domenica 22 febbraio 2009

PANSA DI FRANCESCHINI (click)


Pansa: "Tutte le ipocrisie di questi antifascisti"
di Luca Telese
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Roma - Giampaolo Pansa, è divertito. «Mai avrei pensato, in tutta la mia vita, che mi sarei ritrovato a difendere La Russa dagli attacchi dei moderati del Partito democratico! Mai. Su Salò, per giunta... Questa polemica ha qualcosa di antistorico e barbaro che non capisco e non voglio capire. L’antifascismo ringhiante di Veltroni e Franceschini oggi non è credibile. Anche perché, proprio Franceschini tre anni fa... ». Alt! Per ora ci fermiamo qui, e vi lasciamo in sospeso, perché in questa intervista c’è una storia che stupirà molti. Ma siccome il giornalista più famoso d’Italia è un fiume in piena, bisogna prima di tutto spiegare cosa pensa.

Per lui, che ci ha scritto sopra una quadrilogia saggistico-narrativa e un romanzo, la polemica sulla Repubblica sociale esplosa dopo le dichiarazioni del ministro Ignazio La Russa è l’occasione per tirare le fila di un viaggio iniziato con la tesi di laurea, da ragazzo, e proseguito con il lavoro monografico degli ultimi anni. Fino all’ultimo libro, I tre inverni della paura, che lui definisce «un via con il vento nella guerra civile». Pansa ha scritto una saga ambientata più di mezzo secolo fa, ma che oggi, quando gira l’Italia, pare un instant book. Ogni volta che lo presenta vede accorrere folle di lettori: «Cinquecento persone a Parma domenica... Chissà quante ne troverò sabato a Revere, in provincia di Mantova. Per questo pubblico, tra cui molti giovanissimi, è come se parlassi di ieri».

Pansa, perché parla proprio di Franceschini?
«L’ho visto, in televisione indignato contro La Russa, in cattedra sull’antifascismo. E sono rimasto di stucco».

Perché? Non è legittimo?
«Vede, nella Grande Bugia ho raccontato la storia di una ragazza che da bambina girava per le vie di Poggio Renatico, il suo paese, con gli occhi sempre bassi».

Per la vergogna?
«No. Era figlia di un fascista, ma non se ne vergognava. Però le vie erano tappezzate di scritte su suo papà, Giovanni Gardini. Dicevano: "A morte Gardini!"».

E chi era Gardini?
«Un amico di Italo Balbo: con la Rsi divenne Podestà di San Donà di Piave. Dopo l’8 settembre fuggì per salvare la pelle. Per fortuna ci riuscì».

Perché me lo racconta?
«La bambina si chiamava Gardenia, ed era destinata a diventare madre di un bimbo. Di Dario. Cioè Franceschini. E sa chi me l’ha raccontato?».

Chi?
«Lo stesso Franceschini! Ecco perché, quando vedo semplificazioni antistoriche, e che a farle è il Pd, scuoto il capo».

Cosa non la convince?
«Non credo che il problema del Pd sia la storia del ’45. Mi cascano le braccia se vedo Veltroni abbarbicato a questo antifascismo perdente e suicida. Perché so che il suo vero problema è Di Pietro che fa la faccia feroce. Lui allora rilancia, senza esserne convinto, perché gli stanno rubando il patrimonio».

Parliamo del primo inverno della paura, nel 1943.
«Non capisco cosa ci sia si scandaloso in quel che ha detto La Russa».

Forse il suo ruolo?
«Ma il ministro della Difesa non è un sacerdote della repubblica, tenuto all’imparzialità! Non siede al Quirinale. È un politico, un ministro. Posso citarle i numeri di Salò?».

Degli arruolati.
«Sì. Secondo le fonti della Rsi, furono più di 800mila».

Stime di parte?
«Non molto contestate, a dire il vero, ma il nodo è un altro. Vogliamo dire che erano 500mila? Il fatto è chi erano davvero questi ragazzi».

Intende il loro identikit?
«Dico che è grottesco etichettarli tutti come torturatori e amici dei nazisti! Molti di loro erano cresciuti nel regime fascista, immersi in un clima di propaganda perenne: cinema, scuola, radio... le divise dei figli della lupa... ».

E quindi?
«E quindi, la maggior parte di loro, non poteva certo schierarsi per un parlamento legittimo, che non aveva nemmeno mai conosciuto».

Giudizio storico o politico?
«Dico che quella educazione, fatalmente, portava molti di loro all’idea che difendere la patria dagli angloamericani fosse il primo dovere».

Bisogna distinguere, dice?
«Da storico "dilettante" mi occupo di queste cose dai tempi della laurea... Sono storie complesse. Altrimenti non si capisce come mai, fra quei ragazzi, ce n’erano molti che divennero sinceri antifascisti, Nomi mille volte citati: Tognazzi, Dario Fo, Vianello, persino Gian Maria Volontè».

Ma ci fu pacificazione?
«Anedotto illuminante. Quando andai al Giorno, nel 1964, Italo Pietra, che aveva fatto il partigiano, e si trovava molti ex ragazzi di Salò in redazione, scherzava: "Chi di voi mi ha fatto saltare la casa, sul monte Penice, nel rastrellamento dell’agosto 1944?"».

Difficile a credersi, con gli occhi di oggi.
«Invece accadeva. E gli rispondevano: "Io no, stavo nella brigata nera di Varese...", "Io neppure, ero con gli sciatori di Pavolini..."».

Sta cercando di dire che...
«Fino a che non arriva il detonatore violento degli anni di piombo, questo paese aveva chiuso la faida del ’45».

E teme che ora si riapra?
«Con tanto odio in giro, temo possa accadere. Un altro esempio insospettabile?»

Su chi?
«Livio Zanetti: grande maestro di giornalismo, direttore dell’antifascista L’Espresso».

Quando si seppe che...
«A metà degli anni settanta, per il dispetto di un’agenzia di stampa di destra. Ebbene: nessuno, dico nessuno, si azzardò a chiederne la testa».

Chiedo ancora: come mai?
«Erano tempi meno feroci. Forse il Pci aveva altre bandiere, il mito dell’Urss. Ecco, a me preme spiegare che quei ragazzi di cui parla La Russa, non erano quattro miserabili scherani, come vuol far credere chi polemizza con lui».

E chi erano?
«Uomini che si trovarono giovanissimi nel tempo delle scelte dure. Alcuni di loro potevano essere nostri padri. O fratelli. O persino, come nel caso di Franceschini, i nostri nonni».

martedì 17 febbraio 2009

COME SI PUO' VIOLARE LA COSTITUZIONE

Sandro Fontana
Pubblicato il giorno: 17/02/09

«Costituzione sacra» ma Eluana è la prova che l’hanno violata

Non è possibile tacere di fronte a un delitto come quello perpetrato ai danni di una povera e innocente ragazza come Eluana. E ciò, anche per fugare ogni accusa futura di eventuale complicità presso tutti quegli italiani che ancora continuano a credere nel valore non negoziabile della vita. Ha fatto perciò bene il ministro Alfano a dichiarare martedì scorso a Ballarò che Eluana è morta di sentenza anche se avrebbe dovuto aggiungere che s’è trattato d’una vera e propria sentenza di morte. Ed il nostro bravo Presidente della Repubblica, che tanto si prodiga nella difesa della sacralità della Costituzione, non doveva né poteva consentire una sua palese violazione da parte di un ordine dello Stato come la magistratura, la quale, pur non avendo nessuna funzione legislativa né di modifica costituzionale, è tuttavia riuscita di fatto, almeno nel caso della povera Eluana, ad abrogare surrettiziamente l’art. 27 della nostra Carta il quale, come è noto, sostiene solennemente che «non è ammessa la pena di morte». Eppure a Napolitano non dovrebbero essere sfuggite tutte le perplessità che vennero sollevate dall’editorialista del Corriere (7 febb. 2009) Galli Della Loggia e che si riferivano a due precise circostanze.

La prima riguarda la palese contraddizione o addirittura contrapposizione tra le varie sentenze elaborate dalla stessa magistratura se è vero che, tanto nel 2005 da parte del tribunale di Lecco quanto nel 2006 da parte della Corte d’appello di Milano, veniva sentenziato che «la reale volontà della ragazza doveva essere intesa come personale, consapevole e attuale determinazione volitiva, maturata con assoluta cognizione di causa». La seconda circostanza si riferisce al fatto che, in base alla successiva sentenza della Corte di Cassazione, per decidere della vita e della morte della povera Eluana era invece sufficiente tener conto «della sua personalità, del suo stile di vita, delle sue inclinazioni, dei suoi valori di riferimento e delle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche». È in base a questa nuova e contraddittoria sentenza che è stata poi elaborata la sentenza della Corte d’appello di Milano del 2008, secondo la quale la povera Eluana possedeva invece, pur avendo solo 21 anni, una personalità «caratterizzata da un forte senso d’indipendenza, intolleranza delle regole e degli schemi, amante della libertà e della vita dinamica, molto ferma nelle sue convinzioni». Dunque, concludeva amaramente l’inascoltato Galli Della Loggia, si poteva procedere alla sua eliminazione. Ecco perché forse un attimo di riflessione o un sussulto di saggezza avrebbe impedito al nostro beneamato Presidente non solo di sacrificare inutilmente una vita umana, ma anche di assestare un vulnus gravissimo all’art. 27 ed allo spirito della nostra Costituzione. Il fatto è che, secondo l’opinione di un conoscitore profondo della storia del PCI come Ugo Finetti (Libero, 7 febb.), non è possibile passare un’intera vita politica al servizio della doppiezza e del cinismo di Togliatti e poi pensare di diventare all’improvviso un uomo libero, magari per «grazia di Stato». E tutto ciò senza mai aver dimostrato un attimo di ribellione e un sussulto di autonomia: né in occasione delle migliaia di morti causati nel 1956 dall’invasione sovietica a Budapest, né in occasione dell’espulsione dalla Russia del premio Nobel Solzenicyn nonché del suicidio della sua segretaria. Napolitano non si scompose nemmeno quando si suicidò il deputato bresciano Sergio Moroni, né quando, sempre da Presidente della Camera, non seppe opporsi a Scalfaro-Facta il quale, ormai da tempo sotto ricatto del PCI, mirava a sciogliere fin dal 1993 un libero parlamento semplicemente perché ritenuto – ahinoi! – zeppo, non di condannati, ma di semplici indagati.

Ora, poiché, secondo l’art. 89 della Costituzione, «nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti o dal Presidente del Consiglio» e poiché, secondo il successivo art. 90, lo stesso «non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni», non sarebbe del tutto male che anche Berlusconi cominciasse ad osservare non solo lo spirito della nostra Costituzione ma anche la sua lettera, come ha voluto fare Napolitano non firmando il decreto salva-Eluana. Certo, per molti atti del Presidente in carica, come nel caso della nomina dei senatori a vita o dei cinque giudici costituzionali, s’è finora trattato d’una mera formalità. Ma finora non s’era mai verificato che il Capo dello Stato si rifiutasse di firmare un decreto urgente come quello teso non solo a salvare la vita della povera Eluana ma anche a salvaguardare lo spirito autentico della nostra Carta. Non vorremmo infatti che alla fine venisse premiato con un laticlavio al Senato un tipetto come Beppino Englaro. Il quale, da buon laicista ed ateo, pur di vincere la propria guerra privata a favore dell’eutanasia, non ha esitato un attimo ad accompagnare, non già dolcemente ma attraverso atroci sofferenze (come risulta dall’autopsia), la propria creatura verso una quiete eterna.
«Costituzione sacra» ma Eluana è la prova che l’hanno violata

sabato 14 febbraio 2009

SARA' TUTTO VERO ? (click)

Il Pci ormai si è dissolto Ma ci si pente solo a metà

Luciano Violante, già comunista e ora postcomunista di spicco, se l’è presa con Il Riformista che ha pubblicato un suo atto di contrizione sulle foibe titolandolo: «Mi vergogno d’esser stato comunista». Il titolo, riassuntivo e incisivo come i buoni titoli devono essere, non ha travisato il contenuto dell’accorata confessione di Violante, il quale, esprimendo i suoi sentimenti di spettatore d’una rappresentazione dedicata appunto alle stragi di italiani per mano di comunisti jugoslavi (purtroppo anche per mano di comunisti italiani) aveva testualmente scritto: «Mi sono reso conto per la prima volta che la mia storia politica era stata dalla parte degli aggressori, di chi aveva legato il fil di ferro ai polsi delle vittime prima di precipitarle, non dalla parte di chi aveva i polsi legati. Dalla parte di chi aveva violentato e non dalla parte di chi era stato violentato». Eppure offensivo e falso è il titolo, secondo Violante, che ha interrotto la collaborazione con Il Riformista. Del che il direttore Antonio Polito ha preso atto «con mestizia».
Non sono tra coloro che esigono pentimenti da questo e da quello. La scena politica e la scena culturale sono affollate di transfughi ai quali è difficile - non fosse altro che per il loro imponente numero - chiedere conto di più o meno remote liaisons dangereuses. Ma almeno, quando il pentimento c’è, che sia riconosciuto con chiarezza, e non avvolto da alibi e attenuanti risalenti al fatto che il Pci era «diverso», e «diversi» i comunisti. Non indugio - l’ha già fatto da par suo Giampaolo Pansa - sulla grottesca inverosimiglianza di quel «per la prima volta». Ma come: c’è voluta una messinscena rievocativa, nel Giorno della memoria, per schiudere a Violante l’abbagliante verità delle efferatezze comuniste? Non ne aveva avuto sentore in precedenza? Ho stima per l’intelligenza di Violante: e quindi vedo in questo suo atteggiamento sbigottito non l’innocenza stolida dello sprovveduto, ma l’ambiguità di chi, nonostante tutto, vuole sempre avere ancoraggi sicuri. E rende omaggio ai combattenti di Salò, salvo poi precisare e rettificare.
Aggiungo che prendere atto - a Urss distrutta e comunismo relegato tra i ferri vecchi ideologici - di antichi misfatti è più facile adesso di quanto fosse alcuni decenni or sono. E tuttavia, da uomo di mondo, capisco la riluttanza d’un Violante a rinnegare in toto il suo passato militante. Che danno gli dà l’essere fuori dalla falce e martello, ma anche un po’ nostalgico dei medesimi? Nessuno. Se poi sopravviene - come è sopravvenuta - una bufera economica, i semipentiti e quasi convertiti possono sempre riesumare qualche anatema d’annata contro il capitalismo avido e arido.
Vi fu un tempo in cui, nel Pci forte e duro di Palmiro Togliatti, i tentennamenti cauti, i compromessi astuti non erano consentiti. Dopo la brutale repressione sovietica della rivolta di Budapest, nel 1956, il capo della Cgil Giuseppe Di Vittorio sottoscrisse un documento «eretico». «Il Migliore» sentenziò che Di Vittorio era «un sentimentale e non un politico» e lo convocò alle Botteghe Oscure. Di Vittorio, reduce da un infarto, vi si recò con la moglie Anita che aveva pronta in borsa una siringa, se l’avesse preso un attacco. Quando uscì, il sindacalista era un uomo disfatto. Scoppiò a piangere e ad Antonio Giolitti, suo vicino di casa, disse che «la classe operaia non meritava cose simili». Ma poi si adeguò. Nell’ottavo congresso del Pci (dicembre 1956) un delegato di Firenze, Valerio Bertini, si rivolse a Togliatti con una serie di domande che lo scandalizzarono per come erano rozze e volgari. Enrico Berlinguer, il tanto compianto Berlinguer, rimproverò compuntamente il Bertini per avere usato espressioni inaccettabili. E poi Togliatti replicò con la lingua di legno degli apparatchik esaltando «la critica costruttiva», ma deplorando «la critica distruttiva».
In confronto a quella stagione cupa e ferrigna, le successive ci appaiono indulgenti: con uscite ed entrate di sicurezza in abbondanza, per chi voleva passare da sinistra a destra o viceversa, e anche per chi preferiva tenersi in mezzo al guado. Ma anche se le foibe sono state coperte da un lungo silenzio, e anche se per molti anni l’identificazione dei trucidati con i fascisti è stata contrabbandata come verità, Luciano Violante ne ha di sicuro sentito parlare abbondantemente. Dalla foiba di Basovizza gli angloamericani estrassero, tra il luglio e l’agosto del 1945, «450 metri cubi di resti umani». In contemporanea i comunisti triestini e il Pci inneggiavano a Tito. Il giorno in cui i miliziani del maresciallo entrarono in una Trieste costernata l’Unità inneggiò «Trieste è libera». Queste cose non sono mai giunte all’orecchio, o agli occhi, di Luciano Violante? Io credo che le sappia da molto. Se gli fanno orrore questo torna a suo merito. Ma la sorpresa no, quella ce la deve risparmiare.

di Mario Cervi

Ultima lezione di Randy Pausch

Dovremmo ascoltarlo ogni tanto

martedì 10 febbraio 2009

ELUANA


Complimenti Napolitano
di Mario Giordano
È morta all’improvviso, è morta da sola. È morta mentre il Parlamento discuteva e i soliti noti, da Dario Fo a Umberto Eco, firmatari di ogni sciagurato appello di questo Paese, si apprestavano a scendere in piazza per un girotondo. È morta, e se non altro la sua vita non ha dovuto subire anche l’ultima offesa di Oscar Luigi Scalfaro sul palco mentre lei moriva. È morta e suo padre era lontano. È morta di fame e di sete, con il respiro ridotto a un rantolo e il corpo disidratato che cercava acqua dentro gli organi vitali.
È morta in fretta, troppo in fretta per non generare sospetti. E intanto suona tragicamente beffardo leggere adesso, a tarda sera, le parole del suo medico curante che di prima mattina assicurava: «Lo stato fisico è ottimo, Eluana è una donna sana, pochi rischi fino a giovedì». Evidentemente la conosceva poco. Troppo poco. E forse per questo ha potuto toglierle la vita. È arrivata la morte, e la morte non è presunta. La volontà di morire di Eluana sì, invece, quella era e resta presunta: l’ha decisa un tribunale, sulla base di una ricostruzione incerta e zoppicante, con una selezione innaturale di testimonianze. Tre amiche (solo tre, le altre no), la determinazione del padre, un po’ di azzeccagarbugli: tanto è bastato per decidere di ucciderla nel modo più atroce.
Ricordiamolo: nessuna proposta di legge di quelle presentate in Parlamento, neppure quelle più favorevoli all’eutanasia, prevede la possibilità di una morte così. Eluana è stata la prima esecuzione di questo genere nella storia della Repubblica. E sarà l’ultima. Forse. Arriverà la legge, e non sarà presunta. Arriverà la legge e impedirà questo scempio. Ma oggi l’affannarsi di parlamentari alla Camera e al Senato, quel rincorrersi di cavilli e regolamenti, quelle riunioni di capigruppo, l’alternarsi di dichiarazioni e di emendamenti, appare soltanto quel che in realtà è: il nulla. Nulla di nulla. Un nulla che fa venire le lacrime agli occhi, però. La corsa contro il tempo, la convocazione notturna, i calcoli sui minuti: tutto inutile. Eluana è stata uccisa. Eluana era viva e adesso non c’è più. E allora, mentre molti chiedono il silenzio solo per nascondere le loro vergogne, non può non venire voglia di urlare le responsabilità che ricadranno su chi non ha fatto niente per impedire questo orrore.
In primo luogo i medici che non hanno accettato di ridare acqua e cibo a Eluana in attesa dell’approvazione della legge, nonostante i numerosi appelli. Poi Procura di Udine e Regione Friuli che hanno giocato per due giorni a scaricabarile.
E infine, sia consentito, anche il capo dello Stato che non ha firmato il decreto legge: in questa vicenda il Quirinale ha anteposto le ragioni di palazzo alla salvezza di una ragazza, ha preferito la cultura della morte al valore della vita. Siamo sicuri che se una responsabilità del genere se la fosse assunta il presidente del Consiglio, qualcuno della sinistra in questi minuti già chiederebbe le sue dimissioni. Ora, invece, vogliono che si taccia. D’accordo, ora taceremo. Non abbiamo nemmeno più voglia di parlare. Ma prima lasciateci dire un’ultima cosa. Prima lasciateci dire: complimenti, presidente Napolitano.

lunedì 9 febbraio 2009

LA LIBERTA' , LA MALATTIA, LA VITA (click)


Assumersi le proprie responsabilità
Scritto da Barbara Di Salvo
lunedì 09 febbraio 2009

Non volevo parlarne. Già non mi piace discutere di temi etici, figuriamoci quanto mi andava di entrare nel merito della vita o della morte di una ragazza. Ormai, però, un dubbio mi tormenta da giorni: ma ne valeva la pena?
Resto dell’idea, infatti, che la politica si dovrebbe occupare il minimo indispensabile di certi temi, e quanto è successo in questi giorni non fa che confermarmelo. No, non è stata la politica a entrare in una vicenda che è e doveva restare assolutamente privata, ma è stato un padre che ha preteso con tutte le sue forze che fosse lo Stato a entrare nella sua vita ed a decidere di quella di sua figlia. Era proprio necessario arrivare a questo? Può la politica, lo Stato, un giudice decidere se far morire o no una ragazza? Qui non c’è destra o sinistra che tenga, cattolicesimo o ateismo che prevalga, ma il problema di fondo è proprio fino a dove lo Stato può arrivare ad incidere sulla nostra libertà.
Ecco, secondo me sono proprio gli ultraliberali quelli che stanno prendendo la cantonata più grossa.
Vogliono davvero che lo Stato faccia una legge sul testamento biologico, sull’eutanasia, sull’accanimento terapeutico? Siamo sicuri che non stia proprio qui la violazione della nostra libertà? Sono davvero convinti che la Cassazione e i giudici milanesi abbiano emesso sentenze autenticamente liberali?
A me non sembra proprio.
Io vedo solo lo Stato che, attraverso il suo ordine giudiziario, ha deciso al posto di Eluana. Vedo lo Stato, attraverso le sue istituzioni politiche, le uniche che hanno il potere legislativo che si sono invece arrogati i giudici, cercare di mettere una pezza a questa grave violazione costituzionale.
Ma non è questo il problema vero di un dramma tutto privato, diventato pubblico a forza.
Mi sbaglierò e, con tutto l’umano rispetto che posso avere per il suo dolore, vedo un padre che non ha avuto il coraggio di assumersi la responsabilità di decidere cosa fare della propria figlia. Capisco che sia la scelta più difficile che esista, ma era e doveva essere una scelta personale che lui, in accordo con la sua famiglia, doveva assumere da solo.
Tutti noi italiani, i giudici, il parlamento, il governo, il presidente della Repubblica non c’entravamo nulla e dovevamo restarne fuori. Non è andata così. Non mi pare di averlo mai sentito ammettere che questa era la sua volontà di padre. L’ho al contrario sempre visto nascondersi dietro la presunta volontà della figlia.
Non decido io in quanto padre, ma interpreto quella che è la decisione di Eluana. Non mi assumo la responsabilità di staccare il sondino, ma la lascio a lei. Non solo, non mi accontento della mia interpretazione della sua presunta volontà, ma pretendo che dei giudici, terzi estranei, si assumano la responsabilità di dirmi quale sarebbe stata la decisione di Eluana.
Questo sarebbe un padre coraggioso e responsabile? Siamo sicuri che sia davvero convinto della sua decisione o non abbia piuttosto lasciato che fossero altri ad assumersi la responsabilità di far morire la figlia? Non potrebbe piuttosto essere stato un modo di non dover un domani fare i conti con la propria coscienza?
Per carità, non lo accuso di niente. Mi fa una pena incredibile, ma prima di santificarlo, magari sarebbe il caso di pensarci un attimo. Forse non sarà da biasimare, ma non vedo cosa ci sia di lodevole in questo comportamento.
Addirittura propongono di farlo senatore a vita. Ma siamo impazziti?
Migliaia di volte, in tutto il mondo, genitori, figli, mariti, in silenzio, tra le quattro mura di una camera d’ospedale, dopo averne a lungo discusso coi medici, in famiglia, dopo aver valutato tutte le possibili soluzioni, si assumono la responsabilità di decidere.
Il padre di Eluana questa responsabilità non ha voluto assumersela. Io la vedo solo qui la differenza tra questo caso e gli innumerevoli altri.
È pilatesco? Può darsi.
È sbagliato lasciare che ogni singola famiglia decida del proprio caro? Non credo.
È giusto che sia lo Stato a decidere per loro? Lo credo ancora meno.
In questi ambiti lo Stato come si muove sbaglia, è inevitabile. Lo Stato è astratto, le norme sono astrazioni, le sentenze sono astruse.
Cosa c’è di concreto in un malato? Solo il dolore. Il dolore del malato ed il dolore di chi gli sta accanto. Punto.
Tutti gli altri sono solo intrusi.
Ebbene, non vedo come possano degli estranei, dei giudici o dei parlamentari, decidere a priori quando e come gestire questo dolore, quando interromperlo, quando acuirlo, quando renderlo permanente. Ogni caso è a sé, ogni malato è a sé, ogni famiglia è a sé.
Forse risiede proprio qui la massima espressione della nostra libertà, nel decidere cosa è meglio per noi e per i nostri cari, caso per caso, volta per volta, famiglia per famiglia. E nessuna legge, nessuna sentenza potrà mai davvero dirci cosa è meglio fare, se non limitando la nostra libertà.
Un genitore potrà decidere che preferisce credere in un miracolo, che preferisce accudire quello che sembra un vegetale, piuttosto che perderlo per sempre. Un altro potrà decidere di non avere più speranza e di porre fine a quella che ritiene un’agonia, sia per sé che per la figlia malata. Non prendiamoci in giro, però, è una scelta egoistica di cui ci si deve assumere la responsabilità. Non si può cianciare di libertà senza avere il coraggio di assumersi la responsabilità delle proprie scelte libere e consapevoli.
Posso decidere di morire, come di vivere, posso decidere di far morire o di far vivere, ma la responsabilità è esclusivamente mia.
Pretendere che sia lo Stato con una legge o con una sentenza a decidere al posto mio, significa solo pretendere la libertà rifiutando la responsabilità.
Troppo comodo. Ma soprattutto controproducente, perché dove lo Stato arriva a decidere al posto nostro, non si assume solo la responsabilità, ma si prende anche una parte della nostra libertà. È inevitabile. Checché ne pensino gli ultraliberali.
Davvero vogliamo una legge sul testamento biologico o sull’eutanasia? Oppure vogliamo solo essere liberi di scegliere, lavandoci la coscienza?
Siamo davvero pronti alle conseguenze che questo può comportare?
Se io oggi, inconsapevole e in perfetta salute, sull’onda emotiva di quanto accade qui a Udine, affermassi di voler morire se mi trovassi in stato vegetativo permanente, davvero sarei più libera se lo Stato desse valore legale incontrovertibile a questa dichiarazione?
O non starei perdendo piuttosto la mia libertà di cambiare idea? Cosa posso sapere oggi di quello che potrei provare in quel momento? E se fossi cosciente, ma incapace di esprimermi e solo apparentemente incosciente? E se un miracolo, come ne sono già accaduti migliaia, mi riportasse ad una vita cosciente? E se domani scoprissero una cura per risvegliare il cervello? E che dire poi dei miei genitori, di mio marito o dei figli che potrei avere?
Sono davvero io l’unica a poter decidere? Posso davvero scegliere io oggi, necessariamente inconsapevole, cosa sarebbe meglio per loro?
Se preferissero tenermi in vita? Se anche io fossi del tutto incosciente, senza provare alcun dolore, che diritto avrei di toglier loro la facoltà di scegliere se tenermi con sé o lasciarmi andare?
Decidere di morire non è forse la massima espressione dell’egoismo?
Ma pensate davvero che a queste domande possa rispondere un estraneo? È davvero liberale lasciare che un giudice o un parlamentare decida al posto nostro in una materia così intima e così delicata?
L’ipocrisia, secondo me, sarebbe qui e non in chi lascia che ogni malato ed ogni famiglia faccia storia a sé. Non significa lavarsene le mani, né girarsi dall’altra parte, ma lasciare ai singoli la libertà di decidere caso per caso.
È solo umana pietà. Si rischia l’accusa di omicidio? Ma quando mai?
Fatevi un giro nei reparti di rianimazione e provate a chiedere agli infermieri quanti ne hanno visti morire così e quanti medici o parenti sono stati denunciati. Provate ad indagare nelle procure quanti ne sono stati portati a giudizio e quanti ne sono stati condannati.
O ancora credete alla favola dell’obbligatorietà dell’azione penale? Se proprio i giudici si devono intromettere che lo facciano a cose fatte e valutino solo allora se sia stato giusto o sbagliato lasciar morire quel paziente in condizioni disperate. Giudichino quel padre che si è assunto, tutto solo con la sua coscienza, la responsabilità di lasciar andare la figlia.
Se davvero non c’era alcuna speranza, se davvero questa era la volontà della ragazza, quel padre non dovrà rendere conto ad altri che a se stesso.
Forse, se il padre di Eluana si fosse assunto questa responsabilità, oggi saremmo tutti ancora un po’ più liberi. www.barbaradi.splinder.com