lunedì 1 giugno 2009

Di Pietro, Gramsci e gli intellettuali engagées (click)

Credo che nessuno, dopo il declino nel dibattito filosofico-politico del pensiero di Antonio Gramsci che lo aveva posto con forza, immaginava che il problema del rapporto tra “intellettuali” e “politica” sarebbe stato riproposto; né tanto meno che a riproporlo sarebbe stato Antonio Di Pietro, che non mi sembra proprio tra i più colti leader politici del nostro paese.

Ma chi sono – visto che se ne riparla – gli “intellettuali”? Non sono gli storici, i filosofi, i letterati, i poeti in genere, ma soltanto quegli storici, quei filosofi, quei letterati, quei poeti che firmano i manifesti proposti dai partiti politici o che entrano nelle loro liste elettorali: quei personaggi, insomma, che una volta – riprendendo una nota espressione di Jean-Paul Sartre – si definivano engagées, impegnati.

La presenza degli intellettuali nelle vicende politiche del nostro paese ha una sua storia e una sua precisa data di nascita: il loro primo, massiccio, intervento fu il celebre ”Manifesto degli intellettuali del Fascismo”, apparso il 21 aprile del 1925; e al quale, come è noto, replicò un "contromanifesto" – “Una risposta di scrittori, professori e pubblicisti italiani al manifesto degli intellettuali fascisti” – redatto da Benedetto Croce, e pubblicato il primo maggio di quello stesso 1925.

Nel secondo dopoguerra i manifesti firmati dagli “intellettuali” si sprecarono; e gran parte di essi proveniva dall’area politico-culturale di sinistra, dietro la quale si allungava l’ombra del Partito Comunista Italiano. Il declino della cultura totalitaria – matrice riconosciuta di questo fenomeno – comportò un declino del “manifesto”. Ma non quello della presenza di intellettuali nelle liste elettorali dei vari partiti; a proposito della quale dovrebbe indurre a riflettere sul fatto che la loro presenza nella vita politica e parlamentare non ha praticamente lasciato tracce di rilievo: una volta “scesi”, come usa dire, in politica, si sono presto accorti della povertà del loro ruolo, del poco spazio loro concesso; e molti l’hanno abbandonata, “ridiventando” intellettuali.

Ora Antonio Di Pietro riapre il problema. E lo riapre in maniera – mi spiace dirlo, ma è così – culturalmente piuttosto rozza. Ha dichiarato infatti – a quanto si legge su autorevoli giornali nazionali – che gli intellettuali che in occasione delle prossime elezioni non si schiereranno con l’"Italia dei valori", saranno “corresponsabili di ciò che sta accadendo”: con il loro non schierarsi, infatti, o con lo schierarsi altrove, favoriscono il ritorno della cultura dell’olio di ricino, la nascita di un regime ormai “dietro l’angolo”.

Non mi sembra di vivere, pur nelle notevoli disfunzioni della nostra vita politica, in un democrazia debole e vacillante; e non credo proprio, né ritengo di essere il solo a crederlo, che la cultura dell’olio di ricino stia per riapparire in Italia. Ma tra quest’ultima e quella, in cui tanti credono, e dalla quale siamo per fortuna ancora molto lontani, delle manette o del brutale giustizialismo, altra differenza non vedo se non di forma; e non ne vedo alcuna, ad esempio, tra il “Me ne frego” degli squadristi padani del 1922 e il “Vaffà” di Beppe Grillo.

Ma a parte questo, nemmeno mi sorprende leggere che intellettuali di prestigio come Magris, Tranfaglia, Camilleri o l’ineffabile e immancabile Vattimo, abbiano accolto l’invito di Di Pietro. Cicerone ha detto una volta che non c’è sciocchezza che non sia stata sostenuta da qualche filosofo. Parafrasandolo, direi che non c’è stata nell’ultimo secolo nefandezza politica che non abbia avuto il sostegno di molti intellettuali. Niente di nuovo sotto il sole.

(Girolamo Cotroneo)

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