lei invece di correre è rimasta a guardare fra i cespugli mentre quelli mi picchiavano e mi legavano a un albero con le braccia dietro, così» e con le braccia formò un anello dietro la schiena.


«Uno dei janjaweed ha cominciato a torturarmi. Mia figlia non ha retto quella vista e si è precipitata verso di me, gridando: “Abba, Abba”». A quelle parole, “Papà, papà”, l’uomo fu soffocato dall’emozione e fece una lunga pausa. «Il janjaweed che mi aveva legato all’albero ha visto mia figlia correre verso di me e ha abbassato il fucile per infilzarla con la baionetta. Ha spinto con forza e la lama le ha trapassato lo stomaco da parte a parte. Lei seguitava a urlare: “Abba! Abba!”.«Poi lui ha sollevato il fucile piantato nel corpo di mia figlia, con il sangue di lei che gli colava addosso. Si è messo a ballare reggendola in alto e ha gridato ai suoi amici: “Guardate, sono o non sono un duro?”. E loro rispondevano in coro: “Sì, sì, sei un duro, un duro, un duro!” mentre uccidevano altre persone. «Mia figlia mi chiedeva aiuto con gli occhi, tendeva le braccia verso di me in preda a un’atroce sofferenza. Cercava di dire “Abba”, ma dalla sua bocca ormai non usciva alcun suono.«Ci ha messo molto tempo a morire, il suo sangue colava, rosso e fresco, su quel… cos’era mai? Un uomo? Un demonio? Era tinto di rosso dal sangue della mia bambina e ballava. Cos’era?».


Quell’uomo aveva visto il male e non sapeva dargli un nome. Voleva una risposta, e voleva sapere perché la sua bambina avesse meritato tutto questo. Poi, dopo aver pianto un po’ senza parlare, mi disse che adesso non sapeva più chi era. «Sono una donna che deve restare in questo campo, o un uomo che deve andare a combattere, lasciando moglie e figlio senza protezione?». Mi guardò come se potessi fornire una risposta alla sua vita. Una risposta che non ero in grado di dargli. «Sei ancora vivo» dissi. «Non ti hanno ucciso».«Esiste una tortura peggiore di questa?» ribatté lui. «Esiste una tortura peggiore di dover dire tutto questo a mia moglie e a mio figlio?».


La donna venne a sedersi accanto a lui e levò qualche fogliolina dalla sciarpa che gli avvolgeva la testa. Mi disse che dopo l’attacco suo marito non ragionava più come prima. «Grazie a Dio abbiamo nostro figlio, e lui sta bene. Ho spiegato a mio marito che Amma non c’è più e che dobbiamo pensare al futuro. Ma lui non riesce a liberarsi da quel che ha visto». [...]


Quando tornai in quello stesso campo molto tempo dopo e chiesi allo sceicco di aiutarmi a ritrovare quella famiglia, l’uomo se n’era andato e sua moglie non si ricordava di me. Sembrava più svanita di prima. Aveva ancora suo figlio, che a quell’ora era alla scuola del campo.


Ero tornato perché quella storia che l’uomo non riusciva a scacciare dalla sua mente adesso era finita nella mia mente, e si mescolava ad altre storie nei miei sogni, svegliandomi praticamente ogni notte. Pensavo che parlare con lui potesse aiutare entrambi, ma lui era andato via, forse a combattere, a mettere fine alla sua vita, come stavo facendo anch’io, alla mia maniera.


.© 2008 by Daoud Hari Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency


21/4/2008 - L’ITALIA DEGLI ASINI
Il preside ordina il "sei politico"
"Gli insegnanti speculano sui corsi di recupero"
ALESSANDRA CRISTOFANI
PERUGIA

Sarebbe da chiedersi a che genere di meritocrazia si riferisca il ministro Giuseppe Fioroni che sulla necessità di riformare l’attuale sistema d’istruzione ha speso più di una parola. Sarebbe da chiederlo al professor Roberto Volpi, dirigente scolastico dell’Istituto d’Arte «Bernardino di Betto» di Perugia, che di suo pugno ha firmato e poi fatto protocollare una circolare nella quale esorta i docenti a ridurre le insufficienze degli studenti, a meno di non voler compromettere i rapporti con la presidenza.


In una specie di apologia del sei politico, il preside perugino invita difatti i professori del suo istituto a rivedere i parametri di valutazione, così da sfoltire le schiere degli asini. «Sia nelle prime quattro classi del corso ordinario che nei bienni - scrive il preside - la valutazione degli alunni ha avuto esiti catastrofici». Un bilancio così in passivo che «fossimo oggi al termine dell’anno scolastico - si legge nella circolare - le bocciature riguarderebbero percentuali tra il 70 e il 90 per cento degli iscritti, con conseguenze disastrose sugli organici e sulla sopravvivenza stessa dell’istituto».


Già, la sopravvivenza dell’istituto. A guardarla dal suo punto di vista non è che abbia tutti i torti. La scuola-azienda dell’azienda Italia non può difatti prescindere da una logica di mercato che al numero degli iscritti fa dipendere l’esistenza stessa dell’istituto. Ecco allora che il preside, alla ricerca della quadratura del cerchio, si slancia in giudizi tutt’altro che lusinghieri nei confronti dei suoi docenti «che, giudicando sufficienti due o tre alunni in una classe intera, bocciano in primo luogo se stessi».


Ma non è tutto. Oltre a dubitare della professionalità degli insegnanti («Senza assolvere la tendenza al disimpegno degli studenti e senza dimenticare la loro responsabilità personale - si legge alla quindicesima riga della circolare - è comunque inaccettabile che in cinque mesi di lezione non si riesca a coinvolgere in un minimo di interesse per la propria materia non dico la totalità o la maggioranza, ma almeno una quota significativa delle proprie classi»), il preside perugino fa di più, instillando il dubbio che i prof vogliano mettere le mani sul piatto dei corsi di recupero.


«Il netto peggioramento, statisticamente rilevabile rispetto agli scrutini quadrimestrali dell’anno passato - insinua il dirigente - non può che indurre al terribile sospetto che alla base di certe valutazioni ci sia anche il desiderio di accedere alla spartizione della torta rappresentata dai cinquanta euro l’ora per lo svolgimento degli Idei (Attività didattiche ed educative integrative, ndr)». Ma i prof che avessero pensato di arrotondare lo stipendio con qualche rientro pomeridiano avrebbero fatto male i loro conti «visto che - ammonisce il preside - la torta dei corsi di recupero è ben misera cosa». Diciassettemila euro in tutto. «Una cifra - spiega - da cui vanno detratti i compensi per i corsi già effettuati e che dovrà coprire anche le attività estive». Elementare la conclusione: «Visto che pochissimi corsi potranno essere avviati prima di giugno, sarà da privilegiare un altro genere di azioni come il fermo della didattica, il recupero in itinere e l’attività di sportello».


Un clima vagamente inquisitorio, quello che si respira nelle aule dell’istituto d’arte perugino, che ha fatto andare su tutte le furie i destinatari della circolare che la correzione all'insù dei voti la ritengono una indebita invasione di campo. «Non diventerò un vigilante»


Eppure sembra proprio che dovranno capitolare visto che il preside conclude la circolare con una sorta di avvertimento: «Resto fiducioso sull’equilibrio e sulla professionalità dei docenti ma non vorrei essere costretto a un serio controllo e a precisi interventi, qualora continuino a pervenire segnali che mettono in pericolo i rapporti con l’utenza e quindi la tenuta dell’istituto come entità autonoma».


Promozioni da hard discount, dunque, che imbarazzano non poco il corpo docente, che ad essere largo di manica non ci pensa nemmeno. «Vorrebbe dire - spiega un insegnante punto sul vivo - trasformarsi in vigilante e rinunciare al mandato educativo». Ma tant’è. Il sei d’ufficio, che sembrava archiviato con le occupazioni sessantottine, torna prepotentemente di moda, diventando, prima che un diritto degli studenti, un dovere degli insegnanti.


NATO NEL'68Tutti promossiIl «sei politico» è uno dei prodotti della contestazione studentesca del ‘68. Rovesciando il principio di autorità e predicando il diritto allo studio generalizzato contro la scuola di classe, gli studenti teorizzavano la sufficienza a prescindere dal merito. I voti collettiviNelle università, l’ideologia si declinava con gli esami collettivi e il «18 politico». Negli ultimi anni, il declino dell’istruzione pubblica ha aperto un dibattito in senso revisionista. E al ‘68 si è attribuita la degenerazione della scuola italiana.
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/scuola/grubrica.asp?ID_blog=60&ID_articolo=622&ID_sezione=255&sezione=

lunedì 21 aprile 2008

DA RAMMENTARE


Vorrei saper isolare la Scorta in questa foto, ma, dato ciò che scrive sopporterò anche Violante.

21/4/2008 (7:25) - RETROSCENA
Nell'Afghanistan che cambia
dove le donne osano sorridere
Violante con la «scorta» che lo ha accompagnato a Kabul

Con i soldati italiani tra ospedali, scuole e centri che insegnano un nuovo lavoro
LUCIANO VIOLANTE
Sono stato a Kabul su invito del Parlamento afghano. Ho avuto interessanti appuntamenti politici. Ma ho approfittato della cortesia e del prestigio dell'ambasciatore italiano per capire di più. Quattro giorni vorticosi di incontri, colloqui, visite in una città a 1800 metri di altezza, circondata da montagne, fangosa quando piove, polverosa con il sole. La scorta è dei carabinieri del Tuscania; simpatici, attenti e riservati. Il lavoro degli italiani va dalla sanità alla ristrutturazione, dalla giustizia alla formazione professionale, dalla sicurezza all'istruzione. Ci spostiamo su Toyota blindate e senza targa, per evitare il riconoscimento. Molte macchine hanno il Jamming, un'antenna che intercetta eventuali segnali mandati da un telefono cellulare per far esplodere un ordigno al passaggio del mezzo. Fuori Kabul si viaggia su blindati che hanno sul cofano una specie di grande braccio metallico. Serve a tranciare i fili metallici tesi sulla strada, all'altezza del militare che sporge dalla torretta, per tagliargli la testa. Nei film western era una corda che faceva cadere gli inseguitori. Qui gli effetti sono mortali.

L'Afghanistan è uno dei Paesi più minati del mondo. Per capire i danni bisogna entrare nell'ospedale ortopedico diretto dal dottor Cairo. Pieno di braccia, mani, piedi, gambe artificiali. Si fabbricano e si applicano arti di ogni tipo. Tutto il personale è afghano, a sua volta colpito da un'esplosione. Se a un handicappato di avvicina uno come lui, che aveva lo stesso problema e ha trovato un rimedio, è più facile il reinserimento, spiega Cairo. Molti sembrano perfettamente normali e poi, sorridendo, mostrano la protesi.

L'ospedale Esteqlal, un grande complesso pubblico di Kabul, ha anche un consultorio familiare. Ogni giorno si recano, in media, 50 donne e 10 uomini. Su una parete, alcuni pannelli molto semplici illustrano le più comuni tecniche contraccettive: come e quando si prende la pillola, come si indossa un preservativo, come si mette il diaframma. Tutto gratis, anche i preservativi che in farmacia hanno un costo inaccessibile. E' diretto dal dottor Oryakhil che ha studiato in Italia; mi spiega che il tasso di fertilità delle donne afghane è di circa 6 figli ciascuna.

Nel reparto ostetricia incontriamo un gruppo di donne, medici e infermiere. Chiedo quale è la maggiore difficoltà. «The husband», il marito, mi rispondono ridendo. Nel cortile sostano decine di donne, molte avvolte nel burqa azzurro. Sono sedute per terra, secondo l'abitudine afghana; parlano fitto tra loro. Hanno molti bambini con sé. I piccoli a Kabul sono silenziosi e sorridono spesso. Abituati ad una vita dura, non conoscono il capriccio. Nell'ospedale di Emergency, ordinato come una clinica di Zurigo, avevo notato un bambino con il viso sfigurato da una mina, e una mano lacerata sino all'avambraccio e ricucita, che faceva esercizi di rieducazione muovendo le dita della mano lacerata con l'altra mano. Soffriva molto, ma continuava imperterrito.

Il dr. Oryakhil mi mostra un padiglione in costruzione. E' per le donne vittima di grandi ustioni. Molte ragazze si bruciano perché non vogliono sposare l'uomo scelto dal padre, che spesso è un vecchio. Se si bruciano, l'uomo non le vorrà più. Per ignoranza non sanno a quali sofferenze vanno incontro. La cooperazione italiana fa molto per questo ospedale. Tutti ci sono grati. Quando usciamo, Oryakhil mi mostra la sala mensa per i dipendenti. Gli uomini, medici e infermieri, non volevano stare nella stessa stanza dove c'erano le colleghe e mangiavano in una stanza comunicante, chiusa da una porta. Oryakhil ha fatto portar via la porta e ora lentamente la segregazione sta finendo.

«Il giardino delle donne» è un grande spazio, chiuso da un muro, dove le madri possono passeggiare con i loro bambini. La cooperazione italiana ha ristrutturato alcuni locali e segue progetti per le donne. In una stanza, circa quindici ragazze montano lampade ad energia solare. Me le mostrano orgogliose. Questo lavoro permette loro di guadagnare più dei mariti. Meno bene è andato invece l'esperimento che riguarda la riparazione dei telefoni cellulari; è difficile da Kabul star dietro alle innovazioni della Nokia. Invece va bene il lavoro di taglio delle pietre preziose, lapislazzuli, ametiste, quarzi e agate. Sono impegnate 13 donne che provengono da un quartiere disagiato della periferia di Kabul.

Sono le più disponibili a parlare, ad illustrare il lavoro che fanno, le sconfitte (un commerciante ha promesso del lavoro e poi è scomparso) e le vittorie. Alcune si sono specializzate in Italia. In una piccola stanza piena di luce, giocano i figli delle donne che lavorano; se non li portassero con sé, i mariti non le lascerebbero uscire. La mattinata è luminosa. Il giorno precedente è stato molto freddo e le montagne attorno a Kabul sono bianche di neve.

I segni delle distruzioni sono lontani. Forse le donne hanno ragione: il problema dell'Afghanistan sono gli uomini. Quando incontro i nostri militari a Kabul ed Herat, mi vengono in mente, per contrasto, le sofisticherie parlamentari sulla missione. Guardo i visi puliti dei giovani; mi colpisce l'aria responsabile degli ufficiali. Noi italiani garantiamo la sicurezza, distribuiamo viveri e attrezzature; curiamo le persone; i veterinari curano le bestie ammalate, unico mezzo di sopravvivenza per moltissime famiglie dei villaggi. Siamo anche nella valle di Surobi, rifiutata dai turchi perché troppo pericolosa. Non abbiamo bombardato; abbiamo consegnato viveri, curato la popolazione, attrezzato un ospedale. I militari italiani hanno scoperto, grazie alla fiducia nata da queste attività, 40 depositi d'armi in pochi giorni, più che in tutto il 2007. Forse è così che si esporta la democrazia.

Capisco che stare in Afghanistan corrisponde all'interesse nazionale. Se vincessero i talebani e i loro alleati, l'intera regione sarebbe destabilizzata e l'Italia, con tutto l'Occidente, correrebbe rischi gravissimi. Se i talebani fossero sconfitti senza di noi, avremmo perso qualsiasi legittimazione a sedere ad un tavolo internazionale.

Mentre torniamo verso l'aeroporto, chiedo all'ufficiale che è seduto accanto a me quanti erano i russi in Afghanistan al tempo dell'occupazione. Erano 108.000 e sono stati sconfitti. Le truppe occidentali sono complessivamente 40.000, quanto in Kosovo, che è grande come l'Abruzzo, mentre l'Afghanistan è il doppio dell'Italia. Non ha torto il segretario generale della Nato quando chiede un maggior impegno. I problemi sono tanti. Ma ci sono anche i risultati: sette milioni di studenti sono tornati a scuola e il 38% sono ragazze; la mortalità infantile regredisce; la gente comincia a difendere le scuole che i talebani vogliono distruggere. Sulla strada incrociamo una donna con il burqa, che guida un ciclomotore. Mi sembra un segno delle contraddizioni di questo Paese e della faticosa fiducia che possiamo nutrire nel suo futuro

http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200804articoli/32094girata.asp

domenica 20 aprile 2008

FRA NOI IL PRIMO


Cara Ambra,
ti invio scansione del concorso di poesia che vinsi ad Anagni.
Ciao
Guido

GUARDATE E DIVERTITEVI

Cara Ambra,
esce una pagina con scritto "play"
io mi sono fidato del mio amico professore univesitario della Costa d'Avorio
e ho premuto play
e parte il video di Bozzetto
Ciao
Guido

sabato 19 aprile 2008

E questa la chiamano arte! Non ho parole


GLOBOLOBOTOMIA SELVAGGIA
USA: esposizione di aborti come opera d’arte (Maurizio Blondet)
Benedetto XVI: «Anche nel nostro tempo, particolarmente nei momenti di crisi, gli Americani continuano a trovare la propria energia nell'aderire a un patrimonio di condivisi ideali ed aspirazioni». Intanto a Yale, si prepara una mostra abominevole; il diritto alla vita dei bambini non-nati, somiglia tanto a quello dei palestinesi. Ricavo la notizia dal Yale Daily News, il giornale dell'università di Yale: Aliza Shvarts, laureanda in Arte, ha presentato come tesi di laurea la seguente opera: «La documentazione di un'attività durata nove mesi durante i quali essa si è inseminata artificialmente 'quante più volte possibile' (parole sue) per poi prendere periodicamente farmaci abortivi onde indurre l'aborto. La sua esibizione consiste nel video che riprende questi aborti forzati, insieme alla collezione di provette di sangue risultanti da questa attività». «Il suo scopo nel creare questa mostra d'arte, ha dichiarato Shvarts, era di suscitare dialogo e dibattito sul rapporto fra arte e corpo umano». L'artista dice: «Ovvio, certa gente sarà urtata dal mio messaggio e non sarà d'accordo, ma non è l'intenzione della mia opera scandalizzare nessuno». Il giornale continua: «I 'fabbricanti' o donatori di sperma non sono stati pagati per i loro servigi, ma Shvarts ha chieso loro di sottoporsi a periodici test per le malattie a trasmissione sessuale. Quanto agli abortivi, sono prodotti d'erboristeria legali, sicchè l'artista nom ha sentito la necessità di consultare un medico a proposito dei suoi ripetuti aborti. Shvarts ha rifiutato di specificare il numero dei donatori di sperma, così come il numero di volte in cui si è inseminata». L'esposizione dell'opera della Schvarts consisterà in un grande cubo sospeso al soffitto in uno spazio nella galleria della Green Hall (di Yale). La Schvarts avvolgerà centinaia di metri di plastica attorno al cubo, inframmezzati con lenzuola con il sangue degli aborti auto-indotti della Schvarts. Il sangue è mescolato a vaselina perchè non si asciughi, e anzi si spanda sui fogli di plastica. La Schvarts proietterà i suoi video sui quattro lati del cubo. I video, ripresi con una telecamera VHS, mostreranno l'artista mentre fa esperienza dei propri aborti nella sua vasca da bagno. Video simili saranno proiettati sulle pareti della galleria. «Io credo fortemente che l'arte debba essere un tramite per la politica e l'ideologia, non una merce», dice l'artista: «Sono convinta di aver creato un progetto che supera ciò che si rietiene essere l'arte». Il vernissage ufficiale per la Mostra d'Arte dei Laureandi avrà luogo dalle 6 alle 8 di sera del 25 aprile. Ma la mostra sarà aperta al pubblico dal 22 aprile, e fino al primo maggio. La mostra comprenderà i progetti di altri studenti d'arte. Si terrà alla galleria della Holcombe T. Green jr. Hall di Chapel Street». Nel testo si chiarisce infine che la Schvarts ha esercitato il diritto costituzionale a «fare del proprio corpo ciò che vuole». Nessun commento è necessario. Anche perchè, forse, la mostra della giovane artista di Yale è in sè un commento: alla visita del Pontefice negli Stati Uniti, e al suo ringraziamento iniziale alla presenza del presidente Bush: «Sin dagli albori della repubblica, la ricerca di libertà dell'America è stata guidata dal convincimento che i principi che governano la vita politica e sociale sono intimamente collegati con un ordine morale, basato sulla signoria di Dio Creatore. Gli estensori dei documenti costitutivi di questa nazione si basarono su tale convinzione, quando proclamarono la «verità evidente per se stessa» che tutti gli uomini sono creati eguali e dotati di inalienabili diritti, fondati sulla legge di natura e sul Dio di questa natura. Il cammino della storia americana evidenzia le difficoltà, le lotte e la grande determinazione intellettuale e morale che sono state necessarie per formare una società che incorporasse fedelmente tali nobili principi. Lungo quel processo, che ha plasmato l'anima della nazione, le credenze religiose furono un'ispirazione costante e una forza orientatrice, come ad esempio nella lotta contro la schiavitù e nel movimento per i diritti civili. Anche nel nostro tempo, particolarmente nei momenti di crisi, gli americani continuano a trovare la propria energia nell'aderire a questo patrimonio di ideali ed aspirazioni condivise».
(EFFEDIEFFE.com Giornale Online Direttore Maurizio Blondet http://www.effedieffe.com/

UNA NOTIZIA DA DISCUTERE.


Herat (Afghanistan), 12:14
SPAGNA: MINISTRA INCINTA A HERAT CON GINECOLOGO

In visita di Stato in Afghanistan con tanto di ginecologo e pediatra al seguito: la ministra spagnola della Difesa, Carme Chacon, al settimo mese di gravidanza, e' giunta nella base di Herat, per visitare le truppe spagnole di stanza nel Paese. E si e fatta accompagnare da un'equipe medica militare, pronta all'evenienza di un parto prematuro: ginecologo, anestesista e pediatra. Incurante delle critiche ricevute in patria da chi considera inopportuno i viaggi nel suo stato, la Chacon ha preannunciato che, prima di dare alla luce il bebe', intende visitare altre missioni all'estero a cui partecipa la spagna (Balcani e libano). Ad Herat sono schierate anche le truppe italiane.

giovedì 17 aprile 2008

LEGGETE QUESTO

Polvere intellettuale.
Finalmente i lavoratori italiani hanno capito che la sinistra non li rappresenta, non li ha mai rappresentati, ma solo presi per i fondelli.
I miliardari alla de benedetti ed alla illy, hanno voglia di dirsi comunisti non convincono più il popolo.
I radicalPOCOscic dei così detti salotti buoni, mordono oggi la polvere insieme agli pseudo scienziati alla odifreddi e alla hack , agli pseudo filosofi alla vattimo e all’ umberto eco, agli pseudo giornalisti alla scalfari e alla mieli.
Mi ero sempre chiesto come fosse possibile che il popolo credesse a personaggi, che girano con la pipa da 700 euro in bocca, tutti griffati e con il manifesto sotto il braccio, solo perché dicevano di essere comunisti. Bene questi pseudo compagni, che conducono una vita borghese, e nel senso più deteriore della parola, sono stati smascherati.
Lo stesso franco giordano segretario dei rifondaroli ammette il distacco del partito dalla classe operaia, per troppo intellettualismo ideologico. Lui parla di intellettualismo ideologico io più realisticamente parlerei di aneuricità ideologica.
Tutti questi sinistri personaggi che a forza di autocelebrarsi, si erano convinti di essere intellettualmente superiori, sono stati sconfitti da quello che, spregiativamente, chiamano il nano di Arcole.
Giudicato uomo incapace, incompetente, politicamente anomalo e senza seguito nel paese.
Beh direi che questo dimostra la loro inferiorità intellettuale, la loro incapacità politica di capire l’umore ed i bisogni del popolo:
di questa gentaglia l’Italia non ne ha bisogno.
Marcello/sarc.

COM' E' UMANA LA SINISTRA.

mercoledì 16 aprile 2008


Finalmente anche in Italia è caduto il muro di Berlino

UNA MATTINA MI SON SVEGLIATO E, BELLA CIAO, E’ SPARITO L’INVASOR. SARA’ STATO UN METEORITE AMMAZZA-DINOSAURI O E’ L’ITALIA CHE E’ CAMBIATA TOTALMENTE? ADIEU, OLD GAUCHE, ADIEU DILIBERTI GIORDANI BERTINOTTI RIZZI PECORARI CARUSI…

16 Aprile 2008
Sono estinti. Sarà stato un meteorite o l’improvviso riscaldamento del pianeta? Non lo sappiamo. Sappiamo che verdi, girasolisti, anti-Tav. Anti-bridge, comunisti italiani, comunisti rifondati, comunisti di lotta, di governo, finti ecologisti dalle barbe finte, sono scomparsi.
Il vecchio grido di guerra “non si fanno prigionieri” è superato: non ci sono prigionieri da fare. Questa estinzione può forse provocare surriscaldamenti ma a questa preoccupazione bisogna saper rispondere dando alla sinistra estinta una “exit strategy”: una via d’uscita che permetta la tragica pausa di riflessione, la martoriante autocritica, l’autopunizione e infine la rigenerazione catartica con incorporata rinascita dalle proprie ceneri.
Diciamolo: quella che è stata sconfitta non è affatto una sinistra popolare, operaia, proletaria, emarginata, ma una sinistruzza arrogante piccolissimo borghese, aristocratica, ignorante e presuntuosa. Quella sinistra cioè che sta già piangendo lacrime amare e comincia a sospettare che forse il principio di realtà, come insegnava papà Freud, alla fine va rispettato: i fatti sono fatti, e le rabbie sono soltanto rabbie.Questa sinistra abituata a trattare chi vota per Berlusconi come gente di malaffare o imbecilli o analfabeti sbatte ora il muso contro il fatto (il principio di realtà) che milioni di persone intelligentissime, onestissime, informatissime e anche buonissime hanno votato dall’altra parte: come la mettono? Coprendosi occhi e orecchie?
La sinistra estinta per il meteorite elettorale finora aveva descritto l’elettore di destra con parole volgari: mafiosi, idioti e analfabeti. Ma il Paese che ha scatenato il meteorite è invece anche quello della produzione di cultura, oltre che di lavoro industriale e di ricchezza per tutti. Inoltre gli operai hanno votato in massa per il Popolo della Libertà abbandonando Bertinotti, Pecoraro Scanio, Grazia Francescato, Giordano e tutti gli altri simpatici amici del giurassico: Cipputi, insomma, ha mollato i gli arroganti del travaglismo e di Micromega e li ha lasciati soli. Anzi, fossilizzati. Bye.
Paolo Guzzanti

lunedì 14 aprile 2008

Storia dell'aborto di Francesco Agnoli


Fin dal concepimento vi è una vita che corre verso l'avvenire: a 18 giorni iniziano i primi battiti cardiaci; ad un mese e mezzo i ditini si precisano, con le loro impronte digitali, già inconfondibili ed uniche; a due mesi vi è una creatura perfettamente simile ad un grande ("Eccomi qua"), che misura tre centimetri, ma ha una precisione assoluta.


A tre mesi il bimbo è alto circa 8 centimetri, vive una vita sua, in stretto collegamento con quella della mamma: si sveglia se si sveglia lei, la ascolta parlare o cantare, fa le capriole, scalcia, sembra addirittura che distingua il dolce dall'amaro, che si lasci cullare dal battito del cuore della madre e che sogni…

Una vita così possiamo sopprimerla?


Chi e come, nella storia, ha ritenuto giusto farlo?


A questa e a molte altre domande, questo libro cerca di dare una risposta facendo la storia dell’aborto e delle menzogne divulgate per praticarlo e farlo accettare.

domenica 13 aprile 2008


“VOTARE” PER MARIA… 12.04.2008


Seguire le sue tracce nella storia e nella cronaca è sorprendente…

Vi parrà bizzarro, ma l’evento più interessante di questa campagna elettorale, per me, è accaduto domenica scorsa a Milano al Palasharp. Sebbene fossero presenti 25 mila persone nessuno ne ha dato notizia. In apparenza non c’entra con le elezioni, ma, come vedremo, non è così.

Quell’immensa folla è arrivata lì senza alcuna campagna pubblicitaria. Dalle 8.30 del mattino fino alle ore 21 hanno pregato, meditato, adorato, ascoltato testimonianze con il carismatico padre Jozo Zovko, che era parroco di Medjugorje all’inizio delle apparizioni della Madonna in quell’ormai celebre villaggio, nel giugno 1981 (il francescano fu poi arrestato dalla polizia comunista, torturato e detenuto per quasi due anni).

All’incontro – organizzato da “Mir I Dobro”, l’associazione di volontariato (nata a Varese) – erano presenti anche due dei sei veggenti: Ivan Dragicevic e Jakov Colo. Il primo ha ancora oggi le apparizioni quotidiane e puntualmente alle ore 18 la Madonna è arrivata, in un silenzio impressionante, nell’emozione generale. E’ rimasta circa 10 minuti a pregare con i presenti, specialmente sugli ammalati e sui sacerdoti. Poi, tramite Ivan, ha lasciato a tutti un messaggio: “Una madre prega per i suoi figli e io ho pregato mio Figlio per voi”

Particolarmente toccante è stata la testimonianza di Silvia, una ragazza di 19 anni, che era gravemente malata (una paraplegia alle gambe). Andando in pellegrinaggio a Medjugorje a un certo punto, sulla collina delle apparizioni, è svenuta e si è poi risvegliata con un forte pianto e con tremore, scoprendosi guarita:” Sono guarita! Cammino!”

Sono fatti eccezionali, ma nient’affatto isolati. Padre Jozo nella sua meditazione ha invitato a seguire gli insegnamenti del Santo Padre anche per quando riguarda la tutela della famiglia (in vista delle prossime elezioni ha fatto una speciale “preghiera per l’Italia”). E ha citato Tony Blair, l’ex premier britannico, recentemente convertitosi al cattolicesimo. Si dà il caso infatti che Medjugorje c’entri (anche) con questa conversione. Non solo perché la moglie, cattolica da sempre, segue le apparizioni da tempo. Padre Jozo lo ha incontrato qualche anno fa. In Inghilterra c’è un vero sommovimento medjugorjano che ha al centro un personaggio molto influente, Robert Hutley, convertitosi a Medjugorje con la moglie. Questo è il terreno su cui è fiorita la conversione di Blair.

Proprio il 4 aprile scorso la “Repubblica” ha lanciato in prima pagina una conferenza dell’ex premier su “Fede e globalizzazione” tenuta il 3 aprile nella cattedrale di Westminster davanti a circa 1.600 persone. Blair ha sottolineato l’importanza della religione per il destino dell’umanità. E ha messo in guardia dal laicismo. Infine ha riferito di aver dato vita alla “Fondazione Tony Blair per la Fede” (Tony Blair Faith Foundation).

E’ immaginabile una cosa del genere per i leader politici italiani? Peraltro Blair – come ha rivelato The Guardian – è in corsa per diventare il Presidente dell’Unione europea (carica istituita l’anno scorso a Lisbona).

Anche di un’altra (controversa) conversione hanno recentemente parlato i giornali, quella dell’ultimo leader dell’Urss Mikhail Gorbacev sorpreso in preghiera nella basilica di Assisi. Pure lui ha avuto a che fare con Medjugorje. Ho già raccontato su queste colonne come è accaduto che, nell’ottobre 1987, il presidente Reagan si sia messo in contatto con la veggente Marija Pavlovic, due mesi prima della firma del Trattato di Washington con l’Urss, il primo per l’eliminazione delle armi nucleari che mise fine allo scontro sugli euromissili e fu preludio al crollo incruento dell’Urss. Ho riferito l’entusiasmo e la commozione di Reagan che si sentì spronato a proseguire sulla via del disarmo. Addirittura, con la moglie Nancy, decise di fare le preghiere e il digiuno chiesti dalla Madonna “Reagan volle che, fra i documenti da portare con sé ai colloqui con Gorbacev, ci fosse pure la mia lettera” racconta Marija. “So che lui ne parlò a Gorbacev e poi hanno firmato tutto. In seguito mi è arrivata una busta con la foto del presidente e il suo ringraziamento, scritto di suo pugno. E anche Gorbacev ha voluto quella mia lettera”.

La Madonna di Medjugorje deve averlo illuminato, se lo stesso Gorbacev nella storica visita in Vaticano del 1° dicembre 1989, nello studio privato di Giovanni Paolo II, si inginocchiò davanti a lui chiedendo perdono per i crimini del comunismo (il papa lo abbracciò). La clamorosa notizia fu rivelata la prima volta da suor Lucia, la veggente di Fatima e confermata da lei anche dopo la smentita dalla Sala stampa vaticana, il 2 marzo 1998. Pochi mesi fa ha confermato la notizia addirittura il Segretario di Stato vaticano, cardinal Bertone, in un suo libro. Nel mondo cattolico si diffonde la sensazione – esplicitata quattro mesi fa a Lourdes dal cardinale Ivan Dias - che in questa generazione la Madonna protegga in modo speciale la Chiesa e il mondo. E’ evidente proprio dalle sue apparizioni e dal grande pontificato mariano di Giovanni Paolo II.

Nei prossimi giorni Benedetto XVI andrà negli Stati Uniti. Parlare al popolo americano è un evento storico, come quando san Pietro venne a Roma, la capitale dell’Impero. Ma anche qui la strada di papa Ratzinger è stata preparata. Non solo dal predecessore. La presenza silenziosa e misteriosa di Maria lo ha preceduto già dentro la Casa Bianca dove il Papa incontrerà il presidente Bush. Infatti, racconta Marija Pavlovic, a margine della vicenda del 1987, “seppi che il Presidente Reagan aveva personalmente fatto comprare una statuina della Madonna, facendola portare alla Casa Bianca”. Era l’immagine della Madonna di Fatima. E di nuovo nulla appare casuale. Non solo per il legame fra Medjugorje e Fatima, ma anche per una notizia che è venuta alla luce solo di recente. E che riguarda proprio la Casa Bianca e Fatima.

Siamo nel 1959. Papa Giovanni XXIII legge il testo del “terzo segreto di Fatima” che per volere della Madonna doveva essere reso pubblico nel 1960. Contiene, come scopriremo nel 2000, il preannuncio di una immane catastrofe planetaria e di una grande prova per la Chiesa.

Papa Roncalli decide di segretarlo. L’11 ottobre 1962 apre il Concilio Vaticano II irridendo i “profeti di sventura” e affermando: “non siamo alla fine del mondo”. Anzi esaltò il “nuovo ordine di rapporti” mondiali che “volgono inaspettatamente” al meglio. Esattamente quattro giorni dopo il mondo precipita sull’orlo di una guerra nucleare mai vista. Il 14 ottobre infatti un aereo americano fotografa 162 testate nucleari sovietiche nell’isola di Cuba puntate sugli Stati Uniti. Il 15 le foto sono sul tavolo del presidente Kennedy che deve decidere cosa fare. Decise – anche su accorato invito del Papa - di non invadere e alla fine di trattare. Qualcuno dal Vaticano aveva fatto pervenire alla Casa Bianca una descrizione dello scenario apocalittico tracciato dalla Madonna a Fatima (ora si capisce perché doveva essere svelato nel 1960).

In una recentissima intervista Robert McNamara, segretario alla Difesa di Kennedy, ha riferito, con un moto di orrore, che nel 1992 “noi venimmo a sapere per la prima volta da ex ufficiali sovietici che loro erano pronti alla guerra nucleare nel caso di un’invasione americana di Cuba”. Il mondo dunque fu salvato dalla decisione di Kennedy di non invadere. Sarà un caso, ma Kennedy fu il primo (e unico) presidente americano di fede cattolica. Quindi più di chiunque altro era sensibile a un messaggio che arrivava dalla Santa Sede e dalla Madonna di Fatima. Fu provvidenziale che proprio in quel momento gli Stati Uniti avessero un presidente cattolico. Kennedy, era nato nel maggio 1917 (quando iniziarono le apparizioni di Fatima) ed ebbe la “nomination” per la Casa Bianca nel 1960: il 13 luglio. Lo stesso giorno in cui – anni prima – la Madonna consegnò ai tre pastorelli il Segreto. L’ennesimo caso?

Antonio Socci

Da “Libero”, 12 aprile 2008

giovedì 10 aprile 2008

Leonardo: madre era una schiava, padre la eredito' da amico


Vanni di Niccolo' di Ser Vanni, banchiere fiorentino e anche usuraio, vissuto nel '400, cambio' il suo testamento nel giro di due mesi e lascio' la sua casa di via Ghibellina, nel quartiere di Santa Croce, in usufrutto alla moglie Agnola fino alla morte: dopo la casa sarebbe andata al notaio Ser Piero da Vinci, suo esecutore testamentario e anche amico. Nel frattempo il testamento destinava a Ser Piero la schiava di Ser Vanni, Caterina, e da lei ebbe Leonardo. La storia e' raccontata nel libro 'La madre di Leonardo era una schiava?', di Francesco Cianchi, presentato al museo del Bigallo di Firenze insieme al volume 'Per la genealogia di Leonardo', di Elisabetta Ulivi. I due testi sono a cura di Agnese Sabato e Alessandro Vezzosi, direttore e ideatore del museo Ideale di Vinci, e aggiungono nuovi particolari sulla vita e sulla famiglia del genio. Secondo il libro di Cianchi, che riprende studi del padre Renzo, la 'Caterina sclava' che appare in numerosi documenti della casa di Ser Vanni e nel suo testamento sarebbe a oggi la piu' probabile madre di Leonardo da Vinci. Non per nulla i riferimenti a lei a Firenze finiscono nel 1451, anno di morte di Ser Vanni, e poi Caterina ricompare a Vinci nel 1452, anno di nascita di Leonardo.''Parlare di schiavi a Firenze nel '400 - hanno spiegato Sabato e Vezzosi - sembra quasi un'eresia, ma in realta' erano molte le famiglie di notabili e benestanti che compravano donne dall'est Europa o dal Medio Oriente. Le giovani venivano poi ribattezzate, e i nomi piu' comuni erano Maria, Marta e anche Caterina''. Come appurato dai documenti, Ser Piero va a vivere nella casa di via Ghibellina nel 1480, tre anni dopo la morte di Ser Vanni, mentre Caterina segue il figlio a Milano. Nel frattempo il padre si era sposato quattro volte e aveva avuto numerosi figli. Il libro di Ulivi, grazie alla consultazione di nuovi documenti compresi registri battesimali di Santa Maria del Fiore, scopre anche due nuovi fratellastri. Fratelli e sorelle avevano avuto rapporti con Leonardo, figlio illegittimo, e anche tensioni per motivi di eredita' visto che lo zio di Leonardo, Francesco, fratello di Ser Piero, aveva lasciato a lui molti dei suoi beni. ''Molti viaggi di Leonardo - ha detto Vezzosi - erano dovuti proprio alle tensioni familiari''. Quel che emerge nel complesso, dunque, e' ''una famiglia allargata - ha continuato Vezzosi - e i nuovi documenti svelano anche molto della vita e dei luoghi fiorentini del tempo''. ''L'ultimo tassello che ancora manca - ha concluso - e' il contratto di acquisto di Caterina: solo cosi' si potrebbe conoscere il paese da dove proveniva la donna''. Anche se, in questo senso, ci aiutano ricerche antropologiche: secondo gli studi di Luigi Capasso, direttore dell'istituto di antropologia e del museo di storia delle scienze biomediche dell'Universita' di Chieti e Pescara, che hanno ricostruito il dermatoglifo del polpastrello di un dito della mano sinistra di Leonardo, l'impronta presentava caratteristiche 'arabe', rafforzando l'ipotesi di una madre del Medio Oriente.

mercoledì 9 aprile 2008

DA GUIDO UN DOCUMENTO DA CONSERVARE


Il caso di Giuseppe Monsurro' diventa internazionale

Giuseppe Monsurro', come altri italiani, era semplicemente in vacanza in Croazia con la famiglia, gente perbene che non ha mai fatto niente di illegale, trovatosi improvvisamente in prigione, percosso violentemente dalla polizia e lasciato per giorni interi seminudo, senza acqua e viveri. Hanno dovuto pagare una cauzione (o riscatto??) di 40 mila euro per poter tornare a casa


Il caso di Giuseppe Monsurrò, cittadino italiano che lo scorso mese di agosto 2007 ha dovuto subire un ingiusto arresto in Croazia, dove si era recato in vacanza con la famiglia e alcuni amici, e detenuto per ben 42 giorni in un carcere locale, apre un caso internazionale. A interessarsi alla vicenda sono stati veramente pochi organi di informazione sia durante la detenzione che in seguito. Ma a fare poco, o nulla, ci si è messo anche il governo italiano, forse per paura di danneggiare le relazioni con Zagabria.

Una delle poche organizzazioni a interessarsi al caso è Secondo Protocollo una ONLUS che ha come obbiettivo la difesa dei Diritti Umani in qualsiasi parte del mondo. Secondo Protocollo ha infatti inoltrato una denuncia contro la Croazia, su mandato dello stesso Monsurrò, presso la Corte Europea dei Diritti Umani, per gravi violazioni del Diritto perpetrate dalle autorità croate.
Ma andiamo con ordine, ecco gli eventi raccontati a News ITALIA PRESS dalla voce stessa di Giuseppe Monsurrò, 25enne napoletano, da poco titolare di una agenzia pubblicitaria: “Quando è avvenuto il mio arresto era l’ultimo giorno di vacanza, una vacanza tranquilla che avevo voluto fare in relax con la famiglia e gli amici a Pula, in Istria, come tanti italiani. Eravamo 6 famiglie. Avevamo scelto un villaggio, come ce ne sono tanti, con bungalow e posto per il campeggio. La permanenza al villaggio aveva riscontrato alcuni problemi i giorni precedenti: diciamo che non eravamo stati trattati bene dal personale locale, soprattutto dalla security del villaggio, si erano registrati casi di donne importunate e altri eventi spiacevoli come mancati soccorsi a ferimenti di alcuni ospiti italiani. Io mi ero lamentato del trattamento più volte con il direttore del villaggio e lui adeguatamente, così ci sembrò allora, aveva rimproverato il personale della sicurezza scusandosi al contempo con noi e promettendoci di cambiare i turni al personale e il personale stesso. L’ultima sera di permanenza, con amici stavamo apprestandoci a vedere un film su un lettore dvd portatile, quindi con una scarsa capacità acustica, quando improvvisamente hanno fecero irruzione nel nostro bungalow gli addetti alla sicurezza. Con fare minaccioso ci intimarono di uscire. Tengo a precisare che rispettavamo tutte le regole del villaggio: alla mezzanotte bisognava rispettare il silenzio ed erano le 22, non fumavamo né eravamo ubriachi, nessuno beveva alcolici. La sicurezza ha cominciato a insultarci pesantemente, ma noi non abbiamo mai reagito. Alla loro minaccia di chiamare la polizia, una misura che pensavamo intimidatoria, abbiamo risposto di chiamarla pure, sentendoci noi maggiormente tutelati da una divisa della polizia che da questi ceffi. Purtroppo non è stato così. Abbiamo subito visto la connivenza degli addetti alla sicurezza con la polizia locale, giunta addirittura in tenuta anti-sommossa. Io stavo riprendendo tutto con la mia macchina fotografica digitale. Iniziò una discussione: noi cercavamo di chiarire alla polizia la vera aggressione da parte degli addetti alla sicurezza, c’era un clima concitato, animato, ma nessun tipo di violenza, almeno sinché un poliziotto ha colpito con una manganellata una donna al braccio. Il marito si è messo prontamente in mezzo, con il solo scopo di proteggere la moglie. A quel punto è intervenuta la polizia che ha cominciato a caricarci tutti. L’uomo è stato picchiato selvaggiamente. Io sono scappato, a quel punto la polizia ha arrestato casualmente 3 persone tra cui mio cognato, appena uscito dal bungalow per vedere cosa era successo. Anche io e mio padre, calmatesi le acque siamo intervenuti per capire il motivo e chiarire il tutto, io avevo in mano ancora la macchina fotografica. Uno dei responsabili della sicurezza vedendola e pensando che avessimo le prove di come erano andate veramente le vicende ha cercato di strapparmela di mano aggredendomi improvvisamente. Appena mi sono mosso per difendermi sono stato aggredito da 3 poliziotti e picchiato a manganellate pure io. Mi mancava il respiro. Credevo di morire”.
Ma purtroppo era solo l’inizio di un incubo…
“Sono stato trascinato dalla polizia in tenuta anti-sommossa sul furgone, sono stato pestato ripetutamente fino all’arrivo in caserma. Pensavo fosse finita a quel punto, ma non è stato così. Eravamo cinque arrestati, appena arrivati ci hanno fatto scendere, messi insieme in cortile e nuovamente picchiati. Ero scalzo, completamente livido e sanguinante. Entrato nell’edificio sono stato picchiato a freddo con un pugno in bocca da quello che doveva essere l’appuntato. Eravamo carne da macello, un vero sport per i poliziotti, chiunque arrivasse ci picchiava e scherniva. Abbiamo subito vere e proprie torture, come lo strettissimo ammanettamento, sentivo le ossa stritolarsi sotto la carne. Per 3 giorni siamo stati tenuti al commissariato senza la possibilità di chiamare nessuno, ci veniva infatti concessa una sola chiamata in Croazia. Non ci hanno dato da mangiare, potevamo soltanto bere. Una mia amica è rimasta ammanettata per ore in costume da bagno, come prelevata dal villaggio, ad una sedia vicino all’ingresso. Io ho fatto una notte ammanettato alla scrivania in una cella con uomo nudo sdraiato per terra come compagno. In tutto questo tempo nonostante mia madre avesse allertato l’ambasciata non abbiamo mai visto un rappresentante italiano. Con un sotterfugio ci hanno chiesto chi poteva testimoniare a nostro favore per il rilascio. Dopo che noi fornimmo i nomi, questi altri nostri amici e parenti, 6 in tutto, sono stati convocati al commissariato, ma anziché sentirli, appena giunti sono stati incriminati anche loro! 11 persone in stato di fermo, persone non solo incensurate, ma che mai avrebbero immaginato nella loro vita di vivere momenti simili. La connivenza era estesa anche ai medici che mi visitarono dopo qualche giorno, non riscontrarono nulla, nonostante gli evidenti segni, l’asma di cui soffro e la lussazione al ginocchio che mi fu riscontrata al mio rientro in Italia.
Riuscimmo a chiamare un avvocato locale che si rivelò inetto perché non ci disse che ogni incriminato deve avere un suo difensore. Nonostante ciò il giudice, dopo un week end di carcere, permise ai 6 testimoni, le persone da noi chiamate e anche loro messe in stato di fermo, di essere rilasciati dietro il pagamento complessivo di 3500 euro che furono pagati in contanti, messi insieme da parenti e amici presenti al villaggio. Pensavamo che anche per noi potesse profilarsi una situazione simile ma non fu così. Io fui accusato di disturbo della quiete pubblica, aggressione alla security e lesione grave di un poliziotto che poi si rivelò, alla fine, il ferimento di un dito mignolo, probabilmente procurato nel lungo pestaggio ai miei danni.
Per farla breve, sono rimasto incarcerato per 42 giorni, fino al 2 ottobre. In questo lungo periodo ho visto il console solo 2 volte, la prima volta dopo 12 giorni dall’arresto. Fu lo stesso console a confidarmi che non si voleva che il caso diventasse “un caso politico”. Solo grazie al cambio di un avvocato, consigliatomi da un altro detenuto, sono riuscito a ottenere la mia scarcerazione, e solamente dopo il pagamento di una cauzione patteggiata tra l’avvocato e il giudice di una somma di 40.150 euro! “L’italiano deve lasciare il valore di una grossa auto” fu detto in via confidenziale all’avvocato. Ogni volta che andavo dal giudice venivo deriso. Il PM ha chiesto per me 1 anno e 3 mesi di carcere. Anche in prigione avevano messo in giro la voce che fossi un mafioso italiano e sono stato messo 5 giorni in isolamento. Questo prima di ogni condanna!”
Ora la richiesta di una giustizia vera.. “Si vorrei che il mio caso fosse conosciuto, per me allora si mosse solamente un parlamentare che pubblicamente fece interpellanze parlamentari. Nessun altro.”
Ed è giustiza vera quella che chiede infatti Secondo Protocollo alla Corte Europea di Giustizia: a seguito di diverse indagini condotte da Secondo Protocollo stessa e dai legali di Monsurrò, è infatti emerso che la pratica di arrestare cittadini italiani per poi costringerli a pagare un riscatto è molto diffusa in Croazia.

“Stiamo raccogliendo altre testimonianze di italiani – ha detto a News ITALIA PRESS Franco Londei, presidente di Secondo Protocollo - che, senza apparente ragione o per futili motivi, sono stati arrestati, sottoposti a percosse dalla polizia croata e poi rilasciati a seguito del pagamento di un riscatto, testimonianze che saranno sottoposte all’attenzione della Corte Europea dei Diritti Umani.
Quello che ci preme far sapere è soprattutto il rischio che un cittadino italiano corre andando in vacanza in Croazia. La testimonianza di Giuseppe Monsurrò, confermata da diversi testimoni, non lascia adito a dubbi sul fatto che la polizia croata non solo tende a prendere di mira i cittadini italiani, ma si spinge addirittura a insultare le Istituzioni italiane e le forze dell’ordine italiane (carabinieri e polizia).
Nonostante diverse interrogazioni parlamentari, il caso Croazia non sembra al momento interessare l’attuale Governo Italiano, per cui la cosa più ovvia da fare era rivolgersi all’Europa, dato anche che proprio la Croazia ha chiesto l’ingresso nell’Unione Europea. Il consolato sembra abbia fatto poco o nulla. C’è anche un altro caso simile, quello di operatore turistico di Bolzano'.

Secondo Protocollo ha chiesto alla Corte Europea dei Diritti Umani di aprire un procedimento contro la Croazia, fornendo prove inconfutabili dei reati commessi dalla polizia croata contro il cittadino italiano Monsurrò Giuseppe e contro altri cittadini italiani. Allo stesso tempo intende mettere in guardia quanti si recheranno nella prossima estate in Croazia, consigliando vivamente di procurarsi i numeri di telefono dei consolati italiani presenti sul territorio croato e soprattutto di prendere coscienza di quali siano i propri Diritti stabiliti dalle leggi internazionali, primo fra tutti il Diritto di contattare immediatamente le autorità consolari italiane, nel caso ci si trovi per qualsiasi motivo in condizioni di arresto. Monsurrò deve essere ancora giudicato dalla giustizia croata che pare sia addirittura intenzionata a chiedere un mandato di cattura internazionale. Ma “entro 10 – 15 giorni dovremmo sapere se il caso viene accettato dalla Corte Europea, allora comincerà a fare domande alla Croazia e lei dovrà rispondere, forse allora avremo uno spiraglio di giustizia” ha chiuso Londei.


News ITALIA PRESS

martedì 8 aprile 2008

Eccomi, ho risposto all'invito.

Ambra, anche se ti ho risposto in privato, ho provato e mi ha riconosciuto con la nuova password e allora, ECCOMI di nuovo.

Ciao, buona giornata a te e tutte/i.

lunedì 7 aprile 2008

Sonata al chiaro di luna

Per sempre ci seguirà il suono della tua chitarra Dagoberto !

domenica 6 aprile 2008

sabato 5 aprile 2008

A T T E N Z I O N E !

Ecco come si può davvero aiutare il Tibet PDF Stampa E-mail
Scritto da Marcello Foa
sabato 05 aprile 2008
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Ieri ho avuto il privilegio di incontrare Matthieu Ricard, monaco buddista, amico e consigliere personale del Dalai Lama, che oggi e domani tiene ad Ascona un seminario sull’arte della felicità. Ne ho tratto un’intervista uscita oggi, in cui si affrontano molti temi esistenziali e spirituali e in cui inevitabilmente si esamina anche la questione Tibet.
matthieuRicard spiega come l’Occidente possa aiutare il Dalai Lama: “Deve dire chiaramente a Pechino che se non avvierà il dialogo con il Dalai Lama prima dei Giochi Olimpici, atleti e leader politici non parteciperanno alla cerimonia di apertura. Annunciare la propria assenza come semplice gesto di protesta, come ha fatto Angela Merkel, non basta; occorre che ci sia una volontà politica e sarebbe auspicabile una dichiarazione comune dei Paesi europei. Se tutti gli atleti della Ue rifiutassero di sfilare dietro le bandiere nazionali sarebbe uno smacco enorme per il governo cinese che, infatti, teme molto questa eventualità. Secondo Ricard questa è una misura ragionevole e costruttiva, mentre “il boicottaggio delle Olimpiadi sarebbe inutile».
Sono d’accordo con lui e rilancio la sua proposta ai tanti italiani che in questi giorni si chiedono cosa si possa fare di concreto per aiutare i tibetani. Mi rivolgo soprattutto ai blogger invitandoli a riprendere e a diffondere la richiesta di Ricard. Il passaparola su Internet ha già fatto miracoli, perché non riprovarci?

da:http://blog.ilgiornale.it/foa

ANCHE QUESTO E' PEACEKEEPING

venerdì 4 aprile 2008

martedì 1 aprile 2008

Letto da Lisistrata


IL VIDEO FITNA SI STA DIFFONDENDO
Pubblicato il 29/03/08 alle 20:47:56 GMT da Admin

Non ci siamo fermati, il video si sta diffondendo in tutto il mondo, proprio come accadde con quello di Van Gogh. Se lo pubblicheremo tutti non riusciranno a fermarci. Noi metteremo un programma nuovo per poterlo mettere in rete e ve lo offriremo da scaricare per metterlo sul vostro sito.
Vedetevi intanto questi due, su Gates of Vienna
e il primo che avete visto: http://www.bivouac-id.com/
e leggete l'articolo di Gates of Vienna A Rosetta Stone for “Fitna”: Part Two
NON CI FERMEREMO, NON CI FERMERANNO!!! AGGIORNAMENTO: LO STIAMO TRADUCENDO CON SOTTOTITOLI IN ITALIANO, POI LO METTIAMO IN RETE. GRAZIE

http://www.lisistrata.com/cgi-bin/tgfhydrdeswqenhgty/index.cgi?action=viewnews&id=2961

Iceberg

Sulla newsletter n. 66 dell’agenzia SviPop, a proposito dell’iceberg staccatosi dall’Antartide in questi giorni e riportato con enfasi in tutti i media come effetto del «riscaldamento globale», Riccardo Cascioli ha scritto: «Problema: se un iceberg alla deriva è lungo 41 km e largo 2,4 km, quale sarà la sua superficie?». Risposta (da elementari): 98,4 km. Bene. Allora perché «tutti i giornali» hanno parlato di 405 kmq? Risposta: «Tanti giornalisti, dimentichi delle regole base del mestiere, non verificano più le notizie. Così basta che il primo traduca male dall’inglese una notizia e tutti ripetono l’errore all’infinito. In effetti, nella notizia originale che arriva dall’University of Colorado's National Snow and Ice Data Center, i 405 kmq non si riferiscono alla superficie dell’iceberg ma alla superficie totale del Wilkins Ice Shelf disintegratasi come conseguenza del distacco dell’iceberg». Ora, se i giornali hanno riportato tutti i numeri menzionati qui sopra, vuol dire che non ci si è presi neanche la briga di verificare la moltiplicazione 41 x 2,4. E che, anche, ormai «la stragrande maggioranza dei lettori beve tutto quello che legge e vede, senza neanche più porsi delle domande». Ma c’è di più. In Antartide si è alla fine dell’estate e la formazione di iceberg è normale (nel 2000 se ne staccò uno di 11mila kmq; nel 1956 addirittura uno di 31mila). Gli iceberg si formano quando il ghiaccio è in aumento, non il contrario. Cascioli: «Già, ma allora bisognerebbe anche ammettere che l’iceberg con il riscaldamento globale non c’entra niente. E allora addio soldi a chi – scienziati, giornalisti e politici - sugli allarmismi ci campa». Un’ultima cosa (che devo alla stessa agenzia) se il c.d. riscaldamento globale è un allarme del Terzo Millennio, cosa ci faceva nel 1912 al largo di New York (che è alla stessa latitudine di Napoli) l’iceberg che nel 1912 affondò il Titanic?