martedì 30 giugno 2009

» 2009-06-29 16:25 TLC: COMMISSIONE UE CHIEDE CARICABATTERIE UNICO CELLULARI (click)

Dal nostro inviato Guido B.

I tecnocrati misurazucchine di Bruxelles ne hanno pensata un'altra

- Che ci fa il nostro inviato Trepassi, persona degna al massimo del forum 2, nientepopodimeno che nel forum 1 ?
- Scusi, eccellenza, ma ho sotto mano un servizio di calda attualità.
- E sarebbe ?
- Nientemeno che un'intervista al celebre burocrate Quattropassi !
- Celebre ? ...e chi lo conosce ?
- Io, mia moglie, mio cugino Evaristo...
- Mi sembrerebbe pochino, a dir la verità.
- Almeno è un inizio....la gloria universale...pardon, ora è di moda dire "globale" verrà in seguito.
- ...e questo Quattroblabla sarebbe un burocrate di Bruxelles ?
- Non ancora, ma dopo quest'intervista ce lo manderanno di sicuro, a furor di popolo !
- Beh, sul furore posso essere d'accordo, e anche che ce lo manderanno.... ma forse abbiamo idee diverse sul dove...
- Insomma, eccellenza, non ponga ostacoli all'informazione !
- Ah, ora le scemenze si chiamerebbero "informazione" ?
- Eh sì, dopo l'esempio di La Repubblica...
- Allora sia, fai pure quest'intervista.
- Bene, abbiamo qui il dottor Quattropassi, futuro burocrate di Bruxelles. -
- Buongiorno a tutti. -
- Può dire ai nostri lettori quali standardizzazioni intende imporre al popolo europeo ?
- Prima di tutto, ho notato che i ragazzi, quando avvicinano le ragazze per la prima volta, usano un numero inamissibile di tecniche diverse per ottenere lo stesso scopo...
- Non sarà il caso di lasciar fare alla Natura ?
- Vuole scherzare ? Dopo la standardizzazione delle zucchine, si impone la standardizzazione delle tecniche in amore, a cominciare dal primo contatto tra maschio e femmina !
- Non sarei personalmente d'accordo, ma, prego, ci illustri la sua proposta.
- Dunque, appena un ragazzo vede una ragazza, diciamo così, "appetibile", le si avvicina con passo deciso e le dice "europea ?"
- "Europea" ?...e perché mai, scusi ?
- Dire "italiana?" o "are you English" e via dicendo sarebbe stato ritornare ad una divisione, poco standard, e quindi inaccetabile, tra i popoli che devono invece fondersi in un unico popolo, quello europeo, un'unica radio, un'unica televisione, un unico canale, un unico giornale...
- Abbiamo capito, si calmi.
- Tutto standard, capito, tutto unico, niente più divisioni umilianti e dequalificanti, tutti veramente uguali !
- Non trova che questo sarebbe estremamente noioso, per non dir di peggio ?
- Ma sarebbe veramente standard !
- Ok, ma ci dica, come mai uno dovrebbe dire una frase così stupida come "europea ?" per avvicinare una ragazza ?
- Vede, quand'ero a Malaga, allievo ufficiale dell'Accademia Navale, cercavamo di fermare una ragazza, e non sapevamo come fare...sa, mancava uno standard...
- Oh, poverino !
- E dopo ore e ore di spremitura di meningi per trovare la frase esatta, mentre stavamo, io ed un mio amico, seguendo due belle ragazze, due semplici marinai ci precedettero, noi allievi ufficiali, fermando le ragazze con quella frase che Lei definisce "stupida".
- "Europee?"
- Ma no, non c'era ancora lo standard, non c'era l'Europa...
- Stavate in Asia o in Africa ?
- Ma che dice ? Stavamo in Europa, quella fisica, era quella politica che mancava.
- Ma davvero ?
- E così dissero "Españolas", e subito fecero amicizia.

Un debole sole si nascose dietro le nuvole, e, mentre al buon Trepassi, cadevano le braccia, incominciarono a cadere le prime gocce.

domenica 28 giugno 2009

EST - Afpak, Frattini: catalizzato consenso regionale oltre sicurezza )click)

Afpak, Frattini: catalizzato consenso regionale oltre sicurezza
Trieste, 27 giu (Velino) - “Siamo tutti impegnati a trasformare l’Afghanistan dal problema che molti considerano essere, in un vero trampolino di lancio per ridargli quel ruolo nella cultura e nelle tradizioni che ha sempre avuto nella regione. Questo è il messaggio che noi e i nostri partner vorremmo che passasse”. Sono le parole usate dal ministro degli Esteri Franco Frattini nel corso della conferenza stampa conclusiva della tre giorni dei capi delle diplomazie del G8 a Trieste. La dichiarazione finale è stata tutta incentrata sul tema della stabilizzazione di Afghanistan e Pakistan (Afpak). Nel suo discorso Frattini ha lasciato sullo sfondo il tema della sicurezza, mettendo a fuoco invece le questioni sulle quali si sono concentrati gli otto grandi e i Paesi invitati a Trieste per discutere di Afpak secondo un approccio regionale. “L’Afghanistan - ha spiegato il ministro - merita il nostro sostegno, va incoraggiato per moltiplicare gli sforzi che sta facendo e che si stanno registrando. Il successo del Pakistan porterà al successo in Afghanistan e viceversa. Sono due Paesi con storie diverse che richiedono soluzioni diverse, ma che devono collaborare in una prospettiva regionale, che è interesse non solo loro, ma anche noi - ha puntualizzato - non vicini diretti, siamo interessati a che queste nazioni consolidino la strada verso la stabilizzazione, il rafforzamento delle istituzioni, la crescita economica e sociale. Serve poi dare coerenza agli sforzi che molti stanno intraprendendo, ma che spesso non sono coordinati tra loro. Oggi abbiamo avuto tutti seduti allo stesso tavolo: organizzazioni internazionali, finanziarie, Stati membri, Stati vicini e la dichiarazione finale rispecchia davvero l’azione coordinata di tutti quelli che hanno qualcosa da dire sulla regione”.

“Abbiamo catalizzato il consenso - aggiunge Frattini - su alcune grandi linee guida:

ELEZIONI - Che vi siamo in Afghanistan elezioni presidenziali credibili e che si prosegua con il voto politico nella primavera del 2010. Ci siamo impegnati a fare in modo che le elezioni si svolgano in sicurezza e legittimate dal popolo afgano. Vi è un accordo pieno - ha spiegato il ministro - per sostenere l’Afghanistan nel processo elettorale. Abbiamo un duplice impegno: l’invio di Osservatori Ue per le presidenziali e l’impegno come Osce per inviare una ulteriore missione parallela di monitoraggio e di supporto. Come vedete Ue, Osce e G8 faranno la loro parte. L’Italia, dal canto suo invierà un battaglione (fino a 500 uomini) per il periodo elettorale. Altri Stati faranno la stessa cosa”. “Abbiamo ribadito al collega Spanta - presente a Trieste ha aggiunto Frattini - che vogliamo vedere una campagna basata sui programmi dei rispettivi candidati. E lui ci ha annunciato che il presidente Hamid Karzai ha programmato una serie di visite nelle principali province dell’Afghanistan per presentare le sue proposte. Ci sembra questo un intendimento che va nella direzione giusta”. Quanto all’appello di Karzai affinché i talebani vadano a votare, ha evidenziato: “Vi è la convinzione, sottolineata anche dai paesi del Golfo e della Lega araba, che quando consideriamo la galassia dei talebani noi dobbiamo essere capaci di avviare un lavoro di distinzione tra i gruppi tribali, che sono prigionieri del terrorismo e di Al Qaeda, e quelli che possono essere ricondotti alla legalità costituzionale in una ottica di riconciliazione. Questa è la dimensione dell’invito di Karzai, che condividiamo”. (segue)

FRONTIERE - “Tra gli altri aspetti evidenziati - ha spiegato il capo della diplomazia italiana - c’è la gestione delle frontiere comuni, che richiedono risposte comuni. Dalle frontiere passano i beni e i servizi ma anche i criminali e i terroristi. Servono centri regionali coordinati di controllo in cui personale afgano e pachistano lavorino insieme, con le stesse procedure di valutazione, gli stessi criteri di ispezioni e principi doganali. Perché se circolano le informazioni e i dati di intelligence i criminali possono essere individuati”. “Va ricordato inoltre - ha precisato il ministro - che il 90 per cento degli oppiacei sono prodotti in Afghanistan e il 40 per cento prende la strada dell’Ovest, passando dall’Iran e poi verso l’Europa. L’Ufficio Unodc del professor Costa ci ha spiegato come tutti i Paesi siano interessati alla questione. Si pensi solo che il sei per cento della popolazione iraniana è tossicodipendente: ecco una buona ragione perché l’Iran collabori con noi. Abbiamo apprezzato l’idea che si sviluppi a Teheran un centro dell’agenzia Unodc per coordinare gli sforzi regionali proprio sul traffico della droga”. “L’Italia - ha sostenuto Frattini - ha la corresponsabilità sulla provincia di Herat, che ha 600 km di frontiera con l’Iran ed è evidente che i nostri militari sottolineano la necessità di una cooperazione con Teheran. Cooperazione che esiste sul terreno ma non è né strutturata né organizzata, ma è basata sui buoni rapporti. Noi avremmo chiesto di più: una collaborazione politica, strutturata e organizzata, fermo restando quello che resta adesso a livello operativo”.

Quanto alla mancata partecipazione dell’Iran alla conferenza di Trieste, il capo della Farnesina ha dichiarato: “È stata una occasione perduta per l’Iran che ha evidentemente un chiaro interesse a partecipare alla stabilizzazione di questa regione. La droga, le infrastrutture, sono tutti temi di interesse comune. Molti dei partecipanti regionali hanno detto che esistono già rapporti bilaterali e trilaterali tra l’Iran e l’Afpak, ma credo che Teheran dovrà impegnarsi non più solo a questo livello, ma con tutta la comunità internazionale per concorrere in modo costruttivo sui temi della droga e dello sviluppo agricolo. Spetta agli iraniani trasformare questo interesse in una partecipazione”.

ECONOMIA - “Se non c’è sviluppo economico non c’è rilancio sociale - ha sottolineato il capo della diplomazia italiana -. Va quindi aiutato lo scambio tra Afghanistan e Pakistan ma anche tra il Pakistan e l’Europa. Il nostro continente dovrebbe avere più coraggio per arrivare presto a un accordo di libero scambio con Islamabad. L’agricoltura è il capitolo economico sul quale ci siamo più soffermati e abbiamo pensato con la Fao a un ‘piano Marshall verde’ che si possa basare sul piano nazionale afghano, appena varato, e che goda di incentivi per riattivare le colture importanti e redditizie scomparse a favore dell’oppio. La produzione vinicola e agricola sono la chiave del successo per i due Paesi”.

RIFUGIATI – Sul tema dei rifugiati Frattini ha riferito: “L’Afpak si trova davanti a una grande sfida. Richiamare cioè quelle migliaia, se non milioni, di pachistani che hanno lasciato il Paese creando una serie di condizioni attrattive per farli rientrare. Puntando cioè sull’agricoltura e il ritorno dell’elettricità, che, alcuni sorrideranno, è tornata, per esempio, a Kabul per tutto l’inverno solo l’anno scorso. Ricostruire queste condizioni minime è la chiave per far rientrare gli emigrati. Poi c’è anche la problematica degli oltre due milioni di sfollati interni, della quale ci dovremo occupare”.

LA SOCIETÀ CIVILE - “Centrale - aggiunge il ministro - è l’educazione e noi crediamo che l’educazione capillare e precoce debba essere destinata ai bambini e alle bambine, così come alle donne che sono tra le categorie più deboli. Il sistema educativo dovrebbe essere sostenuto dalle radio e da internet affinché passi un messaggio di inclusione. Vorremmo inoltre che i programmi di inclusione sociale per le donne fossero moltiplicati. Ne abbiamo parlato anche con la Lega araba e porteremo le nostre conclusioni operative al G8 dei leader dell’Aquila. Sia Pakistan che Afghanistan chiedono più contribuiti per i settori di cui abbiamo parlato, ma quella di ieri e di oggi non era una conferenza di donatori. Noi ci ritroveremo il 24 settembre a New York, a margine dei lavori dell’Assemblea generale dell’Onu, per fare il punto su cosa è accaduto da oggi a settembre nei dossier trattati ieri (Iran e non proliferazione) e oggi (Afpak)”.

sabato 27 giugno 2009

Cronache di una terribile guerra. (click)

" Grande beffa ai talebani ". di Mattia Ferraresi
David Rohde è fuggito dalla prigione talebana in cui era rinchiuso da sette mesi

David Rohde

Nella notte fra venerdì e sabato scorso il reporter del New York Times David Rohde è fuggito dalla prigione talebana in cui era rinchiuso da sette mesi. Con lui c’era il giornalista afghano Tahir Ludin. A coprire l’evasione, soltanto la vasta notte asiatica. Rohde adesso è, come si dice, sano e salvo, finalmente fra le braccia della moglie, Kristen Mulvihill, con la quale si era sposato appena due mesi prima di cadere, il 10 novembre, nella trappola talebana tesa da un luogotenente di medio livello che Rohde stava andando a intervistare. Quella di David Rohde è una vicenda a lieto fine che passa per uno svolgimento travagliato, per fasi alterne, angosce casalinghe, territori infidi sui quali si gioca un mestiere fatto alla vecchia maniera. Una di quelle storie che il linguaggio paludato del giornalismo riporterebbe a qualche mese di distanza sotto il titolo “I sette mesi che hanno tenuto il mondo con il fiato sospeso”, se soltanto fosse vero. Perché di un mondo con il fiato sospeso in questa storia non si ha notizia. Rohde non è uno qualsiasi. Non è uno stagista troppo zelante che si rende conto tardi di averla fatta grossa; non è un parvenu, un soldatino spaccone in cerca di fama né un garzone che da grande vuole fare il giornalista. Lui di premi Pulitzer ne ha vinti non uno ma due. Il primo nel 1996, quando raccontò il massacro di Srebrenica per il Christian Science Monitor. Allora aveva 29 anni e anche lì fu vittima di un sequestro. Il secondo l’ha vinto l’anno scorso assieme a un team di colleghi del New York Times. Le loro storie su Afghanistan e Pakistan sono state giudicate le migliori in circolazione. Nell’autunno scorso aveva organizzato un’intervista con Abu Tayeb, veterano della resistenza afghana contro l’Armata rossa ora a capo di un manipolo di talebani nelle zone tribali a sud di Kabul. Il cronista americano stava raccogliendo testimonianze per un libro inchiesta sull’Afghanistan. Per un professionista come Rohde si trattava di una missione con coefficiente di difficoltà medio. Abu Tayeb è considerato un pesce di piccola taglia per gli standard dell’Intelligence un signorotto che muove i 1300 uomini che dice di avere dalla sua più per i soldi che per lo sterminio degli infedeli. Diversi giornalisti hanno interrogato Tayeb nel suo compound nella provincia di Logar e un mese prima che il reporter si avventurasse, senza saperlo, verso sette mesi di prigionia, la giornalista francese Claire Billet si era infiltrata in quello stesso gruppo di talebani, realizzando un documentario di trenta minuti mandato in onda da France Tv 24 e ne era uscita infine senza che le fosse torto un capello. Oltre al giornalista-traduttore Ludin, ad accompagnare Rohde c’era anche un autista, Asadullah Mangal, che con il fratello gestisce un’impresa di trasporti. Ludin, personaggio che i giornalisti occidentali considerano ormai da molto tempo affidabile, si era occupato di organizzare l’incontro. Era stato in visita da Abu Tayeb un paio di volte per accompagnare altri giornalisti stranieri. Aveva aperto un buon contatto, un rapporto di fiducia. Ovviamente quel giorno le cose non sono andate come previsto. Rohde non ha nemmeno visto Abu Tayeb. All’arrivo dei reporter, alcune guardie di Tayeb li hanno portati via, dicendo semplicemente che il loro boss gli aveva ordinato di fare così. In quel preciso momento l’accaduto scivola sul piano inclinato dell’oblio, viene rimosso, nessuno ne parla, nessuno ne scrive, Rohde viene dimenticato dal mondo fino al 20 giugno di quest’anno. La notizia della fuga di Rohde assieme al compagno Ludin viene data dal New York Times in un racconto appassionato in cui si ripercorrono con la tipica enfasi narrativa le fasi della liberazione: Ludin che sfida un secondino a un tipico gioco locale per tenerlo sveglio più a lungo possibile, Rohde che approfitta della distrazione per accovacciarsi in un luogo strategico. Infine, il sonno del nemico, e i cospiratori che dormono con un occhio solo, come achei nel ventre del cavallo mentre Troia si ubriaca. All’una di notte Rohde sveglia il collega, insieme valicano il muro del compound con una corda rubata ai carcerieri due settimane prima e si calano dall’altra parte. Fuori i cani si mettono ad abbaiare e al posto della scena cinematografica in cui o si viene ribeccati e la trama s’infittisce o arriva un elicottero dei servizi segreti che salva la situazione, succede una cosa sorprendente: niente. Nessun talebano all’orizzonte, nessuna figura umana. Quindici minuti di cammino e i due arrivano a un posto di blocco controllato dall’esercito pakistano. Vengono scambiati per attentatori suicidi, le urla coprono la scena, ci vuole un quarto d’ora di nervi tesi per convincere i poliziotti che stanno dalla loro parte – le barbe lunghe non aiutano –, che sono fuggiti miracolosamente dalle mani dei talebani. Fine della storia, tutti a casa; a parte l’autista, che probabilmente si è trovato a meraviglia con i bravi di Abu Tayeb e ha deciso di rimanere in loro compagnia, o forse, secondo altre fonti, sapeva tutto dall’inizio. Il racconto del NYT è basato sulla testimonianza di Ludin, mentre Rohde non ha parlato, limitandosi a confermare la versione del compagno di prigionia. Nel frattempo il direttore del NYT, Bill Keller, racconta i retroscena della vicenda al programma “This Week” di George Stephanopoulos. Il giornale, spiega Keller, ha deciso di adottare la strategia del “media blackout” per proteggere David Rohde, ha preferito non parlarne per non fare salire le quotazioni della sua vita presso i rapitori. Lo staff del NYT si è speso in questi mesi per convincere i colleghi di mezzo mondo a bucare la notizia, a occultarla, ad anteporre le ragioni di sicurezza a quelle professionali, a proteggere tutti i giornalisti che sarebbero finiti in pericolo se il rapimento di un collega avesse tenuto “il mondo con il fiato sospeso”, appunto. E per la liberazione di Rohde, dice Keller, “non è stato pagato nessun riscatto”. La storia, raccontata così, è bella e avventurosa ma forse leggermente troppo patinata. La versione del NYT ha dei buchi, parti oscure e lascia l’impressione di avere un finale di partita in cui vincono tutti. E alla liberazione di Rohde i reporter americani si sono scatenati per unire i puntini. In novembre, oltre ai canali dell’intelligence americani, il NYT si è affidato per i negoziati ad un’agenzia privata specializzata in rapimenti e riscatti, la Clayton Consultants, contattata da Aig, il colosso assicurativo che gestisce le polizze del NYT. Secondo diverse fonti, il gruppo editoriale aveva messo insieme una cifra attorno ai due milioni di dollari per la liberazione di Rohde. Quando gli uomini della Clayton hanno preso contatti con i rapitori, è stato immediatamente chiaro che la cifra proposta dagli americani (780mila dollari, somma congrua secondo le stime dell’agenzia) era nettamente inferiore alla richiesta dei rapitori, che volevano 25 milioni di dollari e il rilascio di quindici sodali detenuti a Guantanamo. Qualcosa era andato storto. Le guardie corrotte di Abu Tayeb avevano subito fiutato l’affare e avevano venduto i prigionieri a un boss talebano di primo rango, Siraj Haqqani, negoziatore ampiamente più potente di Tayeb. La “gallina dalle uova d’oro” – così i negoziatori dicono fosse soprannominato Rohde dai carcerieri – era in una trappola estremamente costosa da disinnescare. A quel punto i rapporti fra la Clayton Consultants e il NYT si sono raffreddati, mentre la moglie di Rohde premeva perché ogni strada fosse intrapresa. Diverse fonti interne ai contractors rivelano ora che è stata pagata la cifra di un milione di dollari, non come riscatto, ma per creare quella minima rete di corruzione necessaria alle operazioni di fuga. E per fare in modo che molte paia di orecchie non sentissero quei cani abbaiare.

giovedì 25 giugno 2009

Giusto tenerlo a mente.

L’amico del Cavaliere: molti altri fanno le cose imputate a Berlusconi

«Un complotto, Silvio reagisca
È come la vicenda Montesi»

Angelo Rizzoli: alle feste romane anche leader di sinistra con ragazze di poca virtù

ROMA — «Questa storia me ne ricorda un’altra, di cui mi sono occupato molto tempo fa, quand’ero ragazzo. Facevo uno stage alla McGraw-Hill, la grande casa editrice america­na, e mi affidarono l’editing del libro dell’ex ambasciatore inglese a Roma, in cui si ricostru­iva il caso Montesi. Una vicenda di cui serbavo memoria personale: anche se avevo solo dieci anni, ricordo bene i memoriali che i rotocalchi, compresi quelli di mio padre come Oggi, pub­blicavano pagando profumatamente ragazze sconosciute: Anna Maria Caglio detta il cigno nero, Adriana Bisaccia... Tempo dopo, ebbi mo­do di conoscere i protagonisti della vicenda, Piero Piccioni e Alida Valli, che me ne raccontò i dettagli quando la incontrai in America. Le analogie sono impressionanti».

Angelo Rizzoli ne è convinto: «Sotto certi aspetti, la vicenda di Palazzo Grazioli è la foto­copia del caso Montesi. Non c’è un cadavere, per fortuna. Ma ci sono i festini. Ci sono le ra­gazze che raccontano. C’è un leader politico da colpire: ieri Attilio Piccioni, oggi Berlusconi. E c’è un disegno, diciamo pure un complotto. Lei ricorda il caso Montesi? Wilma Montesi, la ragazza trovata morta sulla spiaggia di Torvaia­nica. Le indagini sono nelle mani della polizia, quindi del ministero dell’Interno, quindi di Amintore Fanfani, il grande rivale di Piccioni. Al resto provvede l’ufficio affari riservati del Vi­minale. Nascono leggende secondo cui la Mon­tesi ha partecipato a un festino, allora si diceva a un’orgia, ed è morta per overdose, il corpo gettato in mare. Il festino sarebbe stato organiz­zato nella villa del sedicente marchese Monta­gna, e vi avrebbe partecipato Piero Piccioni, fi­glio di Attilio. Che in realtà era a Positano con Alida Valli; ma, da galantuomo, tacque per non inguaiare la donna che amava. Un errore imper­donabile, in un Paese dove i gentiluomini non sono apprezzati. Anni dopo, ottenuto il divor­zio, la Valli ristabilì la verità. Il processo di Ve­nezia smontò tutto. Ma ormai Attilio Piccioni si era dimesso e aveva lasciato la politica».

Accadrà anche a Berlusconi? «Dipende da lui. Se avrà uno scatto, se saprà reagire come ad esempio nella campagna elettorale del 2006, ne uscirà. Silvio deve dare risposte. Ma non sulla vicenda D’Addario. Di questa storia meno parla, meglio è. È stato imprudente a esporsi in prima persona: un presidente del Consiglio non si occupa della spazzatura, del fango. È inutile che precisi di non aver mai pa­gato una donna: chi può immaginare Berlusco­ni con un mazzo di euro in mano che retribui­sce la D’Addario? Il presidente del Consiglio ha dei portavoce: affidi a loro il compito di dire poche, scarne e definitive parole che chiudano il caso. Sia più attento in futuro a chi invita a casa sua. E dia le risposte che il Paese attende davvero. Sulla crisi economica, e non solo: l’Ita­lia è vecchia, lenta, burocratica, incartapecori­ta. Il peggio verrà in autunno; ma Berlusconi può ancora rimetterla in moto. Può essere che mi faccia velo l’amicizia, però ne sono convin­to ». L’amicizia tra Angelo Rizzoli e Silvio Berlu­sconi nacque nel 1974. «Arrivò in via Solferino con le carte e i piani per Milano2, a protestare per un articolo del Corriere di Informazione se­condo cui su quell’area doveva sorgere un cimi­tero. 'Meglio pensare ai vivi che ai morti, no?', mi disse. Aveva ragione lui. Fu Berlusconi a riavvicinarmi a Montanelli. Indro era venuto da mio padre e da me a chiedere aiuto per il suo Giornale; ma noi avevamo appena preso il Corriere. Tempo dopo, Silvio mi invitò a pran­zo con Montanelli in via Rovani. Alla fine In­dro disse: 'Ti perdono, ma non potrò mai per­donare tuo padre'». Erano gli anni della P2. «Per me la P2 è una lista di nomi fatti trovare da Gelli a Castiglion Fibocchi — risponde Riz­zoli —. Cosa fosse davvero, io non l’ho mai sa­puto. Non ho mai partecipato a una riunione, al processo non sono stato chiamato neppure come teste. Ho avuto sei processi per altri moti­vi, e sono stato sempre assolto. E mentre ero ingiustamente in carcere, in isolamento, tre so­le persone mi hanno scritto: Montanelli, Lina Sotis, e Berlusconi, che offriva di far interveni­re Craxi per rendere il mio regime carcerario meno duro. Quando uscii, a Milano tutti face­vano finta di non conoscermi. Mi diedero pure lo sfratto. Berlusconi mi chiamò e mi disse: se tu produci dei film, io te li compro. Fu di paro­la ». Ma chi è oggi a tramare contro di lui? «Non lo so. Certo in Italia si era creata un’anomalia: nessun uomo ha avuto tanto potere come Ber­lusconi tra il 2008 e il 2009. Agnelli aveva pote­re economico, non politico. Craxi aveva una forte personalità ma era minoritario nel Paese. Prodi, Ciampi, Amato erano grands commis senza partito. Berlusconi sommava in sé finan­za, politica e un consenso altissimo. Ora che è stato trovato il suo tallone d’Achille nella vita privata, Silvio paga il fatto di aver infranto un equilibrio consolidato». Davvero lei crede che qualcuno possa aver pagato la D’Addario? «Non occorrono soldi; ci sono altre gratificazio­ni. Per una donna di 42 anni, che ha provato in ogni modo a sfondare senza riuscirci, che nella logica dell’industria dello spettacolo è quasi una vecchia signora, le copertine sono un ri­chiamo irresistibile».

E Veronica? «Veronica vi­ve in un castello dorato, si sposta con aerei pri­vati, non frequenta nessuno tranne quattro amiche milanesi che vanno bene giusto per lo shopping ma se chiedi chi è Obama non lo san­no. Veronica è condizionabile; e probabilmen­te è stata condizionata. Dicendo che il marito non sta bene ed è inaffidabile, non si è accorta di far male ai suoi figli, di destabilizzarli. So­prattutto il più piccolo, Luigi, che andrebbe in­vece sostenuto: a volte ci si ritira nella religio­ne come fuga dal mondo». Berlusconi non ha proprio nulla da rimproverarsi? «Ha avuto uno stile di vita imprudente. Del resto lui è come mio nonno, che adorava le donne, e in età ma­tura amava circondarsi di ragazze giovani: l’ul­timo soffio prima del tempo in cui, come dice­va Turgeniev, i ricordi diventano rimpianti, e le speranze illusioni. Ma Berlusconi non deve giustificarsi di nulla. Mia moglie Melania e io riceviamo spesso, qui in casa. E spesso gli ospi­ti portano qualcuno. Mica possiamo chiedergli i documenti?». «Roma — racconta Rizzoli — non cambia con il cambiare dei regimi. La più grande indu­stria, con l’edilizia, è lo spettacolo. A Roma arri­vano migliaia di ragazze e anche di ragazzi di­sponibili a ogni genere di esperienza. E arriva­no politici, imprenditori, finanzieri, che lonta­no dalle famiglie si sentono come in vacanza, e la sera vogliono divertirsi. Le cose imputate a Berlusconi sono state fatte da molti altri. Ne ho visti tanti, di ministri e anche di presidenti del Consiglio, girare con ragazze di poche virtù. Ho visto anche leader di sinistra fare lo stesso. Ho ricevuto telefonate di un ex magistrato che raccomandava una bionda conduttrice televisi­va. Su due sole persone a Roma non ho mai sentito un pettegolezzo: Gianni Letta e suo ni­pote Enrico. Per questo nessuno dovrebbe at­teggiarsi a moralista. Chi può permettersi di fis­sare, e a qualche altezza, l’asticella della morali­tà? ». Aldo Cazzullo

Il Diavolo fa le pentole ma non i coperchi




Scritto da D. Massimo Lapponi O.S.B.
mercoledì 24 giugno 2009
Image
Spesso i poeti comprendono i misteri della terra e del cielo meglio dei filosofi e dei teologi.
Se c’è una cosa giusta detta da Nietzsche è la sua affermazione che la virtù deve essere liberata dall’acidità morale. Ora non c’è dubbio che anche il più sfegatato lefreviano non potrebbe sinceramente negare che nel Concilio Vaticano II non c’è più traccia di quell’acidità morale purtroppo prima tanto comune, e che ad ogni pagina dei suoi documenti si sente fremere il desiderio di mettere l’amore al fondo di tutto. Basterebbe questo a far perdonare i tanti difetti di cui, a torto o a ragione, il Concilio è stato accusato, e che tutti si potrebbero riassumere nel suo eccessivo ottimismo sulla situazione del mondo contemporaneo e sul suo vantato “progresso” tecnico e sociale. E’ proprio vero che l’amore redime tutto e che lo spirito di amore che aleggia nei suoi documenti testimonia più di ogni altra cosa la presenza operante del soffio divino dello Spirito Santo!
Ma, come si diceva, i poeti spesso capiscono le cose meglio dei teologi e già da secoli essi avevano anticipato quest’aspetto, così amabile, del Concilio. Mi ricordo ancora l’impressione sgradevole suscitata in me, giovinetto, dalla lettura di un episodio della vita del Santo Curato d’Ars scritta dall’ottimo Mons. Gilla Gremigni, vescovo di Novara e amico di famiglia, in cui si narrava del piccolo Giovanni Maria Vianney che si ritraeva inorridito di fronte all’accenno di una bambinella sua coetanea ad un loro possibile futuro matrimonio. L’autore commentava, compiaciuto, che certamente il Signore dall’alto dei cieli aveva approvato e benedetto il sacro orrore del futuro santo. Istintivamente rimasi poco convinto.
Sempre istintivamente, fin da piccolo fui profondamente colpito e indotto alla riflessione dal testo di un poeta-musicista che ebbi modo di conoscere, grazie a mio padre, ad appena dieci anni. A quell’età infatti il mio saggio genitore mi portò per la prima volta al Teatro dell’Opera per farmi ascoltare il “Mefistofele” di Arrigo Boito. Mi ricordo ancora che il giorno dopo mi sedetti al pianoforte e, con la poca perizia che avevo, mi misi a strimpellare la scena del giardino - secondo atto - leggendola da un vecchio spartito della biblioteca paterna. Più tardi avrei apprezzato maggiormente il terzo atto, anche come messaggio spirituale. Ma, pensandoci bene, nel secondo atto, almeno in un punto, si trova una suggestione forse anche più profonda. Mentre Faust fa la sua corte a Margherita, Mefistofele finge a sua volta di corteggiare Marta, o piuttosto è quest’ultima che accenna ad un corteggiamento. Ma ad un certo punto, ai vaghi accenni di costei, Mefistofele risponde: “Non so, credetelo, che sia l’amor.” Sembrerebbe una semplice affermazione di convenienza mondana, ma a sottolineare che si tratta invece di un doppio senso dalle risonanze di una profondità insondabile interviene il fagotto, che, con il suo timbro cupo, riecheggia il canto di Mefistofele. Con i miei dieci anni capivo benissimo che il poeta aveva perfettamente ragione a far dire al Diavolo: “Non so, credetelo, che sia l’amor”, e se il buon vescovo di Novara avesse introdotto una distinzione teologica tra amore sacro e amore profano, non mi avrebbe affatto convinto.
Che l’amore sia, nella sua essenza, uno solo lo avevano già capito da un pezzo poeti come Dante, Petrarca o Tasso. Così Petrarca, con disarmante semplicità, rivolge alla Vergine Santissima la lode più bella, quando Le dice: “tre dolci e cari nomi ài in te raccolti, madre, figliuola e sposa.” Probabilmente Mons. Gilla avrebbe arricciato il naso, credendo, a torto, di imitare così il Padre Eterno - ma forse è soltanto una mia malignità su quello che, ingenuamente, quando era già vescovo, continuavo a chiamare “Padre Gilla.”
Lo scrittore C.S. Lewis ha affermato una volta che, se potesse, il Diavolo toglierebbe al peccato ogni godimento. Infatti egli non ha nessun gusto a far godere gli uomini ed è costretto a sopportare contro voglia che il peccato sia accompagnato dal piacere. Ciò può avere un senso più profondo di quanto appaia a prima vista. Si potrebbe infatti sostenere che il godimento che accompagna il peccato, appunto perché viene da Dio e non dal Diavolo, sia un richiamo amoroso dell’Onnipotente, che ha disseminato tracce della Sua bontà in tutte le creature per attirare a sé gli uomini. Quasi dicesse: “Chi l’ha fatta questa creatura così amabile? E non saprò io meglio di te, o meglio del tuo peggior nemico, come si deve usare? Usandola male finirai per perderla!”
Se ciò vale per tutte le creature, tanto più varrà per la più bella e più amabile - almeno così dovrebbe essere nel disegno divino! -: la compagna dell’uomo. E certamente se c’è un amore voluto da Dio e che ci fa pregustare l’amore divino è l’amore tra l’uomo e la donna. Mi ricordo ancora che, quando eravamo ragazzetti - ma ragazzetti di altri tempi! - mio fratello mi disse, certamente non imboccato da nessuno, che Dio non aveva annullato, dopo il peccato, l’amore tra l’uomo e la donna - che allora cominciava a sussurrare ai nostri cuoricini non pervertiti, come spessissimo purtroppo lo sono oggi - per lasciare un ricordo del paradiso terrestre. Dopo forse ci siamo un po’ guastati, ma allora certamente non eravamo meno poeti di Dante e di Petrarca!
Racconta sempre C.S. Lewis in un suo scritto autobiografico di essere stato da ragazzo in un collegio in cui vigevano bullismo e omosessualità, e commenta:
“Se chiunque di noi che ha conosciuto una scuola come Wyvern osasse dire la verità, dovrebbe dire che la pederastia, per quanto riprovevole in se stessa, era, lì ed allora, il solo punto fermo o il solo rifugio rimasto contro le altre brutture della scuola. Era il solo antidoto alla lotta sociale; la sola oasi (per quanto verde soltanto di alghe e irrigua soltanto di putride acque) nel bruciante deserto della competitività e dell’ambizione. Grazie ai suoi amori contro natura, e forse solo grazie ad essi, il barone usciva un poco da se stesso, dimenticando per alcune ore di essere Una Delle Persone Più Importanti Che Vi Siano. Il quadro si rischiarava. La perversione era l’unico spiraglio aperto al passaggio di qualcosa di spontaneo e di non calcolato. Dopo tutto, Platone aveva ragione. Eros, per quanto capovolto, insozzato, distorto e putrido, conserva ancora tracce della sua divinità.”
Questa profonda riflessione ci suggerisce che forse il Diavolo, appunto perché è costretto ad usare armi non sue - infatti niente gli appartiene! - e cioè l’amabilità delle creature, potrebbe trovarsi infine ad aver fatto male i suoi conti. Per allontanare gli uomini dal loro vero bene non può far altro che usare… beni veri! Certamente ha interesse a fomentare orgoglio, ribellione, avidità, discordia, ma non ha nessun interesse a risvegliare l’amore, che, per quanto sia degradato, parla pur sempre al cuore di gioia e di felicità - nella quale ha “fede cieca”, “sperando contro ogni speranza”! - e non si adatta a calcoli di alcun genere, ma, quanto più si scatena nella passione insaziabile, tanto più sfugge ad ogni controllo, anela ad una felicità sovrumana, non si accontenta, non obbedisce alla “fredda ragione”, risveglia nel cuore il desiderio di eroismo, di donazione, di qualche cosa che non sa, che va oltre ogni limite e che si misura solo con l’infinito.
Ma come il peccatore, sconvolgendo i piani del Demonio, potrebbe, attraverso il sesso sfrenato, giungere a scoprire, con indicibile sbalordimento, che il “godimento infinito” esiste veramente, anche se in un posto del tutto impensato, così il moralista acido potrebbe essere costretto a scoprire che il peccatore, in fondo, aveva meno torto di lui, o meglio, che tutti e due avevano torto nella loro unilateralità.
Cercherò di spiegarmi meglio. S. Paolo viveva nell’attesa imminente del ritorno di Cristo. Per questo raccomandava il distacco radicale da tutte le cose del mondo: “Il tempo ormai si è fatto breve… perché passa la scena di questo mondo.” In questa prospettiva avrebbe voluto per tutti, o per la maggior parte, la scelta del celibato. Infatti “chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso! Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito.”
Ma poi si vide che la fine del mondo non era così imminente e che la maggior parte delle persone erano portate a sposarsi, anche per portare avanti un mondo che non voleva saperne di finire. Allora le donne cristiane vollero dimostrare a S. Paolo che non era vero che esse costituivano una diversione per il marito, per cui egli si sarebbe trovato diviso. E per questo avevano dalla loro parte non il Paolo teologo, ma il Paolo poeta - a proposito, in questo anno paolino, che volge al termine, mi sembra che nessuno si sia occupato del Paolo poeta! -, il quale, nella seconda lettera ai Corinti, usa questa immagine: “Io provo… per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi ad un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo.” Questa immagine doveva poi essere sviluppata dalla lettera agli Efesini, che probabilmente non è di S. Paolo, ma che respira la teologia e la poesia paoline. Dunque l’immagine poetica dello sposo - Cristo - e della sposa - la Chiesa - ci suggerisce che nell’amore nuziale ci sia un misterioso elemento divino, che non soltanto non distrae da Cristo, ma avvicina a Lui. Ciò sarà tanto più vero quanto più la sposa sarà santa. Come dice S. Pietro, parlando dei mariti non credenti: “se alcuni si rifiutano di credere alla Parola, vengano dalla condotta delle mogli, senza bisogno di parole, conquistati considerando la vostra condotta casta e rispettosa.” Questo rovesciamento di prospettive era destinato ad un glorioso avvenire, che avrebbe portato la donna cristiana agli apici della santità e dell’onore.
Un’analoga evoluzione, con un certo rovesciamento di prospettiva, si potrebbe verificare oggi. I preti una volta potevano permettersi di ignorare un po’ il “pianeta donna” - ricordiamoci, ridendo, dello “scandalo” di un tempo per le “donne in pantaloni”! Ma oggi il sesso “debole” si è fatto valere e ha messo sul tappeto tutte le sue “armi”, tanto che, anche non volendo, bisogna fare i conti con esse. Che fare? Bisogna rinunciare alla “castità sacerdotale”? Questo mi sembra un po’ una sconfitta, una perdita di qualche cosa di troppo prezioso. Piuttosto bisogna approfondire i sentimenti e i pensieri. La “poesia” della lettera agli Efesini ci può illuminare: “In Lui ci ha scelti” dice il testo apostolico “prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati nell’amore.” Dunque l’amore più grande va congiunto con l’immacolatezza. Ciò significa che una purezza “frigida” non è una vera purezza e che un amore “impuro” non è un vero amore. Più grande è la purezza, più si apre spontaneamente all’amore, e più grande è l’amore, più aspira alla purezza, alla castità, alla verginità. L’amore più grande è l’amore verginale di Maria, “madre, figliuola e sposa” più di ogni altra figlia di Eva.
Dunque il sacerdote non sarà più - se mai lo è stato - quello che non ama - e che non ama la donna in particolare - ma quello che ama troppo per cercare un amore carnale - e non mi dispiace dire questo all’inizio dell’anno sacerdotale -, e gli sposi cristiani non saranno quelli che usano la “pillola blu”, ma quelli che imparano dal sacerdote ad amarsi, nel loro proprio ordine, in modo essenzialmente non carnale - e ciò sempre non perché amano di meno, ma perché amano di più.
“Questo cerca delle scuse!” direte. Infatti!.. Ma, scuse o non scuse, non sarebbe assai bello che tutto l’incendio che ha scatenato Belzebù si risolvesse infine in un risveglio di amore verginale, apostolico, monogamico, spirituale? “Vo’ che la tua bontà, dolce Signore” cantava Santa Teresa del Bambin Gesù, “mi faccia dopo ciò morir d’amore… La dolce fiamma ti ricorda, o Dio, onde volevi accendere ogni cuor! Questa fiamma l’hai messa nel cuor mio, ed il ne voglio effondere l’ardor!”
La fredda ragione parlerà di illusioni e di utopie. Ma il Demonio, con il “pandemonio” che ha messo in piedi, ha messo fuori gioco la “fredda ragione” - d’altra parte fin dall’inizio non è poi stato tanto “ragionevole” a voler mettere il suo essere “creato” al posto di chi lo aveva creato! E quindi qui tutti i calcoli vanno a rotoli!
Come suggerisce il titolo di queste riflessioni, spesso il Diavolo fa le pentole, ma non i coperchi!

domenica 21 giugno 2009

BERLUSCONI secondo TARAK BEN AMMAR (CLICK)

«Silvio è solo, faccia come Sarkozy. Serve una first lady al suo fianco»


Scritto da Aldo Cazzullo
domenica 21 giugno 2009

L’intervista «Non c’è alcuna guerra con Rupert. Berlusconi uscirà da questa crisi, non credo ai complotti»
Da Gheddafi a Murdoch, parla il finanziere tunisino Tarak Ben Ammar
PARIGI — Tarak Ben Ammar, rappresentante dei francesi in Mediobanca, socio e amico di Ber­lusconi e Murdoch, produttore di Spielberg e Mel Gibson, nipote di Bourghiba il liberatore della Tunisia — che nel ’57 introdusse il divor­zio per sposare sua zia Wassila —, è nella sua casa di Parigi, tra una Crocefissione di Bacon e il megaschermo che trasmette il talk-show della sua nuova tv del Maghreb, Nezma (Brezza): «Un progetto che è piaciuto subito molto al presiden­te Berlusconi». Ben Ammar è appena rientrato dall’Italia, dove ha incontrato sia Berlusconi sia Murdoch. «E posso confermare che tra i due non c’è nessuna guerra. C’è stato il malinteso sull’Iva, fino a quando prima io e il giorno dopo Tremonti abbiamo spiegato a Rupert che il governo fu costretto dall’Europa a equiparare l’imposta sulle tv, e non poteva certo farlo abbassan­do l’Iva a Rai e Mediaset».

Se non c’è guerra, perché il Times di Murdoch attacca Berlusconi tutti i giorni?

«È quello che ho chiesto a Rupert. Lui mi ha risposto che quando ha preso il Times si è impegnato a non interferire sulla linea editoriale».

E lei ci crede?

«Sì. Murdoch sa benissimo che, se ha il mono­polio del satellite in Italia, lo deve a Berlusconi. Mario Monti e la Commissione europea erano contrari, come anche la stampa italiana, che so­spettava una fusione Sky-Mediaset. Anche i suoi collaboratori dissero a Berlusconi che si stava indebolendo. Lui rispose che era necessario aprire il mercato».

Non è che Murdoch si è seccato quando il Cavaliere stava per vendergli Mediaset e si è tirato indietro?

«Berlusconi non stava per vendere. Aveva praticamente venduto. Furono Marina e Piersil­vio a fargli cambiare idea. Infatti ora c’è una sa­na competizione tra i figli, Piersilvio e James. Di più: Murdoch è il tycoon che Berlusconi vorrebbe essere, se non fosse entrato in politica. Un tycoon 'globale'. E a Murdoch, che è ossessionato dalla politica, non dispiacerebbe essere lo statista che è Berlusconi. La differenza è che Rupert è molto più a destra».

Berlusconi uscirà da questa crisi?

«La sua capacità di resistenza e di reazione è straordinaria, impressionante. In queste setti­mane ho avuto modo di incontrarlo spesso. L’ho visto superare attacchi che avrebbero messo in difficoltà chiunque».

Veronica ha scritto che il marito non sta bene.

«Io ho conosciuto il declino di un grande leader, invecchiato tra persone che non gli dicevano la verità. Nell’84 andai da Bourghiba, con suo figlio Habibi junior, mia zia e mio padre, a dirgli che lui, padre della nazione, avrebbe dovu­to dimettersi ed entrare nella storia, come aveva fatto Senghor. Ci cacciò, e poco dopo si separò da mia zia. Ma la storia di Berlusconi è del tutto diversa. Silvio non è malato di certo. È un lavoratore instancabile, dorme quattro ore per notte. Fa una vita terribile, che ha bisogno di pause. La sua 'malattia', caso mai, è il divertimento, la felicità, la compagnia. Che gli manca, perché da quando è finito il matrimonio con Veronica è un uomo solo».

Chissà cosa deve aver sopportato Veronica.

«Veronica non ha dovuto sopportare nulla, perché quando stava 'matrimonialmente' con lui, sino a qualche anno fa, era felicissima. Non ho mai visto una coppia così innamorata. Arrivavo alla Certosa con mia moglie, e ci trovavamo quasi in imbarazzo: si baciavano, si cercavano, si carezzavano ogni momento. Quando ho conosciuto Silvio, nell’84...».

Ad Hammamet, a una festa con giovani don­ne, vero?

«Lo conobbi sulla spiaggia, con Craxi, e la sera dopo ci fu questa festa. Io stavo girando un film e portai modelle e attrici stupende. Silvio le ammirò, eccome. Ma parlava solo di Veronica. E quando nel ’93 scese in campo, lo fece contro l’opinione di tutti noi, tranne due persone: sua madre e sua moglie. Peccato che Veronica non gli sia stata al fianco, eccetto che per la visita di Clinton. Una donna così bella, così elegante, così intelligente è fondamentale per un leader. Guardi come Carla ha fatto bene a Sarkozy».

Che opinione ha di Sarkozy?

«Ottima. Sta facendo bene, ma all’inizio appa­riva nervoso, immaturo. Carla l’ha aiutato, gli ha portato gli intellettuali, l’ha avvicinato a un mondo che non era il suo. E regge il confronto con qualsiasi first-lady, compresa Michelle Obama ».

Berlusconi dovrebbe fare come Sarkozy?

«Silvio non ha certo bisogno dei miei consigli. Ma, certo, la solitudine non gli si addice e non gli giova. Spero che torni a innamorarsi pre­sto, di una donna che lo ami come lui ha amato Veronica e come Veronica l’ha amato. Avere una donna al proprio fianco sarebbe decisivo per un uomo così sensibile alla bellezza, all’eleganza, al talento».

Palazzo Grazioli e Villa Certosa non sono frequentate così bene, negli ultimi tempi.

«Io ci sono stato, e ho sempre trovato persone di grande livello artistico e intellettuale. Non ho mai visto non dico una 'escort', ma una persona imbarazzante o volgare. Sono stato a cena di recente, c’erano anche Carlo Rossella, Emilio Fede e due coppie di amici francesi e americani, ed è stata una serata bellissima, con cantanti e artisti di qualità. Perché Silvio è un esteta. Ha il senso del bello, in ogni dettaglio. È incapace di volgarità».

Be’, se sono autentiche le battute rivolte a Chirac e riferite dall’Express...

«Ma proprio oggi Chirac si è detto scioccato per le dichiarazioni che gli sono state attribuite e le ha smentite in modo pubblico e formale».

Ma voi amici non potevate metterlo in guardia dal fare entrare in casa certi personaggi?

«Silvio ama conoscere sempre anche persone nuove. Questa è la sua natura: la scoperta, l’amicizia, l’avventura. Senza questa curiosità, non sa­rebbe diventato quel che è. E poi nessuno, tra quanti lo criticano, ha lontanamente l’autorità per dargli una lezione morale».

Non si tratta dei comportamenti di un privato cittadino, ma del presidente del Consiglio.

«Ma il presidente del Consiglio non ha nulla di cui dover chiedere scusa. Solo in Italia un lea­der politico viene trattato in questa maniera. Qui in Francia non sarebbe assolutamente possibile. Nessuno ha scritto una riga sui mesi in cui Sarkozy era single. Nessuno ha scritto una riga negli anni in cui Mitterrand frequentava le sue amiche al piano di sotto e Danielle viveva al piano di sopra con il suo amico. Solo in Italia avete il gusto di criticare in modo così aspro, di scannarvi tra voi. Ricordo bene la storia di Craxi, che patì una grave ingiustizia. Ma avevo dimenticato il caso Leone. L’altra sera ho visto la trasmis­sione di Minoli che ricostruiva la demolizione di un presidente della Repubblica, e ho subito telefonato a suo figlio, Giancarlo Leone. Non si può consentire a certa stampa di demolire così un uomo che poi invece risulta innocente. Voi italiani dovreste ricordarvi della lezione di Agnelli, che nel ’94 per amore dell’Italia rispose di brutto ai giornali stranieri che dicevano falsità su Berlusconi».

Diranno che lei difende il Cavaliere con tan­ta energia proprio perché è davvero in difficol­tà.

«Non è in difficoltà. È oggetto di una precisa azione da parte di un gruppo editoriale che agisce in accordo con la sinistra. Ma è, oggi, il principale protagonista della politica internazionale. È lui che ha fatto superare le incomprensioni tra l’amministrazione americana e quella russa, è lui che ha convinto molti governi tra cui quello americano a intervenire per salvare le banche, è lui che, con Sarkozy, ha fermato i carri armati russi a cinque chilometri da Tbilisi. Ber­lusconi non ha bisogno delle mie difese. Non sono il suo portavoce. Questa storia tutta italiana passerà presto».

È stato anche a Villa Certosa?

«Ci sono stato nell’agosto scorso, per preparare l’incontro che avevo con Gheddafi il giorno dopo, e lui organizzò in mio onore una delle serate più memorabili della mia vita; e di serate memorabili ne ho vissute tante, a Cannes e a Hollywood. Berlusconi aveva predisposto nel teatro all’aperto uno spettacolo straordinario. Un balletto russo a livello del Bolshoi. Musicisti brasiliani. Cantanti d’opera. Un concertista straordinario. Lui era il regista, lo show-maker, come ai tempi di Canale 5. Io ero l’ospite d’onore e la giuria: alla fine premiai la migliore esibizione. Lui però aveva preparato regali per tutti: orologi per gli uomini e gioielli per le artiste».

Non è in discussione la generosità personale di Berlusconi, né la vostra amicizia. Pensa che la sua credibilità all'estero sia intatta?

«La percezione di Berlusconi tra i leader stranieri è esattamente l’opposto di quella che in Italia volete far credere che sia. Uomini come Clinton, Blair, Schroeder lo guardavano con grandissimo rispetto: il fatto che oltre ad essere un pro­tagonista della politica fosse anche un imprenditore di grande successo, creava, e crea, rispetto e ammirazione in persone che si erano occupate sempre e solo di politica. Berlusconi a giorni presiederà, unico leader nella storia, il G8 per la terza volta. Non penserà che queste cose non contino anche per Obama, per Sarkozy, per la Merkel?».

Berlusconi stesso lamenta che i giornali stranieri lo denigrino.

«Si riferisce a quei giornali che ripetono acriticamente le notizie dei giornali italiani».

Cosa sarà del patrimonio di Berlusconi?

«Non vedo problemi di successione. E poi non è una questione di soldi. Di soldi ce ne sono tanti da bastare per diverse generazioni. È una questione di sentimenti».

La visita di Gheddafi, in cui lei ha avuto un ruolo decisivo, ha suscitato parecchie ironie.

«Conosco Gheddafi dal ’77. Lui non andava d’accordo con Bourghiba, ma adorava mia zia. È un originale. Molto intelligente, mai arrogante. È dolce, cordiale. Voi non capite Gheddafi. La tenda beduina per lui è come il kilt per gli scozzesi. Non è folklore, non è la tenda saudita con gli ori e l’aria condizionata. È il contatto con le sue radici: le pecore, i cammelli, il tè, il Sud della Libia dove cresceva il figlio unico di una famiglia povera, che sognava di entrare nell’esercito per cambiare il suo paese».

Eni, Unicredit: qual è la strategia di Gheddafi in Italia?

«Un tempo i suoi erano semplici investimenti, come in Fiat. Ora qualcosa è cambiato. C’è appunto una strategia, un rapporto privilegiato. E tutto grazie a Berlusconi. Gheddafi gli ha persino offerto di diventare il suo successore in Libia...».

Potrebbe essere un’idea...

«E non troverebbe certo una stampa ostile. Berlusconi firmando l’accordo con la Libia ha compiuto un gesto storico. Non solo ha chiesto perdono per i crimini dei colonizzatori fascisti davanti a tutto il Parlamento libico. Ha anche baciato la mano del figlio del martire Omar el Mukhtar. Un gesto che ha toccato anche me. Non avete idea dell’impatto che quel gesto ha avuto sugli arabi, che con Berlusconi in passato erano stati tiepidi. Ora lo adorano. E questo gli dà la credibilità e l’autorevolezza per avvicinare i palestinesi a Netanyahu, che vedrà la prossima settimana».

Parliamo di Generali. Bernheim ha fatto capire che gradirebbe essere riconfermato alla presidenza.

«Lei conosce qualcuno che a quell’età gradirebbe dare le dimissioni, nelle aziende o nella politica? E lo dico per fare un complimento a Bernheim, che è talmente legato a Generali che vorrebbe 'morire' in Generali».

Detta così, pare che voi francesi pensiate a un altro candidato.

«No. Se aprissimo oggi il totonomine, da qui all’aprile 2010 spunterebbero 102 candidati. Non so chi riuscirebbe a mettere tutti d’accordo. E se questo farebbe bene all’azienda».

Prima o poi Generali diventerà francese, magari grazie ad Axa?

«Questo no. Generali sarà sempre italiana».

Anche Telecom? O si fonderà con Telefonica?

«Confermo che non c’è nessun progetto di fusione. L’ha detto Bernabé, lo hanno ripetuto gli spagnoli».

Gli investitori però c’hanno rimesso parecchio.

«È il mondo che è crollato, non solo il titolo Telecom. Bernabé è lì da poco più di un anno. Aspettiamo a giudicarlo».

E Mediobanca?

«La sua indipendenza non è in discussione, così come l’armonia interna».

Finanza, grandi aziende. Lei conosce bene quelli che in Italia sono polemicamente definiti «poteri forti». Davvero qualcuno di loro vuole la fine di Berlusconi?

«Non mi piace l’espressione 'poteri forti'. In teoria, Berlusconi ha fatto tutte scelte ostili all’establishment. Ha fatto entrare in Italia Murdoch mentre la Francia ha bloccato il 'diavolo', lo 'squalo', quando Murdoch stava per comprare Canal Plus. Ha fatto entrare in Italia Gheddafi, chiedendo perdono a un 'beduino'. Berlusconi stesso è un 'diverso', un uomo che si è fatto da solo, uno che con l’establishment non aveva nulla a che fare. Proprio come me. In Francia Chirac non l’ha voluto: il governo di Chirac fece pressioni sul suo amico Lagardère, pur di non lasciar prendere il controllo della Cinq a Berlusconi. Io invece ho portato in Italia un gruppo francese. L’establishment italiano ha lasciato che Murdoch avesse il monopolio della pay-tv; che il gruppo francese divenisse il socio chiave in Mediobanca; che gli spagnoli divenissero il gruppo chiave in Telecom; che le Generali avessero un presidente francese. La verità è che l’Italia è il paese più aperto e con meno pregiudizi; altrimenti io, un tunisino, non sarei qui. Massoneria? Lobby ebraica? Siamo seri. Ai complotti dell’establishment io non ci credo».

Da:corriere.it

sabato 20 giugno 2009

Gli antidemocratici muovono un'altra volta i carri armati in toga

di Maria Giovanna Maglie

Non ci cascate più, che siate elettori del centrodestra o del centrosinistra, anzi se siete di centrosinistra, non fatevi mortificare nella vostra libera scelta politica da questi patetici tentativi di golpe riciclato. Riflettete che l'opposizione al governo non solo commette l'errore tremendo di non riconoscere il voto della maggioranza dei cittadini, fa di peggio, pur di attaccare, colpire, ammazzare il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, se ne infischia della situazione del Paese. Non sono democratici, tutto qui. Di voi, della crisi economica, della necessità di un governo autorevole che governi l'emergenza, che è poi un’emergenza mondiale, delle richieste che anche ieri ha autorevolmente e giustificatamente avanzato il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, non gli importa.

Questo film l'ho già visto, correva l'anno 1993, il pentapartito aveva il cinquantatré virgola due per cento, lavoravo alla Rai, ero la prima corrispondente donna, a New York dopo otto mesi di fatiche, rischi, super lavoro, tra Bagdad, Amman, Gerusalemme. Ero popolare e apprezzata, lavoravo duro. Da un giorno all'altro diventai ladra, imbrogliona, ambasciatrice di Bettino Craxi e perciò stesso non credibile e criminale; certi servi, come l'allora direttore del tg2, Alberto La Volpe, si liberarono di frustrazioni ataviche, un delizioso killer come Pierluigi Celli, lo dico perché lui per primo lo ha scritto, dichiarato, ammesso, mi fecero fuori con tali argomenti infami e tali accuse pretestuose, eppure rimbalzanti su qualunque quotidiano moltiplicate per cento anche rispetto alla bugia iniziale, che cedetti e me ne andai. Peggio per me, me l'avevano mandato per tempo a dire di fare il Giuda e salvarmi la pelle. Quando sei mesi dopo finì con un'archiviazione, gli stessi giornali che mi avevano concesso l'onore ripetuto della prima pagina, scelsero un trafiletto a fine giornale. Avevano allora deciso di scoprire che i partiti si finanziavano illecitamente, in realtà il finanziamento illecito alla politica era sempre esistito. Il Partito comunista, poi ribattezzato, i soldi li prendeva dall'Unione Sovietica, oltre che dalle tangenti nostrane della Coop, ma questo alle Procure di rosso togate (che errore fu lasciare ai comunisti reclutati i concorsi in magistratura per un paio di decenni) non sembrò rilevante. Gli Stati Uniti ambivano ai mercati dell'Est post comunista, c'era anche un oscuro magistrato che aveva frequentato molto, e molto si era accreditato, o provato a farlo, tale Antonio Di Pietro. Cito questo modesto ricordo personale solo per spiegare che di complotti e complottini siamo in molti a ricordare la storia, non perché mi voglia ergere a protagonista, ho sempre pensato che mi fosse caduta addosso solo una tegola del tetto della prima Repubblica, niente di più, ho sempre coltivato per qualche minuto al giorno il perseguimento della vendetta, ho sempre tenuto nel mio cuore l'apprezzamento, e il dolore per la fine di Bettino Craxi. Massimo D'Alema è uno dei suoi assassini. Forse con lui hanno ammazzato anche se stessi, le loro possibilità di farsi socialdemocratici, riformisti, blairisti prima di Tony Blair, ma non lo hanno mai capito. Tanto è vero che ci riprovarono nel 1994, dopo che il Cav ci aveva salvato, e da allora non hanno mai smesso, oggi stanno sparando a raffica, uno sparo per ogni voto perso. Non importa che Silvio Berlusconi abbia il partito più grande della storia d'Italia. Non contano le regole democratiche, pensateci bene. Oggi ripartono da Bari, anzi dall'intera Puglia. Leggete la storia con tutti i suoi dettagli che vi racconta Gianmarco Chiocci, controllate e paragonate i nomi dei magistrati, a partire proprio da Michele Emiliano, sindaco di Bari e segretario regionale del Pd, dalle sue indagini sulla missione Arcobaleno, una roba scottante per Massimo D'Alema. Finì in niente, lui però diventò sindaco. Io non so se il presidente del Consiglio inviti nelle sue dimore o barche, tutte guadagnate con le sue attività imprenditoriali, troppe ragazze, forse ha questo debole, condiviso con molti maschi italiani. Il mio giudizio morale non riveste valore politico. Voglio però sapere se questa debolezza ha qualcosa a che vedere con il governo del Paese. Se, come me, credete che non debba essere così, fatelo capire al senza macchia, o no, Massimo D'Alema.

giovedì 18 giugno 2009

CICERONE E CATILINA (click)


Il Cavaliere, moderno Catilina e le persecuzioni dei riformatori

Deborah Bergamini
Deborah Bergamini
Caro direttore, salvare Catilina, salvare la Repubblica. Roma, I secolo A. C.: Lucio Sergio Catilina è un patrizio romano, uomo coraggioso e di parola. In breve tempo percorre con inaspettato successo tutta la carriera politica, coltivando idee di giustizia sociale e libertà. Per tre volte tenta di raggiungere la carica di console, massima autorità repubblicana, spinto da un consenso popolare straordinario frutto di posizioni anticonformiste, progetti di riforma e profondo senso della Patria.

Per tre volte i poteri forti del tempo utilizzano tutti i mezzi, leciti ed illeciti, per combatterlo e sconfiggerlo. Nella Roma del 50 a.C. esisteva una norma molto lontana dall'attuale concezione del diritto, che alcune moderne marionette del giustizialismo italico vorrebbero applicare anche alla nostra democrazia: ai cittadini romani anche solo inquisiti veniva impedito l'accesso ad ogni carica pubblica. Ed è sulla base di questa norma che Lucio Sergio Catilina viene per due volte accusato di nefandezze a pochi giorni dalle elezioni, interdetto e poi assolto dopo il voto. Ma a chi vede in Catilina e nel suo partito un pericolo troppo grande per i propri interessi, l'esclusione anche solo temporanea del «rivoluzionario conservatore» non può bastare: occorre distruggerne il consenso per intero. Il compito viene affidato al più famoso e abile avvocato del tempo, Marco Tullio Cicerone, alla sua spregiudicatezza e alla sua straordinaria capacità di falsificare i fatti. Cicerone trasforma Catilina in un hostis, un nemico della Patria, servendosi dei più efficaci strumenti dell'epoca: dalle accuse basate su lettere anonime, ai brogli elettorali, ai discorsi retorici tesi a costruire l'immagine più degenerata del suo avversario, fino alle palesi violazioni della legge romana. Tra le accuse più infamanti, Cicerone imputa a Catilina di aver corrotto una giovane vestale, vergine e consacrata alla dea del focolare.

Ci spostiamo di oltre 2000 anni. Al famoso avvocato pensano di sostituirsi procure politicizzate e redazioni di giornali. Al posto delle orazioni di Cicerone, si ascoltano i teoremi mediatici e giudiziari, si assiste all'uso spesso indecente di foto, video e intercettazioni. La tentazione è sempre la stessa: demonizzare il «rivoluzionario conservatore» di oggi. Gli optimates di ieri che armarono le azioni di Cicerone erano i rappresentanti di una classe senatoriale gelosa custode di privilegi politici ed economici; gli optimates che violentano le regole di oggi sono potentati senza patria, politici mediocri e polverosi intellettuali. Il potere non accetta gli imprevisti e spesso i grandi riformatori, gli uomini in grado di cambiare la storia, si presentano all'appuntamento senza bussare. Questo li rende inaccettabili.

Ma la storia maledice il suo ritorno. Il suo tragico fugge davanti alla farsa in cui si trasforma. E così accade che oggi, per distruggere l'uomo che sta cambiando l'Italia, si è persino disposti a distruggere l'Italia stessa. Minando la fiducia nelle istituzioni che quell'uomo rappresenta, il valore di una democrazia fondata sul consenso popolare, l'immagine di una nazione all'estero e la percezione che il Paese ha di se stesso. Si è disposti a far precipitare la dignità nazionale dentro il buco di una serratura. Un'opera di demolizione che non dovrebbe giovare a nessuno. O forse sì. Quando l'avversario politico viene trasformato per forza in un nemico della patria, quando diviene normale distruggerne il nome, la famiglia, gli amici, i collaboratori, la vita stessa, quando trionfano coloro che accusano per mestiere, con illazioni e teoremi, dietro il velo di un'informazione che è spesso solo fango, allora il diritto scompare, le Repubbliche cadono, le libertà civili si spezzano e i Cesari, quelli veri, arrivano di lì a poco.

Deborah Bergamini
18 giugno 2009

martedì 16 giugno 2009

Il ricordo: "Così colpirono anche mio padre" (click)

Le parole del presidente Berlusconi al Convegno dei giovani industriali hanno suscitato indignate quanto ipocrite reazioni. La stampa nazionale, chiamata in causa a proposito del tentativo di eversione, ha negato invocando la libertà di stampa, ma ignorando che un giornalista incapace di distinguere fra verità e pettegolezzo non dovrebbe nemmeno esercitare la professione.

Ma è davvero inesistente il tentativo di eversione? La storia ci aiuta a capire, e la storia italiana dice che ogni volta che sulla scena si affaccia un leader capace di far funzionare la macchina dello Stato, togliendo potere alle lobbies, i tentativi di eversione si fanno avanti.

Vorrei invitare Paolo Franchi, che sul Corriere della Sera fa una specie di discorso di Antonio riconoscendo le ragioni di Berlusconi ma solo per rovesciargliele addosso, a ricordare - lui che quegli anni li ha vissuti - le molte e strette analogie con la storia di Bettino Craxi, contro il quale l’eversione c’è stata, tanto da costringerlo all’esilio ed alla morte precoce.

Stesso attacco concentrico stampa-magistratura (basti pensare a come è stata scritta ed a come è stata presentata dai giornali la sentenza Mills, come se Berlusconi, e non l’avvocato inglese, fosse stato condannato). L’anonimato dei poteri forti - ignoti ieri, ignoti oggi - che con i loro giornali menano le danze. La copertura politica all’eversione del Partito comunista ieri, del Partito democratico oggi. La violenta diffamazione personale, Craxi ladrone di tesori occulti, Berlusconi pedofilo, corruttore avido di beni pubblici.

Le uniche differenze stanno nel fatto che capofila contro Craxi era il Corriere della Sera, con La Stampa e La Repubblica al seguito, e oggi è stata invece La Repubblica a dirigere l’orchestra; l’altra differenza di gran peso, il diverso comportamento dei due presidenti della Repubblica, con Scalfaro parte attiva nella distruzione della Prima Repubblica (Napolitano non è Scalfaro). Saltiamo appena due o tre anni e andiamo al primo governo Berlusconi del ’94: che cos’è, se non un tentativo di eversione, l’avviso di garanzia portato al presidente del Consiglio a Napoli mentre presiedeva una conferenza internazionale contro la criminalità? Un avviso di garanzia pubblicato con titoli di scatola sulla prima pagina del solito Corriere della Sera ventiquattro ore prima di essere notificato al diretto interessato. Un avviso di garanzia per un reato dichiarato inesistente dalla stessa magistratura, naturalmente anni dopo.

E, continuando con gli interrogativi, che nome si dovrebbe dare alla garanzia data dal presidente Scalfaro a Bossi di non sciogliere le Camere consentendo così di compiere a man salva il ribaltone che avrebbe posto termine al governo Berlusconi? La triste verità è che il golpismo delle Brigate Rosse, anche se ha riempito le cronache di vittime innocenti, è un gioco da bambini rispetto al golpismo strisciante eternamente annidato sotto la politica italiana.

Silvio Berlusconi è un gran combattente; ha stravinto le elezioni e consolidato il potere del suo governo. Ma nessuno può illudersi di aver vinto per sempre un male che affonda le radici nella storia recente e passata del'Italia.

*Sottosegretario agli Esteri

venerdì 12 giugno 2009

Sono stufa dell'ipocrisia sulla Shoah, voglio giustizia (click)


















Yussuf Fofana, l'assassino di Ilan Halimi


Dal Texas, Emanuela Prister

Sono d'accordo con Giorgio Israel. Sono stufa marcia di un mondo che fa atto di ricordarsi l' olocausto di 6 milioni di ebrei per poi dimenticare che l' antisemitismo tutt' oggi uccide. Sono stufa marcia di un mondo dove si ricorda l' olocausto come se fosse un incidente isolato nella storia. Sono stufa marcia delle vuote promesse di "never again" davanti ai missili ballistici Iraniani, quando non si ha neanche il coraggio di dire che quei bastardi che hanno ucciso Ilan Halimi l' antisemitismo e l' odio razziale l' hanno imparato in famiglia e nelle moschee francesi. Si fanno i pellegrinaggi a Buchenwald per dimenticarsi prontamente di 6 milioni di ebrei viventi sotto minaccia nucleare. Per questi ipocriti dalle lacrime di coccodrillo che si battono il petto il giorno della Shoa deve essere duro constatare che 60 e rotti anni dopo noi ebrei siamo ancora qui e abbiamo perfino uno stato nostro e per niente vassallo. Questo dovrebbe essere un processo aperto ai terroristi che si son fatti gioco della sofferenza umana, che hanno preso gusto nella tortura e nel sangue, che hanno fatto della seduzione una trappola e un' arma letale, che hanno fatto della santita' della casa (Halimi e' stato trucidato in un appartamento) un macello e un cesso. Io chiedo la pena di morte per i carnefici di Halimi e l' ergastolo per l' intera popolazione al di sopra dei 14 anni del blocco di appartamenti del palazzo che per 24 giorni ha tenuto Halimi prigioniero. Non meritano niente di meglio. Non mi venite a parlare di valori e di grazia. Se abbiamo grazia e valori solo verso i terroristi, e i macellai, dove la trovano la giustizia le vittime? Ai morti che siano compianti o meno non credo che gliene freghi niente, meglio far qualcosa mentre le vittime sono ancora vive. Inoltre, che si avvii un processo al governo Francese che lascia che questo tipo di odio e follia omicida sia coltivato in Francia, che fa finta di non guardare quando i giovinastri nelle zone di periferia impongono la sharia sulle donne e sui minori, e torturano i cittadini tra le pareti degli appartamenti. Mi chiedo poi quante risorse siano state date per ritrovare Halimi da parte del governo francese quando c'erano cosi' tanti indizi sparsi dai carnefici stessi nei giorni in cui lo torturavano. Fino a quando il mondo non avra' gli occhi per guardare, le orecchie per sentire le grida e la bocca per denunciare i carnefici di Halimi siamo tutti ostaggi della violenza, siamo tutti vulnerabili e indifesi. Non veniteci a parlare di Shoa finche' non siete disposti a fare qualcosa di concreto per tutti i futuri Halimi, per i Daniel Pearl, per i soldati Israeliani tenuti prigionieri, e per quello stato di 6 milioni che si ritrova con le armi nucleari piantate contro. Basta con le vacue parole, e' ora di passare ai fatti.

giovedì 11 giugno 2009

La retorica anti-italiana serve a Gheddafi quanto gli accordi economici (click)


11 Giugno 2009

Gheddafi ha sorpreso ancora una volta. Quando tutti si aspettavano semplici parole di riconciliazione il leader libico ha trovato modo di far ricordare agli italiani le malefatte compiute in Libia in epoca coloniale appuntandosi la fotografia di Omar al Mukhtar al petto. Ha sorpreso ancora una volta, come seppe farlo con la confisca di tutti i beni e la successiva espulsione degli italiani dalla Libia nel luglio del 1970. Allora il Colonnello volle accreditarsi presso i libici come continuatore di quella politica di liberazione dalla presenza italiana intrapresa nel periodo coloniale da Omar, l’insegnante cirenaico che aveva guidato i suoi fedeli seguaci, compreso il padre di Gheddafi, nella resistenza contro gli italiani che ebbe termine solo con l’impiccagione di Omar nel 1931. Gheddafi aveva allora bisogno di un “mito fondante” della propria nazione. Necessitava di un gesto forte che lo rendesse popolare e insieme lo imponesse come leader autoritario all’interno del Consiglio Rivoluzionario.

La storia del colonialismo italiano in Libia rimane poco conosciuta da noi. È ben conosciuta in Libia, invece. Le brutalità furono forse solamente un capitolo nella lunga storia dei rapporti italo-libici e l’opera di colonizzazione italiana ebbe anche risvolti positivi per il Paese. Se Gheddafi si serve cinicamente di quelle vicende, come ha sostenuto Sergio Romano, non abbiamo però il diritto di sorprenderci. Anche i nazionalisti italiani fecero altrettanto con le loro campagne anti-austriache dopo l'impiccagione di Oberdan.

L’anelito rivoluzionario verso una società diversa, come auspicata nel Libro Verde da lui scritto, e il mito della lotta contro l’italiano, individuato in Omar, non sono fini a se stessi. Anzi, dopo l’obbligata rinuncia al “nemico esterno”, identificato nell’Italia colonialista e nell’America imperialista, questi sentimenti sono rimasti come fonte principale di legittimità del regime in un paese che, prima dell’arrivo di Gheddafi, era pressoché privo di una identità nazionale definita.

La visita è proseguita tra le proteste dei radicali e di parte della sinistra. Curioso a questo proposito pensare che proprio negli anni Settanta la sinistra applaudiva il Colonnello per il suo anti-colonialismo e oggi lo osteggia perché è un dittatore. In parte il governo ha ceduto alle pressioni della minoranza e il discorso del Leader che doveva essere tenuto al Senato sarà tenuto in una sala attigua. Sulla questione il Pd si è spaccato e D’Alema, che aveva lavorato all’accordo tra i due paesi prima di Berlusconi e che sente giustamente anche come propri i meriti, si è giustamente risentito. Può essere opinabile se sia politicamente opportuno che Gheddafi parli al Senato, ma se l’invito era stato fatto, seppur con una valutazione forse precipitosa, appare altrettanto inopportuno dirottare l’ospite in un luogo secondario o trasformare una visita che si profilava bi-partisan nell’ennesima battaglia di politica interna.

Queste le ombre del viaggio di Gheddafi. Ma gli aspetti positivi di una “partnership strategica”, sanciti con la visita, sono talmente rilevanti – a cominciare dalla questione petrolifera – da poter far soprassedere anche a queste scaramucce. L’Italia si è impegnata alla realizzazione di progetti infrastrutturali di base per 5 miliardi di dollari, ma l’esecuzione dei lavori verrà affidata ad imprese italiane, con fondi direttamente gestiti dall’Italia. I soldi dati alla Libia in pratica ritorneranno per buona parte nelle tasche di aziende italiane, seppur in 20 anni. Per questo le imprese italiane si stanno dando un gran da fare per un posto in prima fila negli incontri di questi giorni. Inoltre quanto la Libia sia importante nell’economia italiana lo si è visto con l’ingresso dei fondi sovrani libici in diverse aziende di casa nostra, a cominciare dalla collaborazione nel “salvataggio” di Unicredit dello scorso ottobre.

Il pentimento e il senso di disagio per le malefatte del colonialismo italiano espressi da Berlusconi permetteranno di instaurare una nuova relazione economica privilegiata basata su un rapporto di complementarietà economica. I rilievi che oggi vengono mossi all’accordo fanno leva sull’inaffidabilità di Gheddafi: il leader libico, in questa visione, sarebbe poco disposto a rispettare i patti sottoscritti con il paese che ha violato irrimediabilmente la dignità della Libia. A queste ricorrenti obiezioni la miglior risposta è venuta proprio dalla firma di un accordo capace di comprendere e dirimere le controversie più importanti tra i due paesi e che quindi di fatto limita la possibilità di revanscismo futuro della Libia. Nelle occasioni in cui i due paesi hanno stipulato accordi basati sulla reciproca convenienza, come quelli sul petrolio, la Libia si è rivelata un partner sostanzialmente affidabile. Se la Libia vorrà avere questi finanziamenti dovrà rispettare i patti.

La retorica anti-italiana potrà rimanere comunque una costante di Gheddafi, ma sarà solamente strumentale al piano interno perché la vena anti-colonialista resterà intrinseca alla “rivoluzione” libica e continuerà a costituire una chiave di volta della sopravvivenza stessa del regime. Tuttavia sarà svuotata di richieste specifiche e difficilmente potrà essere riproposta qualche rivendicazione come condizione al mantenimento di buone relazioni.

domenica 7 giugno 2009

Il "buonismo" ha messo le ali all’ultradestra (click)



Il risultato straordinario di Geert Wilders in Olanda, anticipato con grande disdoro dei vertici europei, convinti chissà perché che quel che si vota in un Paese dell’Unione sia meccanicamente riproducibile in un altro, o meglio cresciuti all’arte dell’erudizione del popolo pupo, non stupisce e non spaventa, nella sua prevedibilità casomai induce a riflettere. Gli olandesi non ne potevano più, e a un lungo periodo di acquiescenza alla penetrazione e all’invasione, proprio da Rotterdam, trasformata in un souk di donne velate e sindaco marocchino, è partita la protesta. Ci sono partiti che fioriscono per colpa dell’ignavia degli altri, dei partiti storici e solidi. Wilders è assurto diavolo del razzismo e della xenofobia, ma stavolta non è andata come andò per il povero Theo van Gogh, reo di aver raccontato la segregazione delle donne con la benedizione del Corano, sbudellato da un estremista musulmano nell’indifferenza nazionale, o come è andata all’ispiratrice del film di van Gogh, Arsi Alii, deputata nazionale costretta all’esilio negli Usa. Stavolta il mostro ha preso i voti, e le prefiche sono già scatenate nell’evocare tragedie sull’Europa che verrà da domani a urne aperte e schede contate. Hanno qualche motivo di temere, perché non di sola Olanda si tratta, e le ragioni della repentina affermazione dei partiti che si richiamano alle radici europee, alla difesa dei confini, al rispetto delle regole e delle leggi, sono sempre le stesse.
«Sono la voce dei tanti che non ne possono più del predominio islamico e dell’immigrazione. Non xenofobi o estremisti, bensì persone che vogliono tutelare la propria cultura e sentirsi sicuri nel loro mondo». «È che il Corano dovrebbe essere bandito, nel mio Paese e in tutte le sue moschee, perché è interpretato alla lettera e usato quale incentivo per atti di terrorismo e violenza». «L’Europa è imbevuta di relativismo culturale, un’illusione, perché non esiste uguaglianza fra culture. La nostra è di gran lunga migliore. Noi non picchiamo i gay, non discriminiamo le donne, non usiamo violenza con chi è diverso». «Molti mi dicono che dovrei cambiare atteggiamento, scegliere il dialogo. Ma, se voglio rispettare i miei elettori, non posso. Sarebbe come dichiarare la vittoria degli estremisti». Sono, riprese da numerose interviste e dichiarazioni, le frasi che Geert Wilders ha usato in campagna elettorale. A voi giudicarne la gravità, oppure, sia pur in una brutalità di espressione, l’aderenza alla realtà che i cittadini europei affrontano e subiscono.
Secondo gli ultimi sondaggi demoscopici elaborati nientemeno che dalla London School of Economics, otterranno risultati lusinghieri in Gran Bretagna il British National Party, che naturalmente potrà sfruttare anche il crollo laburista. In Austria non c’è più il decano Haider, ma è fortissimo l’FPÖ, Partito della libertà, e il BZÖ, il Partito dell’Austria. In Belgio e Danimarca si aspetta l’affermazione del Folkeparti, il partito del popolo, in Francia del Movimento nazionalista di Philippe de Villierin.
In Ungheria si preannuncia una débâcle dei socialisti al governo contro l’opposizione di centrodestra del Fidesz. A Strasburgo dovrebbe arrivare almeno un rappresentante di Jobbik, il nuovo partito contro gli immigrati. I nazionalisti dovrebbero avere un buon risultato anche in Bulgaria, perché a Sofia si preannuncia la vittoria del Gerb, il movimento populista del sindaco della capitale Boyko Borissov, mentre gli ultranazionalisti di Ataka dovrebbero riuscire a tornare a Strasburgo. A Bucarest si prevede una buona performance di un altro movimento nazionalista, il «Partito della Grande Romania». Il collante del voto in questi due Paesi è la rivolta popolare contro i soprusi e la mafia dei rom.
In tutte le nazioni, dell’Ovest e dell’Est, di antica democrazia e di ancora fresca uscita dalla dittatura comunista, assieme alla crisi economica sono forti e virulenti i sentimenti di sfiducia per le fiacche e colluse politiche europee, per quel relativismo culturale che suona resa, e che anche noi italiani ben conosciamo. È un mondo fatto di chiese di base, sindacati in crisi, partiti della sinistra senza più progetto e identità, imprenditori senza scrupoli ufficialmente solidali, che vorrebbero far entrare senza regole un flusso migratorio di etnie per ottenere nuova manovalanza, rabbiosa e antagonista.
Il voto di protesta, ne sono convinta, si riassorbe facilmente se le scelte politiche cambiano. Sennò saranno guai, perché è un sentimento autenticamente popolare e pienamente giustificato. Fortuna che da noi questo rischio non si corre, perché, sia pur con qualche esitazione, il governo ha fatto scelte di contenimento e guida dell’immigrazione. Due esempi per tutti: non abbiamo più notizie di arrivi di barconi carichi di disperati, l’ultimo terrorista arrestato per aver progettato stragi a Milano e a Bologna, stava chiedendo asilo politico, invece è andato in galera.

giovedì 4 giugno 2009

Il prete che vuole fucilare Vespa, Feltri e Giordano


Dev’esserci del vero nella Chiesa, diceva Nietzsche, se è sopravvissuta ai suoi preti. Come dargli torto. Almeno finora, è sopravvissuta perfino a don Franco Scarmoncin, parroco di Mandriola, frazione di Albignasego in provincia di Padova.
Don Scarmoncin è un anti-berlusconiano. Ma per carità. Ci mancherebbe. Non è quello il punto: ciascuno può pensarla come vuole, specie in politica. È che quest’uomo, che ha 68 anni ma smanetta su Internet come un ragazzino, non si capisce per quale ragione faccia il prete, o meglio per quale ragione continui a fare il prete, visti gli argomenti che tratta e i toni che usa. Sul suo bollettino parrocchiale - Comunità Mandriola, sul web all’indirizzo www.mandriola.org - non c’è traccia dell’Onnipotente e della Vergine, di confessioni e comunioni, di processioni e di novene. C’è, al contrario, un’alluvione di politica, sotto forma di invettive, insulti, minacce.
Esageriamo? Prendiamo l’ultimo numero, datato 24 maggio. Il tema del bollettino è «Il debito pubblico». Interessante. Proprio il tema che si aspetta di veder trattato chi si approccia alla Chiesa cercando risposte sul mistero della vita, della morte e dell’esistenza di Dio. Don Scarmoncin comincia dando i numeri del deficit. Poi prosegue dando i numeri e basta. «L’unico che in questi 15 anni ha tentato di mettere riparo al debito pubblico è stato il Governo Prodi, tanto vituperato e mandato a casa, perché troppo statico», scrive. Resa giustizia a Prodi, il don comincia a randellare l’attuale premier: «A volte qualcuno è proprio malato e ha dei problemi personali molto seri... ma non ha il coraggio, la decenza, l’onestà di ammetterlo, come fa chi ci governa. Per novembre il Presidente Berlusconi farà il miracolo di dare a tutti i terremotati una nuova casa. Come possa dire “balle” talmente enormi e trovare ancora gente che gli creda... solo Dio lo sa! E solo Dio sa come fa andare avanti ancora l’Italia, con una situazione economica così incerta e traballante: in mano alla mafia, con una Giustizia che non giudica, con una amministrazione che solo per aprire un contatore del gas ti chiede 10 centimetri di carte...» e via di seguito con un rosario di misteri dolorosi, che arriva fino ai 105 morti a Linate, che sono del 2001 ma che il parroco di Mandriola scarica, tanto per non sbagliare, sulla coscienza dell’attuale governo.
La situazione è talmente disastrosa che don Franco giunge addirittura a «non augurarsi» che «un domani, alle prossime elezioni» possa vincere la sinistra: la quale, poveretta, si troverebbe a gestire «un cumulo di macerie». Meglio continuare a restare nella melma, per poter dare la colpa al centrodestra. Ossessione anti-berlusconiana? Ma no. Il parroco assicura che non è un fatto personale con il premier: «Non me la prendo con il Capo del Governo, lui fa il suo mestiere di imprenditore interessato a difendere le sue proprietà, opportunista venditore di fumo, megalomane psicopatico, barzellettiere e “ballista” come pochi altri... Dovrebbe stare in galera e invece ce lo troviamo Capo del Governo... Non me la prendo con lui. Me la prendo con tutti i tirapiedi, i leccacu... gli omuncoli obbedienti prostrati ai suoi piedi, i professionisti dell’adulazione e del servilismo più abietto, i contorsionisti manipolatori della verità, bieche figure di immoralità pubblica, chiudono gli occhi, zittiscono la propria coscienza, negando l’evidenza e impedendo che si arrivi a sapere...».
E siccome non si dica che don Franco denuncia il peccato ma non i peccatori, ecco i nomi di «tirapiedi e leccacu»: «Me la prendo con una caterva di personaggi meschini e senza onore: Emilio Fede, Bruno Vespa, Bel Pietro (scritto proprio così: «bel» staccato «pietro»: è l’unico complimento, sia pur involontario, riservato ai berluscones, ndr) Mimun, Vittorio Feltri, Gianni Riotta, Mario Giordano, Confalonieri, Paolo Bonaiuti, Bondi, Cicchitto, Gasparri, Renato Schifani...». L’omelia si chiude con il botto: «Tutta questa gente», scrive il pastore alle sue pecorelle, «meriterebbe di essere (passi l’esagerazione) fucilata».
E passi pure l’esagerazione, caro don. La immaginiamo arruolato tra i «cattolici del dialogo» e senz’altro avrà più volte esposto in parrocchia la bandiera arcobaleno della pace: che cosa vuole che sia, una fucilazione di giornalisti. La sua esistenza, e quella di tanti preti come lei, preti che amano autodefinirsi «preti scomodi», è una formidabile prova della natura soprannaturale della Chiesa: la quale, se fosse solo un’istituzione umana, tipo un’azienda, con tanti «manager» come lei avrebbe già chiuso i battenti da un pezzo. Solo ci chiediamo - nella varietà e nella ricchezza di carismi della Chiesa, dove ciascuno può avere un ruolo - se la sua vocazione sia proprio quella di fare il parroco in una sperduta frazione di campagna. Quando ci risulta che sia ancora scoperto il posto di cappellano ad Annozero.

martedì 2 giugno 2009

Don Elio Vernier (Click)

Ci sono eroi che non vanno dimenticati (click)

Il ricordo di Michael Sfaradi

Non capita spesso di incontrare un eroe, a me è successo ed ho avuto il privilegio di intervistarlo. Per sfidare i nazisti ed i fascisti nel periodo dell’occupazione di Roma serviva sicuramente una buona dose di coraggio e Don Elio Vernier, il suo parroco Don Ferdinando Volpino e Don Angelo
Valeggiani li sfidarono per bene 53 volte, tante quante erano le persone di religione ebraica che nascosero all’interno della loro parrocchia in via di Donna Olimpia salvando loro la vita. Don Elio è una persona a me cara perché mio padre è una di quelle 53 persone. Friulano della Carnia Don Elio è originario di Zuglio Carnico in provincia di Udine.
A che età è diventato sacerdote?
Io sono nato con l’idea che mi sarei fatto prete per poi diventare Papa, prete ci sono riuscito ma Papa no. L’ordinazione il 2 febbraio del 1940, la prima messa il giorno dopo.
Nel febbraio del 1940 Hitler aveva già invaso N la Polonia, si aspettava che l’Italia sarebbe entrata in guerra?
In guerra no non ce l’aspettavamo, è stato il grande errore di Mussolini che ha portato l’Italia alla rovina.
Lei dov’era il giorno che furono proclamate le leggi razziali?
A Roma. Mussolini le fece proclamare per seguire Hitler. Il 2 febbraio Papa Ratti, Pio XI, avrebbe voluto denunciare Mussolini davanti al mondo ma fu trovato morto. All’epoca si disse che fossero stati i fascisti ma queste accuse non furono mai documentabili. Io ero un giovane prete lontano dagli ambienti vaticani, ma ricordo il senso di profonda incertezza che in quei giorni ci accompagnava.
Sapendo quello che era successo al clero polacco che fu decimato, ed anche a Don Luigi Morosini che fu fucilato a forte Bravetta per aver nascosto delle persone di religione ebraica, non avevate paura delle conseguenze cui andavate incontro se fosse stati scoperti?
Noi non avevamo paura… erano i nostri superiori ad averla, tanto è vero che chiamarono Don Volpino e per non entrare nella nostra parrocchia gli fissarono un appuntamento all’ospedale San Camillo. Quando lui tornò ci disse che ci furono solo raccomandazioni alla prudenza. Io e Don Angelo decidemmo comunque di rimanere con il nostro parroco. Paura? Non l’abbiamo mai avuta anche perché in Via di Donna Olimpia abitavano circa 8000 persone, gente semplice. C’erano
socialisti, comunisti, credenti e non credenti ed anche dei fascisti che pur sapendo non fecero mai parola con le autorità anche se all’epoca le denunce per far arrestare gli ebrei erano pagate profumatamente.
E i tedeschi?
Erano malvagi e bisognava stare attenti, ma anche fra loro c’era chi faceva finta di non vedere, mi ricordo un maresciallo tedesco che veniva tutte le sere a pregare in chiesa.
Lui immaginava che ci fosse qualcuno nascosto?
Lui lo sapeva, veniva, pregava e girava lo sguardo dall’altra parte.
Siete stati fortunati da questo punto di vista, in Europa molti preti hanno perso la vita pur di aiutare i perseguitati.
Certamente altrimenti non saremmo riusciti a salvare una cinquantina di persone, la maggior parte ebrei, ed altri che non si erano presentati al richiamo del militare.
Chi decise tutto questo?
Don Volpino, lui era il parroco ed era lui che decideva quello che si faceva, noi potevamo soltanto obbedire
Don Volpino lo fece di sua iniziativa?
Sì, anche perché lui prima di diventare prete era stato fascista. Lavorava in banca e diceva che era andato da Padre Pio un po’ per prenderlo in giro e che invece era stato Padre Pio a prendere in giro lui. Lo visitò per scherzo ma una volta uscito da li prese i voti.
Lo rifarebbe ancora?
Altro che… altro che. Se dovessi ripassare lo stesso tempo non ci penserei due volte a rifare esattamente ciò che feci allora.
Dalla Santa Sede, almeno in maniera informale, c’era o non c’era una direttiva che dava al clero un ordine=2 0di nascondere le persone perseguitate? O tutto accadeva a
seconda del buon cuore del sacerdote?

Una direttiva mi pare di no ma il fatto stesso che ci lasciassero fare senza divieti era di per sé un incoraggiamento. Se la Santa Sede avesse voluto rimanerne fuori ci avrebbe ordinato
di non immischiarci e noi avremmo dovuto obbedire. Un ordine così non c’è mai stato.

lunedì 1 giugno 2009

Di Pietro, Gramsci e gli intellettuali engagées (click)

Credo che nessuno, dopo il declino nel dibattito filosofico-politico del pensiero di Antonio Gramsci che lo aveva posto con forza, immaginava che il problema del rapporto tra “intellettuali” e “politica” sarebbe stato riproposto; né tanto meno che a riproporlo sarebbe stato Antonio Di Pietro, che non mi sembra proprio tra i più colti leader politici del nostro paese.

Ma chi sono – visto che se ne riparla – gli “intellettuali”? Non sono gli storici, i filosofi, i letterati, i poeti in genere, ma soltanto quegli storici, quei filosofi, quei letterati, quei poeti che firmano i manifesti proposti dai partiti politici o che entrano nelle loro liste elettorali: quei personaggi, insomma, che una volta – riprendendo una nota espressione di Jean-Paul Sartre – si definivano engagées, impegnati.

La presenza degli intellettuali nelle vicende politiche del nostro paese ha una sua storia e una sua precisa data di nascita: il loro primo, massiccio, intervento fu il celebre ”Manifesto degli intellettuali del Fascismo”, apparso il 21 aprile del 1925; e al quale, come è noto, replicò un "contromanifesto" – “Una risposta di scrittori, professori e pubblicisti italiani al manifesto degli intellettuali fascisti” – redatto da Benedetto Croce, e pubblicato il primo maggio di quello stesso 1925.

Nel secondo dopoguerra i manifesti firmati dagli “intellettuali” si sprecarono; e gran parte di essi proveniva dall’area politico-culturale di sinistra, dietro la quale si allungava l’ombra del Partito Comunista Italiano. Il declino della cultura totalitaria – matrice riconosciuta di questo fenomeno – comportò un declino del “manifesto”. Ma non quello della presenza di intellettuali nelle liste elettorali dei vari partiti; a proposito della quale dovrebbe indurre a riflettere sul fatto che la loro presenza nella vita politica e parlamentare non ha praticamente lasciato tracce di rilievo: una volta “scesi”, come usa dire, in politica, si sono presto accorti della povertà del loro ruolo, del poco spazio loro concesso; e molti l’hanno abbandonata, “ridiventando” intellettuali.

Ora Antonio Di Pietro riapre il problema. E lo riapre in maniera – mi spiace dirlo, ma è così – culturalmente piuttosto rozza. Ha dichiarato infatti – a quanto si legge su autorevoli giornali nazionali – che gli intellettuali che in occasione delle prossime elezioni non si schiereranno con l’"Italia dei valori", saranno “corresponsabili di ciò che sta accadendo”: con il loro non schierarsi, infatti, o con lo schierarsi altrove, favoriscono il ritorno della cultura dell’olio di ricino, la nascita di un regime ormai “dietro l’angolo”.

Non mi sembra di vivere, pur nelle notevoli disfunzioni della nostra vita politica, in un democrazia debole e vacillante; e non credo proprio, né ritengo di essere il solo a crederlo, che la cultura dell’olio di ricino stia per riapparire in Italia. Ma tra quest’ultima e quella, in cui tanti credono, e dalla quale siamo per fortuna ancora molto lontani, delle manette o del brutale giustizialismo, altra differenza non vedo se non di forma; e non ne vedo alcuna, ad esempio, tra il “Me ne frego” degli squadristi padani del 1922 e il “Vaffà” di Beppe Grillo.

Ma a parte questo, nemmeno mi sorprende leggere che intellettuali di prestigio come Magris, Tranfaglia, Camilleri o l’ineffabile e immancabile Vattimo, abbiano accolto l’invito di Di Pietro. Cicerone ha detto una volta che non c’è sciocchezza che non sia stata sostenuta da qualche filosofo. Parafrasandolo, direi che non c’è stata nell’ultimo secolo nefandezza politica che non abbia avuto il sostegno di molti intellettuali. Niente di nuovo sotto il sole.

(Girolamo Cotroneo)