domenica 16 agosto 2009

DA CONSERVARE, LEGGERE E RILEGGERE (click)


Sia maledetta la nostalgia ma la nuova Destra dove è andata a finire?

di Pietrangelo Buttafuoco

Caro Giornale,
forse la questione posta da Angelo Mellone è questa: gli intellettuali di destra - identificati in quanto tali in un gruppetto di persone incolpevoli (Marcello Veneziani, Marco Tarchi, Alessandro Giuli e Stenio Solinas) - sono indietro rispetto alla destra che, al contrario, è al governo, decide e determina il cambiamento. E gode di smagliante consenso.

A parte il fatto che lo smagliante consenso se lo gode, a buon ragione, il Cavaliere - vorrei proprio vedere, infatti, senza Silvio Berlusconi, che cosa resterà del Popolo della Libertà - se la questione posta da Mellone è quella di capire perché mai tutte le brave persone sopraindicate non se la vogliono vivere l’attuale stagione, è argomento già raccontato. Torna ogni estate, le raccolte de il Giornale possono testimoniarlo. Ma visto che sono stato preso di striscio da Mellone, e visto che a differenza degli altri io posso vantare la colpevolezza di una militanza di partito, una cosa vorrei dirla, ma così, raccontando due episodi.

Fatto è che qualche mese fa ho incontrato per strada Fabio Granata, tra i consigliori di Gianfranco Fini, che a un certo punto, tra i nostri abbracci, mi ha chiesto: «Ma si può sapere perché ce l’hai così tanto con Fini?». Fermi tutti. Ci penso, non mi pare di avercela con il presidente della Camera, anzi, fa sempre di più un figurone. Immediatamente però, mi si accende un lampo: «Altro che. Ha preso un milione e mezzo di italiani, gli elettori del Msi, tutta gente per bene, quelli ai quali lui ha preso tutto per diventare quello che è, e li ha fatti tutti assassini. Se domani i miei figli dovranno vergognarsi di me - io che ho l’orgoglio di essere figlio di mio padre, figlio come sono di una famiglia, “Buttafuoco”, che coincide con la storia del Msi - dovrò ringraziare il signor Fini. Ha trascinato perfino Giorgio Almirante nella condanna». Ho detto questo, dopo di che me ne sono tornato nel mio brodo, io che non sono mai stato almirantiano, né finiano, né seguace del Fascismo del 2000, io che aborro le idee-cadavere - come d’altronde Granata che era come me, un ragazzo dei Campi Hobbit - io che stavo con Beppe Niccolai, l’eretico del socialismo tricolore, ho chiuso i conti con la politica anni e anni fa, quando la destra, prossima allo sdoganamento, chiudeva la propria stagione d’isolamento per incontrare finalmente Silvio Berlusconi.
Buon per loro, buon per tutti. Berlusconi è un campione della modernità che ha incontrato nel suo cammino il popolo della destra. Una casualità più che una strategia. Un ingrediente del piatto forte del populismo, ma resta il fatto che quel milione e mezzo d’italiani, malgrado le speranze parricide, è ancora un magma vivo fatto di storie, contatti, libri, amicizie e miti. Un magma che non c’entra niente con l’eredità maligna della sopraffazione, della tirannia o - peggio - dell’antigiudaismo criminale. L’apparato del nostalgismo - piuttosto - servì più alla destra che va avanti che alla grande stagione dell’eresia. Quando finalmente Marcello Veneziani può firmare in prima pagina un magnifico pezzo sul Corriere della Sera, possiamo esserne orgogliosi e felici perché in via Solferino, a fare finalmente una crepa sul muro del conformismo, Veneziani non ci arriva prostituendosi con qualche vaga formula tipo «l’antifascismo è un valore», o un atto di presenza presso i sacrari della democrazia, ma trascinandosi la ola di quelle storie, di quei contatti, di quei libri e di quei miti. Non è vero che rinunciando alla propria identità si guadagna consenso, è vero il contrario: si perde e si risulta patetici più che comici. Quanto meno esteticamente (abbiate cura almeno di toglierli i Ray-Ban quando assistete compunti alle commemorazioni delle Fosse Ardeatine: il tacco a punta e il trench da picchiatori in disarmo vi fanno capolino dalla faccia).

E sia maledetta la nostalgia. Quando si citano a sproposito i nomi, si dimentica che Marco Tarchi, facciamo l’esempio più importante, fu espulso dal partito per garantire la sopravvivenza a una cerchia la cui ragione sociale era speculare alla nostalgia post-fascista e fascistoide di tanti poveri citrulli in buona fede. E la cerchia, quella in mala fede, stava appollaiata tutta sugli occhiali di Gianfranco Fini.

C’era una volta quel partito, adesso non c’è più anche perché molti di loro, tra i migliori, andando a Varese e a Verona, li trovate con la Lega. In Sicilia stanno con Raffaele Lombardo, nel partito dell’Autonomia. E fanno bene. Fanno politica. E fanno benissimo i ragazzi di Casa Pound.

C’era una volta quel partito ed è rimasto tutto - che Dio lo benedica - nella sim di Maurizio Gasparri, l’unico vero erede di quel patrimonio perché vedi, caro Giornale, solo il mio compare (ho battezzato Gaia, la figlia di Maurizio e Amina) ha la dignità di rispettare quel mondo chiamandolo per nome e cognome. In ogni angolo d’Italia ognuno di loro, chiamando Gasparri, può trovare ascolto. E lui trova sempre qualcuno dappertutto. Qualche giorno fa sono andato a fargli visita e l’ho trovato concentrato a disegnare tanti cerchi concentrici su un foglio: «Vedi, compare? Siamo al governo, è vero, però una cosa deve essere chiara nei rapporti con il mondo a noi esterno. Nel primo cerchio, quello più importante, ci stanno i missini cromosomici, e nessuno me li deve toccare. Quindi i missini semplici, poi quelli del Msi-Dn che già sono una degenerazione con quel Dn e dopo si arriva ad An che è quella che è. Dopo ancora, arriva il Pdl che per fortuna ha il Cavaliere ad evitare che si facciano danni. Ecco, dal primo cerchio all’ultimo non c’è nulla che si possa cancellare». Quelli del primo cerchio sarebbero gli italiani di serie B secondo lo schema tanto caro alla cosiddetta destra che va avanti. Si salvano grazie ad una sim.

Giusto, caro Giornale, dovevo prendere parte al dibattito sollevato da Mellone, e ho parlato d’altro. Ma gli voglio dare ragione: personalmente sono indietro rispetto alla destra che va avanti. È vero: mi fanno pena le idee-cadavere. Per questo stavo con Niccolai, alla larga dal Fascismo del 2000 di Gianfranco Fini. E ancora di più mi fanno schifo le idee-ridicole. Per questo non so fare dibattito. E sempre viva la sim di Gasparri.

giovedì 13 agosto 2009

ORIANA FALLACI



Ecco il paesino dove Oriana vide la Madonna
Oriana Fallaci
Pubblicato il giorno: 13/08/09
FALLACI

A Longiano ora viveva di nuovo coi De Carli che impietositi se l’eran ripresa per tenerla come bambinaia del secondogenito Vincenzo e della settimogenita Olinda. Ci viveva da fervente cattolica e tutto contribuiva a renderla tale. Lo zelo religioso di quella famiglia. La presenza d’un santuario anzi d’un Cristo che portava lo stesso nome dell’ospizio, Santissimo Crocifisso, e che i longianesi veneravano perché nel 1493 una giovenca destinata alla mensa dei frati s’era inginocchiata sulle zampe anteriori dinanzi alla sacra immagine [...]. E, soprattutto, la casa di via Santa Maria 25. I De Carli abitavano infatti accanto alla minuscola chiesa eretta tre secoli addietro per custodire un altro oggetto sensazionale: l’icona della Vergine che nel 1506 aveva versato una dozzina (...)

(...) di lacrime e che per via di ciò chiamavano Madonna delle Lacrime. Questo le consentiva di andare alla Messa ogni giorno [...]. Le piaceva tanto, la Madonna delle Lacrime. Aveva due belle guance paffute, indossava una bella veste cremisi e trapunta di stelle, col braccio destro reggeva un bel bambolotto che probabilmente era il Bambin Gesù, e dal suo volto mesto emanava una dolcezza così intensa che i Salve Regina si concludevano sempre con un sospiro.

«Ah, se mia madre ti assomigliasse!».

[...] L’infelice madre avrebbe fatto meglio a tornare in California e mettersi l’animo in pace. Oppure accontentarsi di vederla e basta. Tanto per vederla e basta non c’era che da recarsi a Longiano e infilarsi nella chiesina attigua alla casa di via Santa Maria 25 [...]. Vi si recò una domenica di fine novembre, zitta zitta e ben attenta a passare inosservata [...]. Vi andò all’ora del Vespro cioè a buio, rassegnata a seguire il consiglio e in preda a una paura mai provata nella sua vita senza paura. Con gambe tremanti varcò la soglia della minuscola chiesa, sedette sulla panca dell’ultima fila. La fila presso la porta. Con pupille inquiete scrutò nella penombra appena rischiarata dai ceri e dalle candele, cercò la figlia della quale ignorava persino il colore dei capelli. E non trovò nessuno. Il parroco non aveva ancora suonato le campane della sera e le panche erano vuote. Era vuoto anche il confessionale, il presbiterio, l’altare sopra il quale spiccavano l’icona d’una mesta Madonna avvolta in un manto cremisi e adorno di stelle [...]. A un certo punto, tuttavia, si rese conto di non essere sola. Frugò di nuovo nel riverbero dei ceri, delle candele, e sì: c’era qualcun altro a trenta metri da lei cioè nella prima panca. Una vecchietta, no, una ragazzetta che in ginocchio e rivolta alla mesta Madonna pregava».

Nel borgo di Romagna dove Oriana vide la Madonna

Caterina Maniaci
Pubblicato il giorno: 13/08/09
L’icona descritta nell’ultimo romanzo

Una Madonna «paffuta» e «malinconica», nella nicchia del presbiterio di una piccola chiesa quasi nascosta nelle viuzze tortuose di Longiano, un paese in provincia di Cesena, annidato nell’Appennino romagnolo. È questa immagine della Madre di Dio che Oriana Fallaci dimostra di aver visitato, più e più volte, quando già pensava al grande romanzo in cui avrebbe raccontato le radici remote della sua famiglia, le numerose storie che, intrecciandosi, hanno formato un grande affresco su cui si è stagliata la sua vicenda personale e di scrittrice.

L’antenata Giacoma

Quel romanzo è diventato il suo ultimo e postumo libro, “Un cappello pieno di ciliege” (Rizzoli) e non a caso in esso si ritrovano citazioni e descrizioni minuziose (sei per l’esattezza) della splendida icona di questa Madonna delle Lacrime - così come è da secoli conosciuta e venerata - nella omonima chiesa.

All’ombra della Vergine si dipana la dolorosa vicenda di Giacoma Ferrieri, una sua antenata, figlia illegittima e depositata di nascosto alla Ruota (il luogo in cui i bambini non desiderati venivano abbandonati). La madre naturale, «bella e bionda», va a cercare, dopo tanti anni e dopo mille peripezie, proprio nella chiesetta di Longiano, quella figlia non voluta, alla luce dei lumini che chiedono le grazie a questa misteriosa e pietosa Madonna che conosce i tanti dolori segreti della gente umile. Fin da quando, in una fredda sera del 2 marzo 1506, questa immagine lacrimò nella casa di Sebastiano Barberi. Si gridò al miracolo e il Barberi non esitò a concedere la propria casa con l’icona perché al suo posto fosse costruita una chiesa in onore della Vergine. Citato dalla Fallaci anche il Santuario del Santissimo Crocefisso, altro luogo amato da Giacoma.

La tenerezza con cui la Fallaci tratteggia la Madonna delle Lacrime è una sorta di filo tenue che percorre le molte pagine del romanzo, una fragile testimonianza del sentimento particolare che la grande Oriana ha sempre nutrito verso la religione. Una professione onesta, aperta, di ateismo, fino alle stesse prime frasi del Prologo di “Un cappello pieno di ciliege”, quando ammette che, assillata dall’eterno interrogativo sul perché della propria esistenza, si dichiara consapevole del fatto che «la sua risposta apparteneva all’enigma chiamato Vita, che per fingere di trovarla avrei dovuto ricorrere all’idea di Dio. Espediente mai capito e mai accettato». Posizione chiara, dunque. Ma il sentimento profondo di appartenenza a una cultura intrinsecamente cristiana, anzi cattolica, non l’ha mai abbandonata, e negli ultimi suoi potenti pamphlet ne ha fatto una orgogliosa bandiera.

Il suo orizzonte interiore era popolato dei mille campanili, della moltitudine di chiese, pievi, santuari della sua Toscana e dell’intera Italia, e la sua memoria intessuta dei volti di Madonne e Bambini Gesù, come quella che aveva visto a Longiano e che appunto descrive - con gli occhi della sua ava lontana - con le «due belle guance paffute» e «la bella veste cremisi e trapunta di stelle», mentre «col braccio destro reggeva un bel bambolotto che probabilmente era il Bambin Gesù, e dal suo volto mesto emanava una dolcezza così intensa».

L’intero paese di Longiano, d’altronde, si è conquistato un posto di rilievo nella vasta geografia “dell’anima” della scrittrice. Ed è un paese delle meraviglie, perché, nel suo cerchio ristretto di case, vie, chiese e giardini, sono successe, e continuano a succedere molte cose. A Longiano fece la sua comparsa anche la Banda del Passatore, il mitico Robin Hood della Romagna, prendendo di mira il palazzo Vicini, il 28 maggio 1850: c’è ancora un foro sul portone, a testimonianza dell’assalto.

Il castello di Byron

In mezzo alle colline, a pochi chilometri dal paese, c’è il castello di Monteleone. Vi si riunivano i carbonari, protorisorgimentali italiani. Il nobile Alessandro Guiccioli voleva introdurre alla carboneria l’amico inglese lord Byron. Il quale, però, era più interessato, oltre che alla poesia, alla moglie del Guiccioli, la contessa Teresa Gamba. I due passeggiavano spesso lungo i vali del parco del castello e pare che il poeta non facesse fatica a convincere la contessa a seguirlo nella torretta solitaria in fondo al parco, dalla quale riemergevano dopo qualche ora.

Su tutto questo, una volta all’anno, si effonde la nostalgica musica degli organetti di strada: a metà settembre si svolge il Festival dell’Antico Organetto. Per due giorni nel borgo una musica antica trasporterà tutti indietro nel tempo, i suonatori saranno per vie e piazze con i loro scatolotti a manovella portati a tracolla, su un carretto o sulla groppa di un mulo. Sarebbe facile, allora, incontrare il fantasma dell’ava Giacoma, su cui Oriana Fallaci aveva fantasticato, all’ombra della chiesa della Madonna delle Lacrime.

mercoledì 12 agosto 2009

Eroine della libertà

Isabella Bossi Fedrigotti : " Quelle solitarie eroine dei diritti umani che hanno imparato a non arrendersi "

Neda

Tre, quattro, cinque, sei donne non fanno primavera e tantome­no storia. Ed è anche possibile che le loro vicende abbiano maggiore risonanza e maggiore effetto mediatico per il semplice fatto di essere appunto donne, giovani donne per lo più, dunque forse più commoven­ti, forse anche più fotogeniche. Resta pe­rò il fatto che al momen­to sembrano solitarie e audaci eroine dei diritti umani.
Eroine perché alcune tra loro sono già morte, mentre altre hanno ri­schiato o ancora rischia­no. Solitarie perché tali in effetti appaiono, avan­guardie femminili senza molti compagni di stra­da.
Sono Aung San Suu Kyi, la fragile signora bir­mana in lotta senza armi contro il regime dei gene­rali, che da più di vent’an­ni passa dal carcere agli arresti domiciliari e vice­versa, ora di nuovo con­dannata a diciotto mesi di prigione per essere stata, qualche mese fa, raggiunta a nuoto nel suo domicilio co­atto da un non invitato pacifista america­no.
Poi Anna Politkovskaya, forse la più tra­gica in quanto aveva previsto la sua morte e la temeva senza tuttavia per questo smettere di denunciare soprusi e violenze in Cecenia; e come lei, attivista dei diritti umani, Nataliya Estemirova, rapita e ucci­sa
un mese fa in Cecenia, a lungo minac­ciata, poi massacrata e abbandonata sul ci­glio di una strada. E così è stata trovata ieri mattina Zarema Sadulayeva, direttri­ce di un’organizzazione non governativa che si occupa di giovani, rapita e uccisa con il marito.
A loro si aggiungono le eroine della re­sistenza iraniana, eroine per caso, forse,
nel senso che potrebbero essersi ritrovate in un gioco più grande di loro, ma non certo coraggiose per caso. Hanno — que­ste numerose audaci senza nome - il bel volto indimenticabile di Neda, scesa in strada a manifestare contro i brogli eletto­rali e ammazzata da un proiettile delle for­ze di sicurezza, nonché quello altrettanto bello, ma incredulo e spaurito di Clotilde Reiss, la giovane ricercatrice universitaria francese accusata, a causa di una email, di aver tramato contro il regime e costretta in tribunale a «confessare» le sue colpe per le quali rischia l’impiccagione.
Perché tante donne? Prima di tutto, è probabilmente questa una conseguenza della battaglia per la parità femminile. Speciale parità, forse nemmeno contem­plata come un obiettivo consapevole, che si rivela tuttavia spinta inevitabile e che, eviden­temente, non riguarda soltanto l’evoluto Occi­dente ma anche — sia pu­re in forma molto meno visibile e compiuta, a vol­te, anzi, del tutto segreta — l’emisfero delle fem­mine sottomesse per abi­tudine, per religione e per costume atavico.
La parità — mescolata al fatto che la pasionara infuocata, la suffragetta, è sempre stata donna, al punto che i corrispettivi termini maschili nemme­no esistono — fa nascere queste nuove eroine di­sposte a sacrificare la vi­ta in difesa della giusti­zia, in nome di un principio o, soprattut­to, per tutelare i più deboli.
E poi bisogna forse aggiungere — per comprendere il loro sprezzo del pericolo — la percezione di sé che per lungo tem­po è stata concessa alle donne: piuttosto di innocua figura di secondo piano che non di nemico da temere, da combattere e abbattere.

sabato 8 agosto 2009

Morte da cani

Igor Argamakow, Morte da cani. Piccola storia stalinista,
il Mulino, Bologna 2000,
ISBN-13: 9788815077707, pp. 160, € 10,33
Argamakov Argamante (a cura di), Archivio KGB di Vilnius (Ltsr). Dossier N° 51879, con una introduzione di Alberto Gasparini, Isig. Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia, Gorizia 2003
La memoria è il punto più debole dei russi, soprattutto la memoria del male» (1). Il «rifiuto» di ricordare, specialmente il male, che Aleksandr Solženicyn attribuisce al popolo russo quasi come una caratteristica psicologica propria, ha avuto qualche eccezione.
Anzitutto, lo stesso Solženicyn, che, con Arcipelago Gulag, ha voluto preservare dall’oblio – pur avendo potuto «vedere […] soltanto da una feritoia» (2) –, se non il nome, almeno la sofferenza – e la causa di essa –, dei milioni e milioni – sessantasei, secondo il professore di statistica Ivan Kurganov (3) – di persone rinchiuse e sterminate nei campi di concentramento del sistema comunista sovietico. Nei quali la fame, il freddo, le vessazioni, il lavoro forzato in condizioni estreme e le malattie svolgevano il ruolo che nei Lager nazionalsocialisti era affidato al gas. E con Solženicyn hanno vinto la fobia per il ricordo del male anche uomini come Varlam Tichonovič Šalamov (1907-1982), con I racconti di Kolyma (4), nei quali, secondo lo stesso Solženicyn, «il lettore avvertirà più esattamente lo spirito spietato dell’Arcipelago e il limite della disperazione umana» (5), e coloro che oggi, nella Federazione Russa, con l’associazione Memorial (6), si sforzano di conservare la memoria delle vittime del comunismo nell’impero sovietico.

Ma la «dimenticanza» delle vittime del comunismo non è stata – e non è – conseguenza soltanto di una – reale o pretesa che sia – connotazione psicologica del popolo russo. Essa ha avuto una dimensione così universale da poter essere considerata un fenomeno ben più complesso, che ha molte cause. Non ultime tra le quali, la percezione da parte di neo- e vetero-illuministi e progressisti che il comunismo faccia parte dell’«album di famiglia», e l’egemonia culturale, e sui mezzi di diffusione e divulgazione del pensiero e delle immagini, conquistata gramscianamente dai comunisti, dove più, dove meno, in tutto il mondo. Lo studioso francese Alain Besançon ha parlato di «amnesia» – che diventa «amnistia»– per le vittime e per i crimini del comunismo, e di «ipermnesia» per le vittime e i crimini del nazionalsocialismo (7). Si può dire che, se a tutti è stata riservata una «morte da cani», gli uni sono stati anche dimenticati come cani, gli altri, almeno, sono stati e sono ricordati come uomini.
* * *
E proprio Morte da cani (8) s’intitola l’opera d’esordio di un altro russo, che non ha paura di ricordare e di far ricordare, Igor Argamante (italianizzazione dell’originario Argamakow). Nato a Vilnius – allora non capitale della Lituania, ma città polacca con il nome Wilno –, poi naturalizzato italiano e in Italia da sessant’anni, già dirigente industriale della Olivetti e console onorario della Repubblica del Sudafrica a Trieste, Argamante, finalmente in pensione, si è potuto dedicare nella sua piccola patria d’elezione triestina agli studi storici.
E tra le tante storie delle vittime del Novecento, il «secolo del male» di Besançon, egli ha scelto quella di un «uomo qualunque», quella di suo padre, Aleksej Aleksandrovič Argamakow. Un uomo come tanti, che viveva a Wilno. Un uomo che, giŕ sfuggito al tritacarne del golpe dell’Ottobre e della Guerra fra eserciti «bianchi» e «rossi» che ne era seguita, dai fragili confini della Polonia si sentiva protetto. Almeno finché non aveva capito che, con lo scellerato patto «rosso-bruno», più noto come «Molotov-Ribbentrop», si stava organizzando, per lui, come per altre centinaia di migliaia di piccoli e grandi uomini (ma quale uomo è davvero «piccolo»?), fra i quali le vittime di Katyn del 1940, un viaggio.
Un viaggio «in luogo d’ogni luce muto» (9), in quell’inferno storico che era il comunismo realizzato, e dell’inferno nel cerchio più profondo: il GULag, precisamente il KARlag, in Kazachstan. Un viaggio senza ritorno. La sua colpa? Esistere, appartenendo a una classe – nel suo caso la piccola nobiltà – che lo «Stato giardiniere», come lo chiama Zygmunt Bauman (10), rubrica fra le erbacce da estirpare per bonificare la società e trasformarla nel giardino «edenico» prospettato dall’utopia socialcomunista. Gli ultimi brandelli della vita di Aleksej Aleksandrovič Argamakow, finché letteralmente sparisce nell’abisso del GULag, vengono riassunti in una pratica, la n. 51879, istruita dall’Nkvd e conservata «permanentemente» negli archivi del Kgb lituano, «aperti» e messi a disposizione dei ricercatori quando la Lituania ha conquistato la sua indipendenza. Così, Igor Argamante ha potuto ottenere una copia del dossier.
Da quelle aride e demoniache carte, e dai ricordi personali e di famiglia, ricava Morte da cani.Storia amara e triste di un calvario, una «cronaca familiare» temperata dalla tenerezza con la quale l’autore osserva il suo personaggio, che sottrae per sempre all’oblio per farne un esempio incarnato dell’esito anti-umano dell’utopia comunista. Argamante segue con ovvio e trasparente affetto suo padre, e ne vien fuori un’opera che, per il nitore dello stile, la vivacità del racconto, il sarcasmo e la pietà che ne intridono le pagine, l’inesorabile giudizio di condanna del comunismo e dei suoi volenterosi e meschini carnefici, merita d’essere divorata d’un fiato.
* * *
Ultimamente, Argamante è riuscito a pubblicare la traduzione integrale, da lui curata e commentata, del dossier, con il titolo Archivio KGB di Vilnius (Ltsr). Dossier N° 51879, edito dall’Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia () alla fine del 2003 (11).
Egli così mette a disposizione dei lettori e degli studiosi un documento unico: per la prima volta tutti gli atti di una… Come chiamarla? «Istruttoria»? Ma manca il giudice. «Indagine preliminare»? Ma oltre al giudice, manca pure il pubblico ministero. Meglio allora chiamarla «inchiesta di polizia». Attraverso di essa si perveniva alla consegna del perseguito (meglio «perseguitato»?) o al tribunale militare – che avrebbe applicato la misura suprema di «difesa sociale», qualche grammo di piombo sparato nella nuca –, ovvero all’Oso. La sigla è l’acronimo di Osoboje SOveščanie, «Consiglio Speciale» presso la polizia politica (allora l’Nkvd), composto da un membro di questa, da uno della procura e da uno del comitato centrale del partito comunista. Si trattava di un organo che con un tratto di penna (letteralmente) consegnava il malcapitato al sistema di rieducazione sovietico, all’«arcipelago GULag» (12), con provvedimento amministrativo, quindi non motivato. La durata della rieducazione mediante il lavoro forzato di Argamakow fu fissata in otto anni, comunque prorogabili, se il soggetto si fosse mostrato tardo a comprendere la lezione, fino a venticinque, sempre con un tratto di penna e senza dover motivare: la stessa misura che, solo quattro anni dopo, fu riservata a Solženicyn.
* * *
Il volume, dopo una premessa del curatore – lo stesso Argamante – (p. 5), si apre con una introduzione del professor Alberto Gasparini, dell’Università di Trieste e direttore dell’Isig, intitolata puntualmente Dossier n. 51879. Dove si descrivono i modi di mantenere la rivoluzione (pp. 7-16).
In essa, con sintesi felice, egli coglie il carattere di «utopia violenta» della Rivoluzione. L’espressione rimanda ai «coercitive utopians»,gli «utopisti coercitivi», di Rael Jean Isaac e Erich Isaac (13), che «[…] sono sempre stati poco inclini ad accettare la natura umana, ecco perché i loro sogni non si sono mai potuti realizzare senza violenza […]. L’errore fondamentale consiste nella credenza antiscientifica e disumana che l’uomo sia malleabile all’ infinito e che, alle “giuste” condizioni sociali, sia “perfettibile”, ovvero possa essere cambiato nel senso che piace a loro. Di conseguenza essi non ammettono che le istituzioni base che la nostra civiltà ha sviluppato nel corso dei millenni riflettano i caratteri essenziali della natura umana. La proprietà privata, la famiglia, la religione e la nazione, tutte insieme e separatamente, sono state sottoposte a continui attacchi negli ultimi due secoli, con risultati inevitabilmente disastrosi. Si è trattato, in definitiva, di una guerra combattuta per due secoli contro l’individuo, i suoi diritti, la sua dignità e la sua sovranità […].
Il comunismo era l’espressione più coerente delle loro aspirazioni» (14).
Il Direttore dell’Isig, quindi, non cade nella trappola terminologica secondo la quale si dovrebbe separare l’idea rivoluzionaria comunista, in sé nobile e giusta, dagli orrori che ne sono derivati, e addebitarli ad un suo preteso tradimento da parte di soggetti deviati e devianti, utilizzando allo scopo come categoria il termine «stalinismo», quasi contrapponendolo a «comunismo». È ormai sufficientemente noto agli studiosi che Josif Vissarionovič Džugasvili, detto «Stalin», (1879-1953) ha semplicemente applicato le leggi ed i sistemi voluti da Vladimir Il’ič Ulianov, detto «Lenin», (1870-1924), senza inventare nulla. Ma è pur vero che ciò è molto meno noto al grande pubblico, non è ancora «luogo comune». Non è cioè di «dominio pubblico» il fatto che, ben prima che Stalin avesse il tempo, il potere e la forza per attuarle compiutamente, era stato Lenin a dare le direttive. «Le masse devono sapere che […] loro compito sarà l’implacabile annientamento del nemico» (29 agosto 1906) (15). «Purgare la terra russa da ogni sorta di insetti nocivi» (Come organizzare la competizione, articolo del 7 e 10 gennaio 1918) (16). «Compagni, la rivolta di cinque distretti di kulaki deve essere repressa spietatamente. […] 1. Impiccare, in modo che il popolo veda, non meno di un centinaio di kulaki noti. […] 3. Prendere loro tutto il grano. 4. Designare gli ostaggi. 5. Attuare un implacabile terrore di massa contro kulaki, pope e guardie bianche; rinchiudere i sospetti in un campo di concentramento fuori della città» (Telegramma del 9 agosto 1918 al Comitato Esecutivo del Partito di Penza) (17). «È ora e soltanto ora, quando nelle regioni affamate la gente mangia carne umana e migliaia di cadaveri coprono le strade, che possiamo (e perciò dobbiamo) procedere alla confisca dei preziosi della Chiesa con la più selvaggia e spietata energia […] senza fermarci dinanzi a nulla. […] sono giunto alla conclusione inequivocabile della necessità di attaccare adesso con la massima decisione e spietatezza i preti […] e vincere la loro resistenza con una brutalità tale che non la dimenticheranno per decenni. Quanto più clero e borghesia reazionari giustizieremo per questo, tanto meglio» (Lettera segreta al Politbjuro del 19 marzo 1922) (18). «Il tribunale non deve eliminare il terrore; prometterlo significherebbe ingannare se stessi o ingannare gli altri; bisogna giustificarlo e legittimarlo sul piano dei principi, chiaramente, senza falsità e senza abbellimenti» (1922) (19).
La risoluzione sui campi di concentramento è del maggio 1918; quella sul «terrore rosso» del 5 settembre 1918; quella sugli ostaggi del 15 febbraio 1919. Gli stessi sistemi sono stati applicati ovunque il comunismo – e non Stalin – abbia conquistato il potere: dalla Spagna del Fronte Popolare (1934-1939), alla Cina; dall’Etiopia del colonnello Hailé Mariam Menghistu, a Cuba; dall’Europa centro-orientale, al Sud Est asiatico, e così via. È un’unica storia di orrore e morte, terrore e miseria. D’altra parte, i «padri fondatori» l’avevano promesso: «I comunisti ricusano di celare le loro opinioni e le loro intenzioni. Dichiarano apertamente che i loro scopi possono attuarsi solo tramite l’abbattimento violento di tutto l’ordinamento sociale sin qui esistente. Le classi dominanti tremino di fronte a una rivoluzione comunista» (20). E se il messaggio non fosse chiaro, viene accuratamente precisato. Si tratta «semplicemente» del fatto che «questa persona [“il proprietario borghese”] senz’altro deve essere abolita» (21). Così Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895) nel Manifesto dei comunisti del 1848. Se pure fosse stato necessario, i fatti, la marxiana «prassi», si sono incaricati di dare l’interpretazione autentica di simili «opinioni» e «intenzioni». Insomma, come ha scritto Vladimir Bukovskij, che più che averlo conosciuto lo ha «saggiato», il socialismo reale «[…] era disumano non perché perseguitava gli uomini […] occupava i paesi limitrofi e minacciava il mondo intero, ma proprio per la ragione opposta: il regime faceva quelle cose perché lui era disumano». Ed era disumano perché «l’ideologia comunista era una fonte di male» (22), o, come dice Solženicyn, «un cancro» (23).
Il professor Gasparini, dunque, nella sua Introduzione spiega bene come la Rivoluzione uccida non per quello che le sue vittime hanno fatto e fanno, e meno che meno per una deviazione psicotica di tipo sadico dei suoi attori. Essa uccide per quello che le persone sono, «pues el delito mayor / del hombre es haber nacido» («poiché il delitto maggiore / dell’uomo è d’essere nato») (24), soprattutto se è nato nella classe, nella razza, nella nazione sbagliate. E perciò gli «utopisti coercitivi», guidati dall’«idea» che ha individuato la causa del male nel mondo – in primo luogo quello stesso Dio che l’ha creato male –, ne organizzano la chirurgica rimozione. Allo scopo, istituiscono, una volta impadronitisi del potere, una burocrazia che trasforma in attività di routine la bonifica sociale e la totale «ricostruzione» («ri-creazione») della Città, per trasformarla in «stampo» dell’Uomo e del Mondo Nuovi, finalmente redenti e per «mille anni» perfetti e paradisiaci. È pertanto il «progetto» stesso, cioè l’ideologia che lo alimenta, fin dalla fondazione, come dichiara apertamente il Manifesto, ad avere la pretesa di aver individuato le categorie – che per i comunisti sono di tipo sociale e religioso-culturale, per altri anche etnico-razziali – di uomini da eliminare per risanare il mondo. Ma, sebbene i Rivoluzionari fin dall’inizio ci diano dentro con impegno per estirpare il male dalle radici, né l’Uomo né il Mondo Nuovi, e meno che meno il paradiso, si profilano all’orizzonte. È allora il turno dei «capri espiatori» dell’inevitabile fallimento: altre «fiumane» (25) in marcia verso l’universo concentrazionario, luogo tipico della Rivoluzione, in cui lo sterminio viene pianificato secondo i canoni moderni e tecnocratici della produzione industriale e perciò «razionali». «Espropriazione, concentramento, deportazione, le “unità mobili di sterminio”, l’esecuzione giudiziaria e lo sfruttamento del lavoro forzato fino alla totale consunzione fisica favorita dalla denutrizione e dal freddo»: questi, secondo Besançon (26), i tempi e i modi tipici del potere comunista nella sua azione di distruzione fisica del «nemico di classe»: di quella morale, che ha causato la «catastrofe antropologica» dei sopravvissuti, rimando ad altra occasione.
Stupisce, però, che un osservatore così acuto come il professor Gasparini inserisca nella sua Introduzione, fra gli esecutori del crimine Rivoluzionario nel XX secolo, che così bene descrive e stigmatizza, accanto ai comunisti vari, ai nazi[onalsociali]sti e ai fascisti – e anche per questi ci sarebbe da discutere –, il generale Francisco Franco Bahamonde (1892-1975) e i non meglio identificati «franchisti». Appare davvero problematico ritenere che il Caudillo perseguisse – come è invece giusto dire che la perseguivano comunisti e nazionalsocialisti – la realizzazione di una «modernizzazione intesa […] come affrancamento dalla tradizione, trasposizione al futuro di una nuova religione “secolarizzata” […] come inizio di una nuova e millenaria era» (p. 10), e che mirasse – come gli «altri» miravano – alla reductio ad unum della società, con l’eliminazione di ogni altra istituzione e corpo intermedio fra il singolo e lo Stato. Se la Rivoluzione è anche – come è, e come giustamente la descrive il professor Gasparini – «tecnica del futuro», progetto ideocratico di un Uomo e di un Mondo Nuovi, «utopia coercitiva» del paradiso in terra con esclusione di ogni altra fede, soprattutto se rivolta al trascendente. Se è azione «catartica» e violenta sull’esistente riottoso alla propria trasformazione, e in concreto nei confronti di milioni di uomini perseguitati per il fatto stesso che esistono, pur non essendo previsti dal «progetto» e condannati dall’ideologia, e perché «sordi» al richiamo dell’ artefice della storia. Se la Rivoluzione è, come è, tutto questo, allora inserire Franco fra i «rivoluzionari», e quindi tra i «colpevoli» degli effetti tragici di tali propositi e azioni, appare quasi «convenzionale», e può essere spiegato solo come una sorta di riflesso condizionato da «correttezza politica». Infatti, un simile giudizio è lontanissimo dalla realtà personale, del pensiero e dell’agire politico di Franco, a prescindere dall’opinione che si abbia dell’uomo e della sua parabola storica.
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A sua volta, il dossier messo a disposizione dei lettori (pp. 19-120) contiene tra i numerosi atti della procedura (se ne contano trentotto) i dieci verbali d’interrogatorio (quasi sempre notturno), le note delle spie comuniste, che sorvegliavano fin dal 1928 i frequentatori – quorum l’inquisito – di uno studio odontoiatrico di Wilno ritenuto covo di cospiratori monarchici e contro-rivoluzionari, il verbale delle dichiarazioni del figlio primogenito del prigioniero, Anatolij, ingenuamente entrato nell’Urss nel 1935 da comunista, e immediatamente fucilato. Soprattutto contiene i tratti di penna che segnano il destino di un uomo fino ad allora tranquillo e pacifico, e, quel che più conta, innocente di tutto quello che il senso comune intende come «colpa». Ma «colpevole» di attività anti-sovietica – in realtà, «anti-sovietica» era la sua origine sociale, la sua stessa esistenza. E perciò «condannato» ad otto anni di Itl, «campo correzionale di lavoro», dal quale il povero Aleksej Aleksandrovič non tornerŕ più, nemmeno da morto. Otto anni – in concreto una condanna a morte – inflitti con tre frettolose annotazioni apposte e sottoscritte in tempi diversi dai tre componenti dell’Oso a margine dell’atto, di cui possiamo «ammirare» anche la riproduzione dall’originale, con le «conclusioni dell’ accusa» (p. 88).
Le circolari successive dell’Nkvd, emanate nel 1940, quando Wilno era divenuta Vilnius, siccome la città era stata assegnata dai sovietici alla Lituania, e poi che questa aveva ricevuto l’onore di essere ammessa tra le Repubbliche Socialiste Sovietiche – non senza un «aiutino» dall’Armata Rossa –, precisarono che i soggetti «anti-sovietici» da «liquidare» dovevano essere individuati, tra l’altro, «in base sia al loro stato sociale […] sia alle convinzioni religiose» (p. 152). Per Argamakow, quindi, non ci sarebbe stata comunque speranza, essendo d’origine nobile – e perciò appartenente alla classe degli «sfruttatori», anche se non aveva mai «sfruttato» nessuno –, e credente.
Il fascicolo si conclude con la vergognosa corrispondenza «segreta» tra i «colonnelli burloni» del Kgb di Mosca e di Minsk (pp. 113-119). Nel 1961, «in piena era di Kruščiov [Nikita Sergeevič (1894-1971)], del disgelo e delle prime timide riabilitazioni» (p. 154), disposero che alla richiesta promossa dalla vedova e inoltrata attraverso la Croce Rossa Internazionale di avere notizie di Aleksandr Aleksandrovič, si dovesse rispondere, ovviamente mentendo, «che non è noto dove si trovi ARGAMAKOW A. A.» (p. 117). L’ultimo colpo: segregato per sempre anche da morto, e nessuna notizia vera, né sul modo né sulla data della sua fine.
Fra gli annessi al dossier, un interessante «glossario degli acronimi» e una rassegna degli articoli dei codici penali sovietici russo e bielorusso del 1922, del 1926 e del 1961, concernenti la «repressione delle attività anti-sovietiche e controrivoluzionarie e dei delitti contro lo Stato» (pp. 127-138).
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La lettura degli atti del dossier non appare interessante soltanto per lo studioso o comunque per il tecnico della materia. Ed essi non costituiscono soltanto un reperto unico nel genere – il che basterebbe di per sé a conferire valore insolito alla pubblicazione –, ma rappresentano un modello.
È il modello di come il persecutore di tutti i tempi – sia esso «giudice», «pubblico ministero», commissario politico o «inquirente» della polizia politica che si dica –, anziché risalire dal fatto, e dal suo rapporto con la condotta di una persona, all’ipotesi di reato, discenda da questa – tante volte pura «scatola vuota», in assenza di ogni tipizzazione ragionevole – alla persona, il cui destino è segnato dall’origine sociale – ossessivamente richiamata in ogni atto –, e/o dalla religione che pratica, dalle idee che professa, o altrove dalla «razza» cui appartiene.
«Istruttoria e processo non sono che forme giuridiche, non possono cambiare la tua sorte decisa in anticipo. Se dovete essere fucilati, lo sarete anche se siete innocenti. Se dovete essere assolti, lo sarete, lavati da qualunque macchia, anche se eravate colpevolissimi» (così il giudice istruttore Mironenko, rivolto al condannato a morte Babic, nel lager di Dzidda, 1944) (27). Perché, come fin dal 1° novembre 1918, aveva scritto il cekista Martin Lacis (1888-1937), «noi non stiamo combattendo una guerra contro gli individui. Stiamo sterminando la borghesia come classe. Nel corso delle indagini non cercate di dimostrare che il soggetto ha detto o fatto qualcosa contro il potere sovietico. Le prime domande che dovete porvi sono a quale classe appartiene, qual è la sua origine. Le risposte a queste domande devono determinare il destino dell’accusato. In ciò risiedono il significato e l’essenza del terrore rosso» (28). Tanto, come sosteneva il pubblico accusatore presso la Corte Suprema dell’Urss, Nikolaj Vasil’evič Krylenko (1885-1940) «le finezze giuridiche non occorrono perché non occorre chiarire se l’imputato sia colpevole o innocente: il concetto di colpevolezza, vecchio concetto borghese, è stato adesso sradicato» (29).
Veniamo così posti plasticamente al cospetto di un potere che giustifica se stesso, perché l’«idea» (meglio, l’ideologia) che lo anima si pretende salvifica. Esso, perciò, si ritiene autorizzato a ricorrere ad ogni mezzo – anzi, qualifica il mezzo in funzione dal servizio che rende al «progetto»: «la verità è rivoluzionaria» significa che è vero solo ciò che giova alla Rivoluzione a giudizio dei Rivoluzionari – per affermarsi, conservarsi e perseguire i propri scopi. La sua azione è per definizione «giusta», al di là di ogni concezione «borghese» di giustizia.
Ma allora, perché ricorrere a tutte quelle «formalità» – si pensi solo alle sette richieste di proroga della carcerazione preventiva (il cui termine massimo è un mese!) in dieci mesi, dall’esito scontato, ma che farebbero sorridere un nostro Pm, che ha a disposizione ben altri tempi per ammorbidire un «indagato» – che hanno gonfiato il dossier? Perché gli interrogatori notturni – defatiganti, lo si dice senza ironia, anche per l’inquirente –, le varie formule procedurali, l’attenzione alle imputazioni e al nomen juris di reati che si sa inesistenti, in un contesto in cui non v’è difesa e non v’è processo perché, anche oltre l’Oso, non v’è giudice terzo ed imparziale, non v’è Appello, non v’è Cassazione?
Una risposta potrebbe essere nel fatto che la Rivoluzione si pretende Weltgericht, «giudizio del mondo», che mette in stato di accusa per purificarlo, e perciò deve – DEVE – agire paludata delle vesti del diritto e del processo. E lo fa fin dal tempo del Grande Terrore giacobino, come spiega il grandissimo giurista sardo Salvatore Satta (1902-1975), non meno grande come scrittore, dimostrando come il processo sia così trasformato in «azione rivoluzionaria» (30).
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Igor Argamante illustra, nella sua intensa postfazione che chiude il volume (pp. 141-157), il modo in cui l’esistenza di suo padre è stata cancellata, e come i colpevoli di tutto questo sono stati di fatto «amnistiati» dalla coscienza storica contemporanea, perché una sorta di «amnesia» collettiva ha coperto le loro colpe. E quando pure se ne parla, se la risposta non è un cenno di fastidio, analogo a quello con il quale nella calura estiva si scaccia una mosca petulante, si pretende comunque di discorrerne «in modo contenuto ed educato ed in ambiente ristretto» (p. 157).
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Sia Morte da cani, che la solo apparentemente più arida (ma tali non sono certamente l’Introduzione e la Postfazione) pubblicazione del Dossier n. 51879, meritano non poca attenzione, e soprattutto un ringraziamento all’autore e a chi gli ha consentito di pubblicarle. Si tratta di opere uniche, per le ragioni già evocate, ma anche perché si tratta della prima testimonianza da parte del figlio di una vittima dei crimini del comunismo. È la prima testimonianza «ereditaria». In modo tipicamente tradizionale, cioè con pietà filiale, Igor Argamante Argamakow ha ricevuto una consegna e non l’ha tenuta per sé, ma si è preoccupato di trasmetterla, in qualche modo di «eternarla».
I suoi lavori, fra tante cose, aiutano a capire che le decine di milioni di vittime del comunismo sono tanti Aleksej Aleksandrovič Argamakow, uomini veri, in carne ossa e affetti, e non numeri, del cui sterminio è diretta responsabile l’idea – che nega loro il diritto all’esistenza storica, e con il materialismo anche la stessa dignità di persona – e non già un qualche preteso tradimento di essa. La volontà di negare l’ordine della creazione e di ricostruire il mondo senza Dio, anzi contro Dio, si è tradotta inevitabilmente, come è proprio dell’utopia, in un’azione contro l’uomo (31). Lezione importante in un’epoca in cui, da parte di troppi, non si vuole accettare a proposito del comunismo – ma non solo – che, come ancora Besançon scrive, «quando si pretende di applicare alla realtà una sua concezione falsata, i risultati sono devastanti. La causa ultima del disastro è quindi un’idea inetta che si è impadronita di cervelli inetti o resi tali da questa idea. Grande mistero! Ma spiega perché Dzeržinskij [Feliks Edmundovič, 1877-1926] ammetteva già nel 1917 che per costruire il socialismo sarebbe stato necessario “sterminare alcune classi” e Zinov’ev [Gregorij Evseevič Apfelbaum, detto Z. (1883-1936)] parlava di “annientare” dieci milioni di russi su cento» (32).
Giovanni Formicola

Note (1) Aleksandr Isaevič Solženicyn, Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa, Aleksandr Isaevic' Solz'enicyn, Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa, trad. it., 3 voll. in 6 tomi, Mondadori, Milano 1975, vol. II, p. III e p. 127. (2) Ibid., p. 8. (3) Cit. ibid., p. 12. (4) Cfr. Varlam Tichonovič Ŝalamov (1907-1982), I racconti di Kolyma, trad. it., Einaudi, Torino 1999. (5) A. I. Solženicyn, Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa, cit., vol. II, p. 8. (6) Cfr. Centro Studi «Memorial» (Mosca), Il sistema dei lager in URSS, trad. it., in GULag. Il sistema dei lager in URSS, trad. it., a cura di Marcello Flores e Francesca Gori, Mazzotta, Milano 1999, pp. 25-27. (7) Cfr. Alain Besançon, Novecento, il secolo del male. Nazismo, comunismo, Shoah, trad. it., Ideazione, Roma 2000, p. 42. (8) Cfr. Igor Argamakow, Morte da cani. Piccola storia stalinista, il Mulino, Bologna 2000. (9) Dante Alighieri (1265-1321), La Divina Commedia, Inferno, Canto V, v. 28. (10) Cfr. Zygmunt Bauman, Modernità e Olocausto, trad. it., il Mulino, Bologna 1992, p. 31 e passim. (11) Cfr. I. Argamakov Argamante (a cura di), Archivio KGB di Vilnius (Ltsr). Dossier N° 51879, con una introduzione di Alberto Gasparini, Isig. Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia, Gorizia 2003. Tutti i riferimenti tra parentesi nel testo rimandano a questo volume. (12) Si tratta «di quello straordinario paese […], geograficamente stracciato in arcipelago, ma psicologicamente forgiato in continente, paese quasi invisibile, quasi impalpabile, abitato dal popolo dei detenuti» (A. I. Solženicyn, Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa,cit., vol. I, Premessa, p. 10). Besançon sostiene che nel GULag fossero ristretti i prigionieri a «regime duro»; nel resto dell’Urss, quelli a «regime ordinario» (cfr. A. Besançon, Novecento, il secolo del male. Nazismo, comunismo, Shoah,cit., p. 38). Il termine «GULag» è l’acronimo di Glavnoe Upravlenie Lagerej (Amministrazione Centrale dei Lager). (13) Cfr. Rael Jean Isaac; e Erich Isaac, The Coercitive Utopians, Social Deception by America’s Power Players, Regnery Gateway, Chicago (USA) 1983. (14) Vladimir Kostantinovič Bukovskij, Gli archivi segreti di Mosca, trad. it., Spirali, Milano 1999, pp. 787-788. (15) Cit. in Victor Serge (1890-1947), L’anno primo della rivoluzione russa, trad. it., Einaudi 1991, p. 29. (16) Cit. in A. I. Solženicyn, Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa, cit., vol. I, p. 43. (17) Cit. in Pietro Sinatti, L’atroce logica dell’annientamento, in Il sole-24 ore, Milano 2-2-1997. (18) Cit. in Richard Pipes, Il regime bolscevico. Dal Terrore rosso alla morte di Lenin, trad. it., Mondadori, Milano 2000, pp. 405-406. (19) Cit. in Mihail Geller (1922-1997); e Aleksandr Nekrič, Storia dell’URSS dal 1917 a Eltsin, trad. it., Bompiani, Milano 1997, p. 159. (20) Karl Marx; e Friedrich Engels, Manifesto del Partito Comunista, trad. it., Newton Compton, Roma 1977, p. 105.(21) Ibid., p. 74. (22) V. K. Bukovskij, op. cit., pp. 741-42. (23) A. I. Solženicyn, I pericoli che incombono sull’Occidente a causa della sua ignoranza della Russia, in Idem, L’errore dell’Occidente. Gli ultimi interventi su comunismo, Russia e Occidente con, in appendice, il «discorso di Harvard», trad. it., La Casa di Matriona, Milano 1980, p. 20. (24) Pedro Calderòn de la Barca (1600-1681), La vita è sogno, vv. 111-112. (25) Cfr. A. I. Solženicyn, Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa, cit., vol. I, pp. 40-107. (26) Cfr. A. Besançon, Novecento, il secolo del male. Nazismo, comunismo, Shoah,cit., pp. 31-43. (27) Cit. in A. I. Solženicyn, Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa, cit., vol. I, p. 159. (28) In Krsnij Terror («Terrore Rosso»), periodico della Ceka, cit. in Cristopher Andrew; e Oleg Gordiewskij, La storia segreta del KGB, trad. it., Rizzoli, Milano 1991, p. 58. (29) Cit. in A. I. Solženicyn, Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa, cit., vol. I, p. 313. (30) Cfr. Salvatore Satta (1902-1975), Il mistero del processo, Adelphi, Milano 1994, pp. 11-37, in particolare, p. 37. (31) «Un mondo senza Dio si costruisce, presto o tardi, contro l’uomo» (Giovanni Paolo II, Messaggio ai giovani di Francia, Parigi, 1 giugno 1980). Cfr. anche: «Il tentativo di plasmare le cose umane facendo completamente a meno di Dio ci conduce sempre più sull’ orlo dell’abisso, verso l’accantonamento totale dell’ uomo» (Joseph Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, trad. it., Cantagalli, Siena 2005, p. 62). La tesi viene successivamente così articolata e argomentata, questa volta con l’autorità pontificia: «Chi esclude Dio dal suo orizzonte falsifica il concetto di “realtà” e, in conseguenza,, può finire solo in strade sbagliate e con ricette distruttive. La prima affermazione fondamentale è, dunque, la seguente: Solo chi riconosce Dio, conosce la realtà e può rispondere ad essa in modo adeguato e realmente umano. La verità di questa tesi risulta evidente davanti al fallimento di tutti i sistemi che mettono Dio tra parentesi» (Benedetto XVI, Discorso all’inaugurazione della V Conferenza generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, Santuario dell’Aparecida, Aparecida do Norte (San Paolo del Brasile), 13-5-2007, in Supplemento a L’Osservatore Romano del 2-6-2007, p. 9). In questi pronunciamenti si sente l’eco di Henri De Lubac (1896-1991): «Non è poi vero, come pare si voglia dire qualche volta, che l’uomo sia incapace di organizzare la terra senza Dio. Ma ciò che è vero è che, senza Dio, egli non può, alla fine dei conti, che organizzarla contro l’uomo» (Henri De Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, 1945, trad. it., Morcelliana, Brescia 1988, p. 9. (32) A. Besançon, La guerra dei bolscevichi contro i contadini, in La Vandea, con una Prefazione di Raoul Girardet e un messaggio di Pierre Chaunu, trad. it., con una Premessa di Sergio Romano e un saggio di Jules Michelet, Corbaccio, Milano 1995, pp. 219-233 (pp. 220-221).
http://www.totustuus.net/modules.php?name=News&file=article&sid=2792

martedì 4 agosto 2009

Scoperta un’altra Katyn: 3mila soldati polacchi massacrati dai sovietici (click)



di Livio Caputo

Un nuovo orrido capitolo si è aggiunto al già ricchissimo «Libro nero del comunismo»: un bis, su scala appena più ridotta, dell’eccidio di Katyn, dove nel 1940 i sovietici trucidarono 20.000 ufficiali e soldati dell’esercito polacco con l’obbiettivo di decapitare la classe dirigente del Paese e renderne così più facile la sottomissione. Secondo il settimanale polacco «Rzecspospolita», un’altra fossa comune, contenente i corpi di circa 3.500 militari, appartenenti alla Guardia di frontiera o al corpo d’armata del generale Smorawinski, è stata ritrovata a Wlodzimierz Wolynski, nell’attuale Ucraina occidentale. Come a Katyn, tutti avevano le mani legate dietro la schiena e tutti sono stati uccisi con un colpo di pistola alla nuca. La scoperta, in realtà, risale a dodici anni fa, ma per ragioni non ben chiare le autorità di Kiev ritennero allora di metterla a tacere in attesa di ulteriori accertamenti, e soltanto ora hanno reso questo ennesimo crimine staliniano ufficiale.

La notizia della strage non desterà molto stupore in chi conosce la storia di Katyn, magari attraverso la visione del film di Wajda arrivato di recente - dopo un tentativo di ostracismo - nelle nostre sale. Dal momento che il Cremlino aveva deciso di approfittare delle circostanze belliche per liquidare ogni potenziale resistenza da parte dei polacchi dopo l’annessione della metà orientale del Paese, non c’è in fondo da meravigliarsi che anche questo secondo contingente di prigionieri sia stato brutalmente trucidato. Ma la rivelazione non mancherà di avere ripercussioni sui rapporti tra Varsavia e Mosca, che ancora oggi risentono della vicenda di Katyn e che non sono certo migliorati dopo l’ingresso della Polonia, fino a vent’anni fa satellite dell’Urss, nell’Unione Europea e nella Nato. Per mezzo secolo, i sovietici avevano negato ogni responsabilità dell’eccidio, attribuendone - contro ogni evidenza e anche contro la geografia - la colpa ai tedeschi. Solo nel 1990, dopo la caduta del muro di Berlino e con l’impero sovietico già in piena agonia, Gorbaciov ammise il crimine, commesso dalla famigerata Nkvd, e presentò le sue tardive scuse alla Polonia. Seguì un lungo periodo in cui russi e polacchi collaborarono nella ricostruzione degli eventi, nel tentativo di arrivare, se non altro, a una memoria condivisa. Ma quattro anni fa, nel quadro della sua politica di restaurazione imperiale (e forse per ritorsione contro la stretta collaborazione di Varsavia con l’America di Bush) Putin diede ordine di interrompere il trasferimento di informazioni alla Polonia e la ricerca dei responsabili, riprendendo la vecchia linea dura.

Il magistrato responsabile dell’indagine, in un comunicato che a Varsavia brucia ancora, dichiarò che «Katyn non fu né un genocidio, né un crimine di guerra, né un crimine contro l’umanità: non esistono perciò assolutamente le basi per parlarne in termini giuridici»: un tentativo di cancellare la verità, o addirittura di riportare indietro l’orologio della storia. Con questo, sulla vicenda tornò naturalmente a piombare, da parte russa, anche la cappa del segreto di Stato.

La reazione dei polacchi fu - al momento - durissima, e anche a livello popolare ci fu l’ennesima esplosione di sentimenti antirussi, che il toccante film di Wajda non ha certo contribuito a smorzare. Per capire questa ondata di indignazione, bisogna immaginare che cosa sarebbe successo in Italia, se un giorno i tedeschi avessero negato ogni responsabilità in tutte le stragi compiute nella penisola, a cominciare dalle Fosse Ardeatine.

Non sappiamo se la denuncia del nuovo massacro, 12 anni dopo la scoperta materiale dei cadaveri, sia uno scoop di «Rzecspospolita» o sia stata in qualche modo pilotata dal governo di Varsavia per mettere in imbarazzo i russi, costringerli a una nuova inchiesta e riaprire in qualche modo anche il capitolo di Kaytn. Alla luce della nuova politica putiniana, è probabile che il Cremlino non reagisca o torni a negare, come ai tempi dell’Urss, qualsiasi coinvolgimento. Magari, visto che il ritrovamento è stato fatto in Ucraina, che con Mosca è ai ferri corti, parlerà di complotto.

Una sola cosa è certa: la storia di questi 3.500 nuovi martiri avrà una vasta eco non solo in Polonia, ma in tutto l’Est europeo sottoposto fino a vent’anni fa alla dominazione sovietica: a dimostrazione che per chiudere certe ferite non basta neppure lo scorrere dei decenni.


domenica 2 agosto 2009

Non è con l'omertà intellettuale che riscopriremo Curzio Malaparte (click)

Intervista a Luigi Martellini di

Luca Meneghel

2 Agosto 2009

Tra i tanti autori dimenticati dalla “letteratura istituzionale” italiana, Curzio Malaparte gioca un ruolo da assoluto protagonista. Grande dimenticato ma non solo: col passare degli anni, sul conto dell’intellettuale toscano si sono diffusi miti e falsità. Attraverso un lungo colloquio con il professor Luigi Martellini, il curatore del “Meridiano” dedicato a Malaparte, abbiamo cercato di ristabilire un po’ di giustizia sulla vita intellettuale e politica di uno dei massimi scrittori del nostro Novecento.

Professore, oggi Curzio Malaparte viene letto e studiato poco. Quando, e perché, la cultura italiana lo ha "dimenticato"?

Questa domanda dovrebbe essere rivolta a quella che lei definisce “Cultura italiana” e a quegli autori della “storie letterarie” in uso nella scuole. Per quel che posso dire, il discorso è estremamente semplice: Malaparte è stato un “fascista”, che l’Italia non riuscirà mai a smaltire questo suo periodo storico, che è esistita ed esiste ancor nel nostro Paese (altamente democratico e sempre pronto a riempirsi la bocca di democrazia) una cultura egemone (di cui tutti conoscono il colore), che ha prodotto molti danni e condizionato scelte smaccatamente ideologiche e non letterarie, che chi non apparteneva ad una parte apparteneva di conseguenza alla parte opposta e quindi nemica, che non vale la bravura o la genialità, ma l’appartenenza ad uno schieramento politico e/o partitico, che la politica culturale del dopoguerra ha colonizzato giornali, autori, opere, editrici, università e quant’altro, eliminando e facendo passare sotto silenzio o relegando ad una marginalità oscena tutto ciò che poteva apparire contrario o pericoloso o migliore…e via dicendo.

C’è qualche specifica responsabilità, o è l’intero “sistema” ad averlo dimenticato?

Non voglio fare nomi, perché questa è anche una società vendicativa, perciò passo, se pur brevemente, la parola a Malaparte così ognuno può esprimere il suo giudizio: “Tutti gli scrittori sono stati fascisti, nella qual cosa non vi è nulla di male. Ma perché oggi pretendono di farsi passare antifascisti, per martiri della libertà, per vittime della tirannia? Nessuno di loro, dico nessuno, ha mai avuto un solo gesto di ribellione contro il fascismo, mai. Tutti hanno piegato la schiena, con infinita ipocrisia, leccando le scarpe a Mussolini e al fascismo. E i loro romanzi erano pure esercitazioni retoriche, senza l’ombra di coraggio e di indipendenza morale e intellettuale. Oggi […] scrivono romanzi antifascisti come ieri scrivevano romanzi fascisti; tutti, compreso Alberto Moravia, che gli stessi comunisti (quando Moravia non filtrava ancora col comunismo) definivano uno scrittore borghese, e perciò fascista. L’attuale romanzo italiano rispecchia l’attuale conformismo anti-fascista del popolo italiano, come ieri rispecchiava il conformismo fascista e […] rivela lo sforzo degli scrittori di conquistarsi una libertà formale e contenutistica in contrasto col loro inguaribile conformismo personale morale e intellettuale. Moravia, ad esempio, è il moralista e in un certo senso lo storico, non il critico, della borghesia fascista e chi ha voluto vedere negli Indifferenti un romanzo antifascista, ha sbagliato, consapevole o no, poiché l’indifferenza non era una reazione al fascismo, ma proprio una conseguenza di quella decadenza della società, di cui il fascismo era un altro degli aspetti”. Oppure quest’altro passaggio: “I lettori de ‘l’Unità’ non sanno che il massimo organo del P.C.I. è interamente scritto da giornalisti fascisti. Lo stesso Carlo Muscetta, infatti, redattore de ‘l’Unità’, non solo fu un gerarca fascista, e servo umilissimo dei servi di Mussolini, ma l’autore, in collaborazione di un altro fascista, l’attuale deputato comunista Mario Alicata, di un libro di letture per i ragazzi della scuola media, apparso nel 1941, dico nel 1941, presso l’editore Sansoni di Firenze col titolo Avventure e scoperte, nel quale gli osanna a Mussolini si accompagnano ai più smaccati e servili elogi a Mario Appelius, Attilio Crepas, Giuseppe Bottai ecc. Nessuna legge proibisce ai fascisti di diventare comunisti. Ma il buon gusto, la decenza, il pudore, dovrebbero consigliare loro di non impancarsi a Catoni, a giudici della vita morale e politica italiana, a esempi di coerenza e di intransigenza. Gli intellettuali fascisti passati al comunismo dopo la morte di Mussolini erano la zavorra del fascismo e sono oggi la zavorra del comunismo. Tradiranno il comunismo come hanno tradito il fascismo”. E taccio sugli altri esempi (di cui l’archivio Malaparte è pieno) che lo scrittore portava facendo nomi e citando opere. La verità sta forse nella constatazione, tutta pasoliniana (e quindi all’opposto), che questa “Italia è un Paese ridicolo”.

Da dove viene il nome "Curzio Malaparte"? Perché Kurt Erich Suckert ha deciso di firmarsi così?

È stato Franco Vegliani, il giornalista di “Tempo” (a cui Malaparte collaborava) che fu messo accanto allo scrittore durante i suoi giorni di agonia alla clinica Sanatrix di Roma affinché registrasse fedelmente, quasi fosse una cronaca, tutto ciò che accadeva, veniva detto o confessato fino alla morte. Racconta Vegliani che il passaggio di nome dal tedesco all’italiano avvenne nel 1925, anche se già da qualche anno aveva in mente uno pseudonimo letterario che suonasse meglio di quell’ostico cognome teutonico che gli aveva creato in passato (ai tempi della pubblicazione de La rivolta dei santi maledetti (sui fatti di Caporetto) problemi coi fascisti estremisti che lo aveva apostrofato in ogni modo: da tedesco ed ebreo internazionalista a bolscevico introdotto nelle file fasciste come disgregatore e sobillatore. E Vegliani citava l’amico Giuseppe Fonterossi che era a conoscenza di come fosse avvenuto il cambiamento: quando cioè Suckert vide Fonterossi leggere un raro libretto stampato a Torino nel 1869 e comprato in un bancarella a Campo dei Fiori intitolato I Malaparte e i Bonaparte nel primo centenario di un Malaparte-Bonaparte. L’anonimo autore del volumetto narrava che i Bonaparte in origine (ai primi anni del Mille) si erano chiamati Malaparte. Tale cognome era stato poi cambiato per concessione papale e imperiale, come premio dei servizi resi dalla famiglia alla causa della legittimità. Col rischio, però, di ritornare Malaparte tutte le volte che la famiglia assumeva atteggiamenti poco ortodossi. In tal modo, scriveva l’anonimo autore del volumetto, il Primo Napoleone si sarebbe dovuto chiamare Malaparte. Suckert si fece prestare quel libretto dall’amico, lo lesse e dopo un po’ lo si ritrova col nuovo nome di Curzio Malaparte. L’aneddoto così conosciuto verrebbe avvalorato dall’altro aneddoto che riferisce di un chiarimento da parte di Mussolini, al quale lo scrittore avrebbe risposto: “Perderò ad Austerlitz e vincerò a Waterloo!”.

Un neofita resterebbe immediatamente colpito dalle scelte politiche compiute da Malaparte. Prima di tutto, il fascismo: cosa ha cercato (e trovato) in Mussolini questo scrittore che Gobetti definiva "la miglior penna del regime"?

La domanda alquanto complessa, esige, purtroppo una risposta molto complessa, che spero di dare accennando ai rapporti, che erano di amicizia, proprio tra Malaparte e Gobetti. Nella primavera del ’22 Malaparte entra in contatto con Gobetti e si avvicina al gruppo di giovani intellettuali raccolti intorno ad “Ordine Nuovo” e a Gramsci. Gobetti gli propone di scrivere (chiusa ormai “Energie nuove” dove pensava di convogliare la giovane élite rivoluzionaria) su “Rivoluzione liberale” (fondata in quell’anno), dove Malaparte pubblica saggi sul Dramma della modernità (la crisi italiana come espressione della crisi di una civiltà; il contrasto tra civiltà protestante e civiltà cattolica), scritti poi ripresi e riuniti nel volume L’Europa vivente. Teoria del sindacalismo italiano. L’amicizia con Gobetti, nonostante le diversità di vedute, è profonda e sincera: “Su un punto solo non eravamo d’accordo – scrive Malaparte - sulla guerra. Egli svalutava l’importanza morale della guerra per le giovani generazioni, io, forse, la sopravalutavo. Egli era più giovane di me, non aveva partecipato alla guerra, perciò era molto più freddo, più sereno, molto più obbiettivo di fronte al dramma della guerra. Era anche molto più libero nei suoi giudizi, poiché non era impacciato e appesantito dalla retorica patriottica di noi reduci. La guerra, per me, era già una mia tradizione personale, la mia prima, fondamentale, esperienza di vita. Non potevo, perciò, essere obbiettivo, né libero, di fronte alla guerra. Ed è appunto il fatto ‘guerra’ che mi ha impedito di essere un antifascista, allora.” Malaparte riporta in un suo Memoriale ciò che Gobetti, prevedendo la sua fatale evoluzione in sensi nazionalista, spesso gli diceva: “È la retorica patriottica che ha creato il fascismo: per fortuna Lei si salva, perché ha molto ingegno, perché ha uno spirito libero, e perché è il contrario di un fascista. Lei non sarà mai fascista.”

Gobetti ha quindi ricoperto un ruolo importante nella formazione intellettuale e politica dell’autore…

Il rapporto con Gobetti chiarisce molte cose della posizione ideologica di Malaparte in questo periodo. Il giovane si accorge, altresì, che il suo disagio morale non è dovuto solo alla sua esperienza o situazione personale, ma comune a tutta la “gioventù colta e intelligente”. Tornato in patria, dall’Europa percorsa della prima guerra mondiale, pieno di fede nella rivoluzione italiana e profondamente deluso dei metodi antiquati, romantici e incerti coi quali uomini inadatti e tenacemente fedeli alla tradizione piccolo-borghese del rivoluzionarismo italiano conducono la lotta. “Avevo pensato – scrive – in principio di riavvicinarmi al Partito repubblicano [al quale era iscritto a Prato quando andò volontario], ma dopo aver visto da vicino i metodi, e lo spirito, della rivoluzione russa, il problema della rivoluzione italiana, quale era concepito e impostato, sul terreno teorico e pratico, dal Partito repubblicano, mi appariva antistorico e sostanzialmente reazionario, tanto nel senso politico quanto nel senso sociale.” Lo scrittore è turbato dalla crisi della politica italiana che assume aspetti e proporzioni preoccupanti, soprattutto nei confronti della classe operaia abbandonata alla mercè dei datori di lavoro appoggiati da Fasci: Malaparte era stato allevato ed era vissuto nella turbolenta Prato, la città operaia per eccellenza, da dove veniva Bresci l’assassino di Umberto I, segnata da anarchismo, radicalismo, lotte sindacali, scioperi, sommosse, arresti e bastonature, con un’alta coscienza delle rivendicazioni operaie che lo porteranno poi al sindacalismo rivoluzionario. Ma Gobetti ritiene che la salvezza della classe operaia stia nel “marxismo integrale”, ed è convinto che bisogna abbattere il fascismo “con tutte le forze e con la più profonda intransigenza”, mentre per Malaparte è più utile modificare il fascismo dall’interno. Anzi, nonostante le pressioni dei compagni di guerra, era rimasto estraneo al fascismo e non nascondeva la sua avversione “per la vacuità ideologica ed il formalismo pseudo-rivoluzionario del movimento. Ma la sua formazione culturale, il senso di smarrimento e di isolamento negli anni del dopoguerra, le lotte intestine tra Partito socialista e Partito comunista, la propaganda marxista che condanna e rifiuta proprio la gioventù interventista e volontaria di guerra, contribuiscono a cambiare le sue decisioni: “alla metà di settembre del 1922 mi decisi finalmente a inviare una lettera di adesione, pur con molte riserve, al Fascio di Firenze, dove fui iscritto in data 20 settembre. Scelsi il Fascio di Firenze, perché esso era, allora, un Fascio Autonomo, in lotta col P.N.F. E poiché Umberto Fasella, già Segretario del Fascio Autonomo e Segretario della Camera del Lavoro di Firenze, era stato espulso dal Fascio proprio in quei giorni, mi fu affidata la Segreteria della Camera Italiana del Lavoro. Questa carica era gratuita, e perciò nessuno la voleva”. Nel Fascio Autonomo ritrova i vecchi compagni dell’interventismo e del volontarismo.

Cosa cambia, a questo punto, nei rapporti con Gobetti?

Informa subito Gobetti della decisione e del proposito di dedicarsi non alla politica militante, ma all’opera di organizzazione e di assistenza della classe operaia, gli ripropone la necessità di creare un’organizzazione sindacale nazionale, italiana, per evitare che anche contro di essa si scagli l’odio cieco degli squadristi incapaci di distinguere fra marxista e antinazionale, fra operaio e antitaliano, fra organizzazione sindacale e organizzazione antifascista. Gobetti che già lo aveva messo in guardia (“Te ne pentirai. Ti renderanno la vita dura. Non sei fatto per loro. E loro non sono fatti per te. Diffideranno di te. [..] In quanto al sindacalismo, sono sicuro che una persona intelligente come Lei non potrà andar a lungo d’accordo, coi fascisti, e mi scusi, ma lo spero vivamente. Del resto penso che per rinnovarsi ed essere italiani sul serio, gli operai non abbiano bisogno di dichiararsi italiani: anzi, la via maestra per la redenzione del proletariato continua ad essere quella sentita come più aderente alle reali condizione storiche del proletariato: ossia la via rivoluzionaria, sovversiva, mitica. Ci torneremo dopo questa parentesi fascista, così confusa che hanno potuto accogliere anche Lei - proprio non me lo aspettavo -, che ne è l’antitesi. Oggi bisogna dare tutte le nostre forze a combattere il fascismo.”) Malaparte difatti da lì a poco sarà cacciato dalla Segreteria della Camera del Lavoro e la famosa rivoluzione fascista di sinistra alla quale credeva non avvenne mai. Si leggano nelle pagine della rivista intitolata “La conquista dello Stato” che Malaparte fondò nel 1924 gli interventi sul fascismo di Mussolini, sul fascismo integrale, sul fascismo rivoluzionario, sulla rivoluzione mancata e fallita e via dicendo: argomenti che facevano sequestrare ogni numero ed alla fine chiudere la rivista. Quello che accadde poi è un’altra storia che vede Malaparte “resistere” fino al 1931…e poi andarsene.

Negli anni del sostegno al fascismo, Malaparte fu attivo sostenitore dello "Strapaese", il movimento legato alla rivista "Il Selvaggio"

Cercherò di “chiarire” il periodo, nel quale il miglior libro di queste genere resta forse Italia barbara, dove accanto alle generalizzazioni di carattere teorico, è presente un gusto paesano appartenente alla migliore prosa toscana dell’Ottocento, specialmente in certi passaggi sospesi in un umorismo di tono volutamente tradizionale che svela la sua profonda sfiducia nella vitalità dell’Europa contribuendo a far nascere la tesi dell’antieuropeismo (che mi sembra ci sia anche oggi!) fascista. Un’esperienza di scrittura che era naturale lo portasse agli eccessi di Strapaese che è una ventura minima e marginale della sua carriera, un movimento politico e morale più che letterario, un modo di sentire e volere l’esistenza secondo un ritrovato sentimento italiano (la tradizione) e paesano (culto del luogo) della vita stessa (e quindi anche dell’arte che della vita è espressione): un mondo antico, prudente e al tempo stesso spregiudicato, realistico ma anche fantasioso, bizzarro, saldo intorno a pochi cardini di quell’antichità di sentimenti e di fede (si pensi ad un Pasolini!), ma anche pronto alla polemica, alla storia, all’invettiva contro tutto ciò che apparisse deviazione o degenerazione, ossia gli entusiasmi modernizzanti ed europeizzanti di Stracittà. Mi sembra una cosa normale che nel caso di Malaparte (chissà perché!) sembra invece essere letta in modo degenerato.

Insomma, un’esperienza da ridimensionare…

Si è verificata di recente, nella nostra storia letteraria, l’immissione di procedimenti e toni popolareschi che intenzionalmente, come nel periodo umanistico, ricreano l’equilibrio con le forme composte ed auliche. Ma credo che la “moda” strapaesana (di certo inventata per agitare le acque stagnanti della letteratura italiana) non rispecchiasse né rappresentasse il temperamento intimo di Malaparte (il quale avrebbe finito per essere etichettato come scrittore dalla visione scalmanata e carnascialesca della vita), perché se osserviamo meglio i contorni del fenomeno ne scopriamo un non riconosciuto aspetto documentario. Certo le finalità di Strapaese non erano quelle nobili della “Ronda”. Malaparte, però, possedeva un senso diverso della modernità che gli altri suoi coetanei scrittori vedevano come espressione inferiore e decadente del già vecchio e debole romanticismo straniero. In questa direzione anche la “Voce” di Prezzolini aveva con un equivoco innestato la tradizione italiana nel misticismo di Claudel, nel simbolismo di Rimbaud, nelle proposte di Apollinaire. Invece i giovani scrittore che proponevano, in opposizione, i vernacoli toscani, l’ingenua popolarità risorgimentale, lo stile della vecchia satira italiana, avevano intuito che la modernità e l’europeismo consistevano nello sviluppare un contributo nuovo e originale e non nell’aderire passivamente ad un programma o a una tendenza: ognuno quindi con le proprie qualità, non europei con qualità letterarie subordinate. La nuova generazione si alimentava così alle fonti della propria Rinascenza, non alle linee letterarie, travagliate e in crisi, degli altri Paesi. Non è forse questa la ricerca di quella identità di cui oggi tanto si parla? Del resto Malaparte non è rimasto, se non in modo fortuito, nei limiti buffoneschi di quella stagione di Maccari o dei discendenti Soffici, tra senso del reale e bizzarria letteraria tutta pervasa di vena epico-polemica ed eroico-burlesca, perché da lì a qualche anno la sua produzione si separerà nettamente dall’altra che inizierà intorno agli anni ’30 (fino agli anni ’40), ovvero il periodo della prosa d’arte e dei suoi libri di Racconti.

Qual è stato il rapporto di Malaparte con la sua provincia, Prato? E quello con le città più grandi?

Per quanto riguarda Prato, questa città non è soltanto un archetipo letterario, ma insieme ideologico e mitico, in quanto Prato è la Toscana con la sua storia (da Dante al Rinascimento) e, tornando indietro nel tempo, la patria degli Etruschi e la terra della greca misura, delle greche virtù, delle greche mitologie (si veda Maledetti toscani), ma è anche la Toscana-Prato dell’infanzia e della giovinezza perdute, con le sue immagini trasparenti, i luoghi, le voci, le sensazioni, i profumi, chiusa nel cromatismo, con gli echi di antiche vicende di dame e cavalieri, di arti e di mestieri. La Toscana-Prato come madre, nucleo originario e centro gravitazionale dell’universo malapartiano, isola psicologica, punto di partenza e di arrivo dei suoi viaggi, alfa e omega della vita, nella cui desolata geologia di morte lo scrittore, ultimo Ulisse stanco e maledetto, spera un giorno di essere sepolto (“E vorrei avere la tomba lassù, in vetta allo Spazzavento, per poter sollevare il capo ogni tanto e sputare nella gora fredda del tramontano”). Questa Toscana coincide con Prato, la città-simbolo che racchiude le memorie e i sogni e dove tutto finisce in un mucchio di stracci: sintesi finale della civiltà, calamita di tutti i rifiuti della terra, e città della sua lapide: “Io son di Prato, m’accontento d’essere di Prato, e se non fossi di Prato vorrei non essere venuto al mondo”. I rapporti con le altre città del mondo, sono soltanto occasionali e/o professionali, attraversate, descritte nei suoi libri (in Kaputt, ne Il Volga nasce in Europa, in Io, in Russia e in Cina ed altrove) ad eccezione di Parigi (e la Francia), la sua seconda patria, la cui importanza la si può soltanto comprendere leggendo il Diario di uno straniero a Parigi, dove è possibile anche capire meglio Malaparte.

Grazie all'interessamento di Galeazzo Ciano, Malaparte ottenne un posto da inviato al "Corriere della Sera". Com'era il Malaparte giornalista?

Quando dopo l’arresto a Regina Coeli ed il confino a Lipari, la Commissione medica militare di Messina lo dichiara “tuberbolitico” (conseguenza del gas yprite respirato durante la Battaglia di Bligny e causa della sua morte per cancro ai polmoni) inviandolo all’Ospedale militare di Palermo in osservazione, Malaparte chiede aiuto all’amico Borelli, allora direttore del “Corriere della Sera” per poter lavorare (scrivendo) e guadagnare così qualcosa. Borelli, con l’appoggio di Raffaele Mauri e Galeazzo Ciano, accoglie la sua collaborazione al “Corriere delle Sera”, ma “senza firma” e con “argomenti di carattere letterario e storico”. Malaparte accettò ed usò lo pseudonimo di “Candido”. Quella dell’inviato appartiene al periodo della seconda guerra mondiale sul fronte orientale che percorse tutto dalla Grecia alla Lapponia ed è questa una storia e una ricostruzione molto complessa e lunga. Dirò solo che i suoi reportages erano contraddistinti dalla verità e dall’aderenza a riferire le cose che vedeva con i suoi occhi (atteggiamento pericoloso in guerra per propaganda, per informazioni che potevano nuocere psicologicamente su chi vinceva o su chi stava perdendo, sulle prospettive d’attesa di una parte e dell’altra, e via dicendo) e per questo fu più volte cacciato dal seguito delle truppe tedesche e riaccompagnato al confine dalla Gestapo che lo riconsegnava alla polizia italiana e lui puntualmente ripartiva.

Dopo un sostegno entusiastico al regime, Malaparte rompe con Mussolini e finisce a collaborare con i servizi militari Alleati. Cosa provoca la rottura e il cambio di fronte?

C’è una terminologia che non mi funziona in questa domanda, come: “sostegno entusiastico al regime”, “finisce a collaborare con i servizi militari alleati”, “cambio di fronte”, perché le cose stanno diversamente. Innanzi tutto “questo sostegno entusiastico al regime”, come detto sopra, non ci fu, tanto che uscì dal fascismo (prima di esserne espulso!) proprio perché non lo condivideva, non l’appoggiava, né si allineava, né tanto meno ne scriveva a favore e le conseguenze sono note ed arcinote, in caso contrario sono quasi costretto a consigliare di leggere il mio “Meridiano” sulle Opere di Malaparte scritto per Mondadori, le relative ricostruzioni cronologiche letterarie e politico-ideologiche, le notizie ai testi, eccetera. Secondo: il 21 settembre 1943, pur essendo stato congedato dopo l’8 settembre dal servizio militare, è richiamato in servizio “per essere destinato al Comando Peninsulare Base Section (Uffici Informazioni)” e sarà ufficiale di collegamento col comando alleato in marcia verso il Nord (“da Cassino al Po”). Non vedo né “rotture” né “cambi di fronte”, dal momento che Malaparte non era in nessun fronte fascista che poi ha lasciato per passare ad un altro fronte e col fascismo e con Mussolini aveva addirittura chiuso (se così posso dire) nel gennaio del 1931 quando fu cacciato dalla “Stampa” di Torino per non aver accettato di “fascistizzare” il giornale e, riparato in Francia, pubblicò la Tecnica del colpo di Stato che gli valse al rientro nell’ottobre 1933 l’arresto a Regina Coeli (e poi il confino a Lipari) col seguente comunicato-stampa dell’Agenzia Stefani nella notte del 10 ottobre: “Il P.N.F. ha inflitto l’espulsione al tesserato CurzioErich Suckert per il seguente motivo: Non ha tenuto fede al giuramento prestato”, notizia anche questa falsa visto che Malaparte era uscito dal partito due anni prima: ripeto nel gennaio 1931.

La guerra porta anche alle due opere principali di Malaparte: "Kaputt", recentemente riedito da Adelphi, e "La pelle", sulla liberazione di Napoli. Quanto c'è di giornalistico e quanto di romanzesco?

In un’atmosfera proustiana, segnata fin dal titolo del primo capitolo, e quasi evocati dal mondo della Recherche, appaiono nell’orribile fantasmagoria della guerra gli infiniti personaggi di Kaputt. E come avviene nel modello francese, paesaggi, interni, nature morte, protagonisti, si fissano su una gigantesca tela, evanescente e madreperlacea, in una sorta di iperestesia della memoria. Malaparte, stanco e disgustato, si muove privo di speranza, solo con un baudelairiano senso olfattivo, uditivo, visuale: intorno a lui la nudità della vita, spoglia ormai di tutto di fronte alla verità. Caduta la maschera non restano che cadaveri viventi: vuote forme di antiche durezze e severità, con un qualcosa di oscuro e selvaggio, di grottesco e barbarico che trova riscontro nelle simbologia dell’uomo-animale (animaleschi capitoli sulla rovina dell’Europa ormai kaputt e “mamma marcia”), in quanto nel secondo conflitto mondiale gli unici a conservare un’umanità sono stati gli animali, mentre gli uomini hanno assunto il ruolo animalesco della distruzione totale. Il richiamo a un segnale di sangue nell’ultimo capitolo e la mostruosa corte di miracoli finale sono la conclusione più idonea della catastrofe bellica, altro indizio dell’immenso naufragio, significato di ciò che resta dell’umanità e l’umanità stessa. La metafora dantesca dell’antro sotto terra ci ricorda, con le sue labirintiche viscere, l’infernale condanna dell’individuo, il disfarsi, lo sciogliersi dell’uomo: ma è un inferno per innocenti (come quello della prima guerra mondiale). Kaputt: un diario segreto scritto col sangue, intitolato con una parola ebraica che, lanciata dai tedeschi come obiettivo di guerra e di sterminio totali, per una estrema ironia della sorte è ritornata loro addosso (come un boomerang) distruggendoli.

E per quanto riguarda “La pelle”?

Tra fascino e disgusto, passione e documento, anche La pelle potrebbe apparire come altro materiale d’archivio per la storia del secolo scorso. Malaparte qui non è scrittore, ma l’uomo della strada: solo così (nei panni del derelitto e del vinto) può interpretare, senza fronzoli o falsi pudori, le reazioni e i sentimenti che lo animano. Guerra quindi come maestra di corruzione e scrittore non giudice ma osservatore sereno e imparziale, ance se spietato, capace di essere “ancora cristiano” nella perdizione totale e responsabile del sacrificio e delle sofferenze. Apparentemente lo si può chiamare un “verista” non moderato, nel senso che altera toni e figure per estrarne meglio l’intima essenza delle storie, tanto che gli angeli diventano demoni e le figure umane si abbrutiscono in comportamenti animali, ma l’autore ha saputo dosare con misura e con ironia (tipiche della sua arte) la tragedia della vita. La crudezza che in Kaputt era tutta esteriore, fisica, materializzata negli oggetti, ne La pelle è dappertutto: intorno e dentro di noi, più nell’anima che nelle cose, così Napoli è il simbolo della decadenza di tutta l’Europa dove ognuno è pronto a qualsiasi cosa pur di salvare la pelle e il cui marciume trova l’ingorgo finale nell’imbuto di questa città. Atroci e nei, i due libri sono due mostri straordinari nati come improvvise deflagrazioni nella letteratura eteroclita del dopoguerra, scritti da un uomo che soffriva e che cercava di simulare la sua sofferenza nascondendosi dietro tutte le maschere possibili per soffocare il grido dell’umiliazione e dei nostri errori. Con questi due sorprendenti tableaux della miseria, Malaparte ci trascina in un mondo ignobile e odioso, da incubo inquietante e magico, dove anche qualche raro fiore è strano e velenoso, quasi sbocciato da un’apocalisse. I suoi occhi, diversi dai nostri, gettano lontano lo sguardo per individuare le menzogne della Storia e vedono l’orribile vessillo di una bandiera fatta di pelle umana. È estremamente fuorviante e riduttivo parlare di giornalismo.

La seconda parte della vita di Malaparte. Il giovane fascista si avvicina al partito comunista e, prima della morte, sembra intraprendere la via della fede

A queste due domande, molto complesse, non è possibile rispondere brevemente se non correndo il rischio di non farsi capire o di semplificare l’argomento. Posso soltanto dire che il cosiddetto “avvicinamento al partito comunista” è uno dei tanti luoghi comuni, e quindi falsi, che costellano la vita dello scrittore e che ne hanno deformato il senso e la verità attraverso una delle tante etichette che gli hanno attaccato addosso, appositamente manipolate per definirlo come uno che “cambiava di fronte” secondo le convenienze ideologico-politiche del momento. In realtà la famosa tessera del Partito Comunista Italiano che fu ritrovata dopo la sua morte fu spacciata come richiesta di iscrizione da parte di Malaparte al P.C.I. mentre invece fu offerta da Togliatti e spedita per posta alla clinica dove lo scrittore era ricoverato morente. Capirà che un conto è una tessera richiesta da uno come Malaparte ad uno come Togliatti e un conto è una tessera offerta da uno come Togliatti a uno come Malaparte. I due si incontrarono a Capri nell’aprile del 1944 ed è da quel momento che ha inizio questa ridicola storia di partito, complice un’Autobiografia dello stesso Malaparte che Togliatti pubblicò su “Rinascita” dopo la morte dello scrittore, “dimenticando” volutamente un piccolo particolare: che i due si erano già scontrati su questo punto, che Malaparte aveva smentito (da vivo) questa circostanza e che Togliatti aveva riconosciuto l’errore, errore che una volta morto Malaparte (che non poteva più smentire) fu ambiguamente riproposto da parte del P.C.I. perché ovviamente bisognava far circolare la notizia che Malaparte da fascista era diventato (convertendosi in punto di morte) comunista. E così è stato. Ma non è vero!

Quindi è il Malaparte comunista è un mito che possiamo ufficialmente sfatare…

Dimostrarlo sarebbe troppo lungo, ma mi sia consentito dire che io stesso ho ricostruito tale vicenda e posso solo segnalare le sedi in cui l’ho fatto, tutte per altro consultabili (basta avere la voglia di conoscere la verità, che non sempre conviene): la prima sede è quella della rivista di Prato intitolata “Prato Storia e Arte” numero 88/89 del dicembre 1996 circolata per il Convegno del Centenario della nascita, dove ripubblicavo l’Autobiografia in questione seguita da un saggio (che occupa le pagine 7-58) intitolato Malaparte, Togliatti ed altro; la seconda sede è stata in una miscellanea di “Studi in onore di Franco Lanza” pubblicata presso l’Università dove insegno dalla Casa Editrice Sette Città di Viterbo nel 2003 con un saggio intitolato Malaparte e Togliatti (A proposito di un’Autobiografia) nelle pagine 193-213; la terza sede è stata quella di un Convegno di Italianisti, i cui Atti (intitolati: Memorie, autobiografie e diari nella letteratura italiana dell’Ottocento e del Novecento) sono usciti nel 2008 presso le Edizioni ETS di Pisa ed il saggio (che occupa le pagine 711-720) è intitolato Un’Autobiografia di Curzio Malaparte (False verità e verità falsificate). Per l’altra conversione riguardante la fede, per la quale come è noto non esistono testimonianze, ma solo la dichiarazione del gesuita Padre Virginio Rotondi che restò da solo con lui fino alla morte (ed uscendo dichiarò la conversione), vorrei solo ricordare che Malaparte era di origine tedesca e protestante e che tutta la sua opera (e la sua vita) è pervasa da un cristianesimo originario ed essenziale che rivela più fede (non cattolica) di quanto si possa immaginare: basta leggere le sue opere, e non solo il sopra citato La rivolta dei santi maledetti, ma Kaputt o La pelle o qualche racconto, si pensi soprattutto al suo film Il Cristo proibito (e via dicendo) e vi si ritroverà scritto del Cristo, della croce, della rinuncia, del perdono, del sacrificio, della colpa, della sofferenza, della pietà, della morte di Dio, dell’innocenza, del riscatto del mondo…che la dicono lunga sulla sua vera fede.

Come descriverebbe lo stile dello scrittore Malaparte?

Non posso fare altro che confermare quanto ho scritto nell’Introduzione del “Meridiano” delle Opere di Malaparte da me curato per la Mondadori. Vale a dire che perseguendo la poetica del sorprendente e del racconto fantastico, insieme ricco di profondo significato umano, lo scrittore è capace di consegnarci una sorta di moltiplicazione dell’esistere, come in uno specchio: lo specchio nascosto dentro di noi. Si affollano così storie vissute e proiezioni immaginarie, il reale si trasforma in fantasticheria, con brani impregnati di inquietudini, di memorie, di visioni. Abile nella costruzione poetica, nella perfetta narrazione lirica, elegante nelle immagini, classico nello stile, Malaparte è stato capace con la verità dei fatti narrati, ma trasformati dall’arte, a farci “sentire” con la sua scrittura addirittura gli odori, a farci “vedere” i colori, a farci “udire” i suoni: cosa che soltanto un letterato puro sa fare, fuori dagli schemi del neorealismo del suo tempo, dai modelli ideologici degli anni in cui è vissuto, dalle formule letterarie, dalle impostazioni artistiche ma che sa usare simboli e allegorie e capace di creare in poche pagine un mondo (il suo mondo magico) dove paesaggi, avvenimenti e figure nascono dalla tristezza e dal timore, dall’amore e dall’angoscia, dal sogno e dal mistero, dall’incanto e dalla meraviglia. Tra razionalismo ed surrealismo, segnato dalla morte che è stata la sua inseparabile compagna di strada dentro di lui.

Cosa l'ha spinta ad approfondire la figura di Malaparte? Quale opera consiglierebbe di leggere o rileggere, per la sua attualità o per il suo valore?

L’interesse per Malaparte è dovuto al “caso”, ovvero alle occasioni che si presentano a chi vive nel mondo universitario. Quando cioè mi venne offerta dall’editore Mursia di Milano la stesura di un volumetto della collana “Invito alla lettura” nel 1975, dal momento che chi doveva farlo non poteva più portare a termine il contratto, e così nel 1977 uscì il mio Invito alla lettura di Malaparte. Poi il responsabile degli “Oscar” Mondadori mi affidò la curatela di diverse opere, il conseguente contatto con i famigliari, l’opportunità di pubblicare alcuni inediti (due sceneggiature per le Edizioni Scientifiche Italiane di Napoli: Il Cristo proibito e Lotta con l’angelo), poi la curatela delle Opere scelte nella collana dei “Meridiani” della Mondadori e poi via via saggi, ricerche, interventi…ed ogni volta era una scoperta diversa, un continuo approfondimento, una ricerca incessante, una necessaria verifica, perché più andavo avanti e più scoprivo che nulla era vero di quello che si conosceva, che tutto era stato falsato, che molto era stato costruito ed artefatto e che, quindi, bisognava compiere un’operazione di verità letteraria e culturale. Tutto qui: molto semplice e tutto estremamente complicato. Bisogna perciò leggerlo tutto, per capire: cioè leggere l’opera e non le critiche condizionate dall’ideologia e bisogna partire dal primo libro La rivolta dei santi maledetti (su Caporetto e la prima guerra mondiale che lo vide volontario a 16 anni), passare per gli scritti politici e di sindacalismo, per la Tecnica del colpo di Stato (dove si parla di Hitler, di Mussolini, di Trotzki ed altri) per comprendere come le rivoluzioni si trasformano in dittature e come le dittature vengono fatte passare per rivoluzioni, leggere le magiche pagine di prosa d’arte dei Racconti, e quindi Kaputt e La pelle, Maledetti toscani e Benedetti italiani, gli interventi giornalistici di Battibecco su “Tempo”, le corrispondenze dal fronte orientale Il Volga nasce in Europa e via dicendo: tutti hanno un valore in sé e tutti hanno un’impressionante attualità, dal momento che contribuiscono a capire meglio e in modo diverso ciò che è stata la nostra letteratura e la nostra cultura, il nostro costume e la nostra ideologia nella prima metà del Novecento, il periodo in cui Malaparte è stato, malgrado il silenzio, un indiscusso protagonista (sui fronti di guerra di tutta Europa e non a tavolino) col quale bisogna ancora fare i conti, nonostante le omertà intellettuali, anche perché è stato un testimone, forse scomodo, di un’epoca tutta da riscrivere.