lunedì 21 aprile 2008

DA RAMMENTARE


Vorrei saper isolare la Scorta in questa foto, ma, dato ciò che scrive sopporterò anche Violante.

21/4/2008 (7:25) - RETROSCENA
Nell'Afghanistan che cambia
dove le donne osano sorridere
Violante con la «scorta» che lo ha accompagnato a Kabul

Con i soldati italiani tra ospedali, scuole e centri che insegnano un nuovo lavoro
LUCIANO VIOLANTE
Sono stato a Kabul su invito del Parlamento afghano. Ho avuto interessanti appuntamenti politici. Ma ho approfittato della cortesia e del prestigio dell'ambasciatore italiano per capire di più. Quattro giorni vorticosi di incontri, colloqui, visite in una città a 1800 metri di altezza, circondata da montagne, fangosa quando piove, polverosa con il sole. La scorta è dei carabinieri del Tuscania; simpatici, attenti e riservati. Il lavoro degli italiani va dalla sanità alla ristrutturazione, dalla giustizia alla formazione professionale, dalla sicurezza all'istruzione. Ci spostiamo su Toyota blindate e senza targa, per evitare il riconoscimento. Molte macchine hanno il Jamming, un'antenna che intercetta eventuali segnali mandati da un telefono cellulare per far esplodere un ordigno al passaggio del mezzo. Fuori Kabul si viaggia su blindati che hanno sul cofano una specie di grande braccio metallico. Serve a tranciare i fili metallici tesi sulla strada, all'altezza del militare che sporge dalla torretta, per tagliargli la testa. Nei film western era una corda che faceva cadere gli inseguitori. Qui gli effetti sono mortali.

L'Afghanistan è uno dei Paesi più minati del mondo. Per capire i danni bisogna entrare nell'ospedale ortopedico diretto dal dottor Cairo. Pieno di braccia, mani, piedi, gambe artificiali. Si fabbricano e si applicano arti di ogni tipo. Tutto il personale è afghano, a sua volta colpito da un'esplosione. Se a un handicappato di avvicina uno come lui, che aveva lo stesso problema e ha trovato un rimedio, è più facile il reinserimento, spiega Cairo. Molti sembrano perfettamente normali e poi, sorridendo, mostrano la protesi.

L'ospedale Esteqlal, un grande complesso pubblico di Kabul, ha anche un consultorio familiare. Ogni giorno si recano, in media, 50 donne e 10 uomini. Su una parete, alcuni pannelli molto semplici illustrano le più comuni tecniche contraccettive: come e quando si prende la pillola, come si indossa un preservativo, come si mette il diaframma. Tutto gratis, anche i preservativi che in farmacia hanno un costo inaccessibile. E' diretto dal dottor Oryakhil che ha studiato in Italia; mi spiega che il tasso di fertilità delle donne afghane è di circa 6 figli ciascuna.

Nel reparto ostetricia incontriamo un gruppo di donne, medici e infermiere. Chiedo quale è la maggiore difficoltà. «The husband», il marito, mi rispondono ridendo. Nel cortile sostano decine di donne, molte avvolte nel burqa azzurro. Sono sedute per terra, secondo l'abitudine afghana; parlano fitto tra loro. Hanno molti bambini con sé. I piccoli a Kabul sono silenziosi e sorridono spesso. Abituati ad una vita dura, non conoscono il capriccio. Nell'ospedale di Emergency, ordinato come una clinica di Zurigo, avevo notato un bambino con il viso sfigurato da una mina, e una mano lacerata sino all'avambraccio e ricucita, che faceva esercizi di rieducazione muovendo le dita della mano lacerata con l'altra mano. Soffriva molto, ma continuava imperterrito.

Il dr. Oryakhil mi mostra un padiglione in costruzione. E' per le donne vittima di grandi ustioni. Molte ragazze si bruciano perché non vogliono sposare l'uomo scelto dal padre, che spesso è un vecchio. Se si bruciano, l'uomo non le vorrà più. Per ignoranza non sanno a quali sofferenze vanno incontro. La cooperazione italiana fa molto per questo ospedale. Tutti ci sono grati. Quando usciamo, Oryakhil mi mostra la sala mensa per i dipendenti. Gli uomini, medici e infermieri, non volevano stare nella stessa stanza dove c'erano le colleghe e mangiavano in una stanza comunicante, chiusa da una porta. Oryakhil ha fatto portar via la porta e ora lentamente la segregazione sta finendo.

«Il giardino delle donne» è un grande spazio, chiuso da un muro, dove le madri possono passeggiare con i loro bambini. La cooperazione italiana ha ristrutturato alcuni locali e segue progetti per le donne. In una stanza, circa quindici ragazze montano lampade ad energia solare. Me le mostrano orgogliose. Questo lavoro permette loro di guadagnare più dei mariti. Meno bene è andato invece l'esperimento che riguarda la riparazione dei telefoni cellulari; è difficile da Kabul star dietro alle innovazioni della Nokia. Invece va bene il lavoro di taglio delle pietre preziose, lapislazzuli, ametiste, quarzi e agate. Sono impegnate 13 donne che provengono da un quartiere disagiato della periferia di Kabul.

Sono le più disponibili a parlare, ad illustrare il lavoro che fanno, le sconfitte (un commerciante ha promesso del lavoro e poi è scomparso) e le vittorie. Alcune si sono specializzate in Italia. In una piccola stanza piena di luce, giocano i figli delle donne che lavorano; se non li portassero con sé, i mariti non le lascerebbero uscire. La mattinata è luminosa. Il giorno precedente è stato molto freddo e le montagne attorno a Kabul sono bianche di neve.

I segni delle distruzioni sono lontani. Forse le donne hanno ragione: il problema dell'Afghanistan sono gli uomini. Quando incontro i nostri militari a Kabul ed Herat, mi vengono in mente, per contrasto, le sofisticherie parlamentari sulla missione. Guardo i visi puliti dei giovani; mi colpisce l'aria responsabile degli ufficiali. Noi italiani garantiamo la sicurezza, distribuiamo viveri e attrezzature; curiamo le persone; i veterinari curano le bestie ammalate, unico mezzo di sopravvivenza per moltissime famiglie dei villaggi. Siamo anche nella valle di Surobi, rifiutata dai turchi perché troppo pericolosa. Non abbiamo bombardato; abbiamo consegnato viveri, curato la popolazione, attrezzato un ospedale. I militari italiani hanno scoperto, grazie alla fiducia nata da queste attività, 40 depositi d'armi in pochi giorni, più che in tutto il 2007. Forse è così che si esporta la democrazia.

Capisco che stare in Afghanistan corrisponde all'interesse nazionale. Se vincessero i talebani e i loro alleati, l'intera regione sarebbe destabilizzata e l'Italia, con tutto l'Occidente, correrebbe rischi gravissimi. Se i talebani fossero sconfitti senza di noi, avremmo perso qualsiasi legittimazione a sedere ad un tavolo internazionale.

Mentre torniamo verso l'aeroporto, chiedo all'ufficiale che è seduto accanto a me quanti erano i russi in Afghanistan al tempo dell'occupazione. Erano 108.000 e sono stati sconfitti. Le truppe occidentali sono complessivamente 40.000, quanto in Kosovo, che è grande come l'Abruzzo, mentre l'Afghanistan è il doppio dell'Italia. Non ha torto il segretario generale della Nato quando chiede un maggior impegno. I problemi sono tanti. Ma ci sono anche i risultati: sette milioni di studenti sono tornati a scuola e il 38% sono ragazze; la mortalità infantile regredisce; la gente comincia a difendere le scuole che i talebani vogliono distruggere. Sulla strada incrociamo una donna con il burqa, che guida un ciclomotore. Mi sembra un segno delle contraddizioni di questo Paese e della faticosa fiducia che possiamo nutrire nel suo futuro

http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200804articoli/32094girata.asp

3 commenti:

Crystal ha detto...

Seppur scritto da Violante dà l'idea di quanto buon lavoro hanno fatto i ragazzi italiani in Afganistan e di quanto onore abbiano fatto all'Italia.
Guardando le foto della scorta vien da pensare che lì in mezzo potrebbe esserci qualcuno che conosciamo e a lui mandiamo il nostro affettuoso saluto

Crystal ha detto...

Mi accorgo che ho usato la prima persona plurale ma non è il plurale maiestatis, è che scrivendo parlavo anche a nome di Ambra

ambra ha detto...

Non ci sono più gli sciocchi che possono fraintendere.