venerdì 31 luglio 2009

I Direttori cambiano, i lettori a volte restano, a volte vanno.

Nella giornata odierna, su Libero ed Il Giornale, l’informazione dei cambiamenti in corso.

Carissimi lettori, per i saluti I'appuntamento al 24

Ecco due notizie che riguardano il nostro e vostro quotidiano. La prima è un comunicato stampa di Mediaset trasmesso alle agenzie ieri sera: {Mario Giordano assumerà I'incarico di direttore Nuove iniziative News Mediaset dal prossimo 24agosto. La nuova direzione opererà nell'ambito della direzione generale Informazione e avrà il compito di elaborare, coordinare e realizzarci progetti di sviluppo dell'area news alla luce delle nuove opportunità offerte anche dalla tecnologia digitale. A Giordano i migliori auguri di buon lavoro e un caloroso bentornato. Questo è invece il testo del comunicato della Società Europea di Edizioni:.Vittorio Feltri sarà il nuovo direttore de Il Giornale dal prossimo 24 agosto. Con lui, alla guida del quotidiano, arriverà Alessandro Sallusti con la qualifica di condirettore. Per Feltri si tratta di un gradito ritorno, avendo diretto con straordinario successo I Giornale dal 1994 al dicembre del 1997. L'editore augura buon lavoro al nuovo direttore e un ringraziamento con riconoscenza per il direttore uscente Mario Giordano per I'ottimo lavoro svolto. In meno di due anni di direzione, Giordano ha realizzato una importante riforma grafica ed editoriale, riuscendo in una fase economica molto difficile a consolidare e addirittura allargare Ia diffusione del quotidiano, Auguri a Mario Giordano per il nuovo incarico a cui è stato chiamato".

Cari lettori, queste sono le notizie. Mi sembrava corretto informarvi su quello che sta accadendo al Giornale. È, avvenuto tutto molto in fretta e, come potete capire, questo è un momento un po' di trambusto, come spesso capita quando si parte e si arriva. Ci sarà tempo per i saluti e per un arrivederci. Fino al24agasto io sarò qui come sempre, con il piacere di lavorare per voi, come ho fatto in questi anni. Vi lascerò poi nelle mani di un giornalista e di un direttore che conoscete bene. Sono sicuro che saprà portare avanti, con saggezza, il lavoro fatto da me, dalla mia squadra, da questa redazione e dai suoi collaboratori in questi anni. Con lo stesso orgoglio, con la voglia di stupirvi,rompendo gli schemi di una certa cultura e di quel giornalismo arroccato su posizioni da tardo Novecento. Noi, ve lo assicuro, ci siamo divertiti, Abbiamo raccontato la metamorfosi di questa Italia,ancora in cerca di una mappa e di un’identità. Lo abbiamo fatto con il nostro stile,con firme giovani e brillanti, senza aver paura di rischiare.
Qualche volta sbagliando, altre aprendo nuove strade. Da voi abbiamo avuto qualche critica, ma tanti tanti apprezzamenti, confermati dai risultati e dai numeri in edicola.Grazie a tutti voi e a presto.Mario Giordano
Su Il Giornale il 31/07/09



Addio Libero grazie a tutti voi
Vittorio Feltri
Pubblicato il giorno su Libero : 31/07/09


Cari lettori,non nascondo imbarazzo nello scrivere questo pezzo, ma lo devo scrivere; e lo faccio secondo il mio stile diretto e sbrigativo: sto per lasciare la direzione di Libero, che insieme con un drappello di temerari ho fondato nel lontano luglio del 2000.L'impresa sembrava disperata e lo era. Aprire un giornale mentre cominciava la crisi della carta stampata, e senza un soldo, poteva costarci un ricovero coatto in una struttura psichiatrica. Non rievoco le vicissitudini dei primi tempi, quando Libero vendeva poco (40 mila copie), la pubblicità non c'era e contavamo soltanto sulla buona volontà e la paura di fallire, carburanti eccezionali almeno a giudicare dai risultati ottenuti.La svolta avvenne nell'autunno del 2001, dopo il crollo delle Torri Gemelle a New York. La proprietà della testata passò alla famiglia Angelucci e grazie al loro entusiastico e generoso sostegno riuscimmo in pochi anni a crescere - gradualmente - fino a diventare ciò che ora siamo: un grande quotidiano di opinione, riferimento per chi non sia stato inghiottito dal conformismo di sinistra.So che vi domanderete: ma se Libero va bene, come tu affermi con tanta sicurezza, ci vuoi spiegare perché gli volti le spalle? Rispondo. Me ne vado proprio per questo: non sono tipo da abbandonare la nave in difficoltà, sotto la tempesta; preferisco scendere nel momento in cui il mare è calmo e l'equipaggio e i passeggeri brindano sereni, guardano al presente e al futuro sorridendo. È un vezzo? Forse sì e vi chiedo perdono, e di comprendermi: compiuta la missione, tocca ad altri andare avanti.Come vedete non ho recriminazioni né rivendicazioni da fare. Ho un gran desiderio di cambiare, cambiare aria. Comunque non mi ritiro in pensione. Dal 24 agosto prossimo, dirigerò il Giornale. Torno a casa, la casa che ereditai da Montanelli, dove mi auguro di rendermi utile come accadde la prima volta che vi entrai.Ringrazio i lettori per avermi sempre seguito, oso dire con affetto che penso di aver ricambiato se non meritato. Ringrazio, se mi è permesso, i miei giornalisti e tutti coloro che hanno collaborato al successo di Libero, in primis la famiglia Angelucci della quale rimango a disposizione affinché gestisca con calma la successione.Vado, non scappo, sia chiaro.La vita continua e i giornali pure.


Ambra mi ha chiesto di mettere anche un commento, non mi sottraggo.

Io non sono d’accordo con questo cambio di Direttori, anche se non conto niente ed anche se capisco che per Mario Giordano è un’opportunità che NON si può lasciare per strada, sapendo che lui ha già dimostrato di essere una persona professionalmente preparata e, quindi, il senso della richiesta di Mediaste è da me capito.

Io sono contrario a Feltri perché ambiguo : non è il Feltri di quando venne al Giornale la prima volta a sostituire Montanelli, è un prezzolato esagerato nel come scrive, non è corretto e a me frega niente se da Libero ha sempre ( ? ) dato l’impressione di essere contro la sinistra : IO l’ho contestato più di una volta, non solo lui per la verità, sulle cose che scriveva su Berlusconi, a partire dalla bufala sulla FIAT e da ciò che scrisse sulla proposta di De Benedetti a Berlusconi per fare quella Società con l’obbiettivo di salvare Aziende ed occupazione, lo considerai alla stessa stregua del Direttore di Repubblichella3000 che con un editoriale COSTRINSE De Benedetti a chiedere scusa ai lettori ed alla redazione e comunicò formalmente che “l’affaire” non si sarebbe compiuto.

I lettori di Repubblichella3000 e quelli di Libero, come spesso accade su certe questioni, non capirono l’errore di non costruire questo strumento che avrebbe dato opportunità maggiori ai singoli e, alla fine, anche alla collettività.
Non lo capivano perché “nel mezzo delle cose c’era Silvio Berlusconi” e, debbo dire, rispetto a quanto Repubblichella3000 ci ha propinato negli ultimi mesi, forse si sarebbero trovati in difficoltà quei lettori e quei “giornalisti” ( io ci penserei su a dare loro i contributi per il prepensionamento ).

Feltri usò una mia mail attraverso Mainiero nella pagina del rapporto con i lettori, facendomi rispondere su qualcosa che NON era il senso CHIARISSMO che nel mio testo c’era : era talmente chiaro e preciso che avevo utilizzato le parole di Feltri sulle quali avevo messo il perché NON era come lui scriveva.
Alla fine, Mainiero, aveva letteralmente cambiato la mia mail e allora gli scrissi per chiedere che pubblicasse la mia smentita, cosa che in un quotidiano che si intitola LIBERO si sarebbe dovuta leggere, magari con una ulteriore loro precisazione.
Siamo ancora qui a chiederci cosa ci sia di “liberale in un Monarchico” e nel suo modo di rapportarsi con i lettori e con la politica.

Il Giornale è di proprietà di Paolo Berlusconi e tale deve rimanere : un quotidiano INDIPENDENTE come dimostrano gli articoli che non sempre sono “nelle piene facoltà dei lettori ben accettati”, qualche volta da me stesso e senza nessun infingimento l’ho scritto in ogni dove, anche alla Redazione ed al Direttore, come sempre è stato mio costume.
Spero, come invece leggo da qualche parte, che non si dia “un indirizzo da quotidiano di Partito” dal 24 Agosto in poi, perché NON serve e farebbe la fine, per molti lettori, del Corriere della Sera con Mieli ed il suo “outing a favore di Prodi” che hanno smesso, giustamente, di acquistarlo.

Invece, qui si che ha un senso più compiuto, il ritorno di Mario Giordano a Mediaset spero voglia dire un “riassetto anche culturale” nell’ambito dell’informazione nel suo insieme, dentro quel gruppo : la serietà di Mario Giordano ci dovrebbe garantire, in futuro, che non sarà più possibile e senza epurare nessuno di coloro che hanno davvero voglia di fare giornalismo “con la schiena dritta”, fare informazione schierata solo da una parte, quella dell’opposizione attuale ma di raccontare al pubblico, perché quello è il loro DOVERE, ciò che è la Verità dei fatti e delle cose della vita, in generale e non solo per quello che è il loro, “particolare orientamento”, sapendo che è sufficiente parlare male del cdx senza parlare bene del csx per aver svolto il “mal del giornalismo, la faziosità”.
Saluti

martedì 28 luglio 2009

"Bisogna resistere all’asservimento al grande governo centrale – ha detto Sarah Palin nel suo discorso di addio al Pioneer Park di Fairbanks – Siate vigili prima di accettare le elargizioni del governo”. Forse gli americani dimenticheranno Sarah ma lei gli ha ricordato le origini degli Usa.

Usa.27 Luglio 2009

Le hanno buttato addosso un altro po’ di fango nel momento più difficile, quando ha deciso di mollare la carica di governatrice dell’Alaska. Nessun onore delle armi, tanto più che Sarah Palin non l’ha mai cercato. Hanno detto che è stata una “meteora” della politica americana, che adesso dovrà mettere ordine nella sua vita privata - a cominciare da Levi Johnston, il giovane marito scavezzacollo di sua figlia Bristol, sedotta e abbandonata con un figlio.

C’era poca gente al Pioneer Park di Fairbanks, dove la Palin ha organizzato la sua cerimonia d’addio: un picnic “folcloristico” come l’ha definito il Washington Post – che non si capisce se sia un complimento oppure no (probabilmente no). Sempre un sondaggio del Post ha ricordato che la scorsa settimana “circa il 40 per cento del pubblico aveva un’impressione favorevole della Palin, mentre per il 57 per cento era sfavorevole. Solo il 37 per cento ritiene che la Palin sia in grado di comprendere le questioni politiche più complesse”.

Nessuno sa cosa farà Sarah da qui al 2012, quando i repubblicani decideranno il nome del candidato destinato a sfidare Obama. Ma se è per questo non si sa nemmeno cosà farà nei prossimi mesi. E non è detto che sia un punto di debolezza. In realtà qualche appuntamento ce l’ha già: l’8 agosto parlerà alla Ronald Reagan Presidential Library della California, per esempio; si è offerta di aiutare i candidati repubblicani nelle elezioni di questo e del prossimo anno; ha un contratto per un libro di memorie e in molti la ritengono perfetta per ritagliarsi uno spazio televisivo o radiofonico.

E' anche probabile che il 37 per cento di americani che la ritengono capace di affrontare le questioni più spinose di una presidenza non siano tutti dei perfetti idioti. Perché nel suo ultimo discorso la Palin è stata molto chiara su come si risolvono i problemi che affliggono la democrazia degli Usa. Con la libertà, primo. Con meno tasse, secondo. E certo non con un Obama onnipresente che pretende di essere nelle tasche dei contribuenti e nelle teste dei cittadini. Sarah ha esortato gli abitanti dell’Alaska a “resistere all’asservimento al grande governo centrale – si stava chiaramente riferendo al piano di ‘stimolo’ per l’economia – Siate vigili prima di accettare le elargizioni del governo”.

La Palin ha ridato vigore alla campagna elettorale di McCain ma con le sue intemperanze è stata una delle palle al piede di McCain. E’ amata e odiata dai repubblicani. Potrebbe rivelarsi una meteora o diventare la prima donna presidente degli Usa. Ma con il suo “discorso del picnic” ha ricordato che anche l’origine della rivoluzione americana è paradossale.

Quando i Padri Fondatori scrissero la Costituzione misero dei limiti precisi all’interventismo del governo nella vita privata degli individui. Per semplificare, si può dire che misero prima gli individui e poi il governo: “All government was limited government; all public authority must keep within the bounds of the constitution and of declared rights”, ha scritto Robert Palmer nell’ormai classico The Age of Democratic Revolution.

Nessuna “Ragion di Stato”, quindi, sarà mai in grado di incantare lo spirito del popolo americano, tantomeno un governo che pretende di decidere in che modo ti devi curare o che tipo di acqua devi bere. Siamo negli Stati Uniti d’America non nel socialismo reale. E Sarah Palin, la "provinciale" e folcloristica Palin, questo lo sa. Non gli serve la trigonometria per spiegarlo.

venerdì 24 luglio 2009

Gesù protegge i peccatori alla Silvio

Antonio Socci
Pubblicato il giorno: 24/07/09

Ci sono giornali e intellettuali che strattonano la Chiesa esigendo la condanna del peccatore. Si rassegnino: Berlusconi è corazzato da quel Gigante che attraversa le pagine dei Vangeli e che è la Misericordia fatta carne. Non è “protetto dai preti” (per qualche losco interesse), ma da Gesù stesso (come ciascuno di noi peccatori).

E i preti devono essere loro stessi il volto di Gesù che attende e perdona il peccatore. Chi è stato, nella nostra generazione, l’immagine più perfetta di questo Salvatore (...)

(...) che spalanca le braccia a fiumi di peccatori in cerca di perdono? Padre Pio. Icona di Cristo perfino nella carne (perché quei segni dei chiodi indicano che Gesù inchiodò alla croce la giustizia di Dio e fece vincere la “follia” della sua sconfinata misericordia). Per questo l’idea di andare a San Giovanni Rotondo da padre Pio è la migliore: non so se Berlusconi ci ha pensato davvero, ma è, in assoluto, il posto del mondo dove più è atteso. È casa sua e casa mia. La Chiesa è, ad immagine di Maria, “refugium peccatorum”.

È il paradosso che si riflette poeticamente nei più grandi scrittori cristiani. Non a caso «la creazione più alta in cui si incarna, nei romanzi di Dostoevskij, la santità è paradossalmente una prostituta», nota don Barsotti. Cioè Sonja di “Delitto e castigo”. Non il santo monaco Zosima, ma Sonja.

Il fariseo pretende sempre di accusare di incoerenza i peccatori che si affidano a Dio. Ma non si crede in Gesù Salvatore perché noi siamo perfetti, si crede perché lui è perfetto. Tanto più si ha il diritto di gettarsi fra le braccia del Salvatore quanto più noi siamo dei disgraziati. Un personaggio della “Sposa bella” di Bruce Marshall, uno che mostra di apprezzare la bellezza femminile e si dice cattolico, risponde al moralista che lo contesta: «È proprio qui che ti sbagli… Quasi tutti pensano che i loro peccati li abbiano privati del diritto di credere. Ma questo equivarrebbe a dire che la rivelazione cristiana è vera in maniera inversamente proporzionale ai propri vizi. Nel Medioevo, la gente era cristiana anche nel peccato: il timore di essere accusata di incoerenza non la faceva cadere nell’errore di credere nella propria virtù».

Credere nella propria virtù, pronti a lapidare il peccatore, è quanto c’è di più anticristiano, mentre le ferite del peccato facilmente diventano le feritoie attraverso cui Dio, che non si rassegna a perdere nessuno dei suoi figli, ci raggiunge con il suo abbraccio.

Così Charles Péguy, un grande convertito del Novecento, memore delle pagine evangeliche sul pubblicano e il fariseo (e delle polemiche di Paolo e Agostino sulla Legge), scrive queste pagine provocatorie: «Le persone morali non si lasciano bagnare dalla grazia. Ciò che si chiama la morale è una crosta che rende l’uomo impermeabile alla grazia. Si spiega così il fatto che la grazia operi sui più grandi criminali e risollevi i più miserabili peccatori».

Infatti sul Calvario si convertì il “ladrone” (un brigante), mentre scribi e farisei, osservanti di tutti i 600 precetti della Legge, additavano Gesù come un maledetto da Dio. «È per questo» prosegue Péguy «che niente è più contrario a ciò che si chiama… la religione, come ciò che si chiama la morale. E niente è così idiota che confondere così insieme la morale e la religione».

Attenzione, Péguy – col suo linguaggio poetico - non sta facendo l’elogio dell’immoralità. Ma condanna l’ideologia della morale, cioè il giacobinismo, il moralismo farisaico e la pretesa di salvarsi da sé. Non è che Gesù fosse indifferente al peccato che anzi gli faceva una tristezza infinita. Ne aveva orrore, ma si struggeva di compassione per i peccatori. Era venuto per loro. Letteralmente. Nel Vangelo Gesù mostra una pietà infinita per i più miserabili peccatori, li perdona sempre, li risolleva sempre (li considera i più poveri), mentre sfodera parole di fuoco solo contro i “giusti”, i rigoristi, i moralisti e gli “onesti” del suo tempo. I peccatori umiliati (resi umili dalla propria scandalosa debolezza) si salvano, dice una sua parabola, mentre i “giusti”, insuperbiti dalla loro presunta rettitudine, no.

Scrive don Divo Barsotti: «È il tuo peccato che lo chiama; nulla più efficacemente della tua miseria lo attrae, purché tu gliela doni… In un istante i tuoi peccati sono distrutti, non sono più. Egli solo è». Per Gesù l’unico peccato che non si può perdonare è quello contro lo Spirito Santo, cioè quello dell’ideologia o dell’opposizione lucida e teorizzata contro Dio. Il peccato del pensiero oggi dominante che si erge deliberatamente contro Dio. Com’è stato, nel recente passato, il comunismo. Perciò Pio XI nella Divini Redemptoris (citata dal Concilio) proclamava: «Il comunismo è intrinsecamente perverso e non si può ammettere in nessun campo la collaborazione con esso».

Gilbert K. Chesterton in una pagina memorabile fa dire a un suo personaggio (evidente simbolo della Chiesa): «Noi sosteniamo che i delinquenti più pericolosi sono proprio quelli dotati di cultura, che il furfante più temibile è il filosofo moderno assolutamente privo di principi. Al suo confronto, bigami e tagliaborse sono esseri essenzialmente morali e il mio cuore palpita per loro. Essi non rinnegano il vero ideale dell’uomo, lo cercano in modo sbagliato, ecco tutto».

Invece i “filosofi”, gli ideologi pretendono di teorizzare e trasformare il Male in Bene e viceversa.

Da duemila anni, la Chiesa è – per volontà del suo Maestro e Signore - la casa del peccatori, l’abbraccio del loro Padre misericordioso. Tutto nella Chiesa è fatto per i peccatori. Le grandi Cattedrali e il sublime gregoriano, le immense tele di Caravaggio e l’Agnus Dei di Mozart, la grandiosa teologia di Tommaso d’Aquino e il Giudizio universale di Michelangelo. Quello che c’è di più sacro sulla terra, cioè i sacramenti, sono fatti per i peccatori. Sono per loro. Infatti sono i gesti fisici (legati sempre a segni fisici) della presenza di Gesù che abbraccia, risolleva, cura, medica, consola, rafforza, chiama. Il Concilio ripete che la Chiesa è il primo, grande sacramento della salvezza. La Chiesa è la casa dei peccatori perché gli esseri umani sono i figli del Re. Anche quando sono in catene (nel peccato) sono i figli del Re, possono invocarlo e vengono da lui soccorsi. E gli angeli sono a loro servizio.

Chi invece contesta la regalità di Dio, quello non è figlio. Non può essere perdonato, perché non vuole l’abbraccio del Padre, ma lo odia e ne combatte lucidamente la presenza, le opere, la volontà, la bontà.

Invece – come spiega Agostino nelle “Confessioni” - nella debolezza del peccare talvolta si manifesta proprio la sete che ogni creatura ha di Dio. Spesso il peccato nasce dalla solitudine, dalla paura della morte, dall’incertezza di esistere che induce ad aggrapparsi alle creature, alla loro effimera bellezza creata. E così inconsapevolmente l’uomo mostra quanto ha sete e fame di Dio, la fonte della Bellezza, la vera Felicità, la vera Vita.

Un altro grande convertito del nostro tempo, Olivier Clément, osservando la generazione della “rivoluzione sessuale”, negli anni Settanta, scriveva: «Nel peccato, e soprattutto nel peccato in quanto ricerca dell’innocenza mediante l’inferno, si delinea tutto il paradosso dell’uomo… Dovremmo essere in grado di discernervi la sete dell’infinito, la nostalgia della libertà e della comunione, (…) la sofferenza di colui che cerca l’assoluto nelle realtà della terra, quelle realtà che non possono salvare, ma che attendono di essere salvate». Clément parla di uomini in cerca di «un’eterna adolescenza» e conclude: «Nella grande e spesso folle prova della libertà dobbiamo distinguere la persona nel suo trasalimento ancora cieco e nel suo destino insaziabile, con la certezza che nella parte più profonda dell’inferno Cristo – per sempre vincitore di esso – attende colui che l’Apocalisse chiama ”l’uomo di desiderio”». Perché Cristo è il solo medico della nostra malattia mortale.

www.antoniosocci.it


mercoledì 22 luglio 2009

Il regime religioso iraniano di Ali Khamenei (click)

“Ho stuprato le ragazze iraniane prima di giustiziarle "

21 Luglio 2009

In un’intervista inedita e scioccante che descrive l’efferatezza del regime religioso iraniano del leader supremo Ali Khamenei, un uomo appartenente alle milizie paramilitari Basiji ha raccontato a chi scrive del proprio ruolo nella repressione delle proteste delle scorse settimane.

L’intervistato non ha taciuto i dettagli del suo servizio in questa milizia, non nascondendo di aver partecipato allo stupro di ragazze iraniane poco prima che venissero messe a morte.

L’intervista è stata fatta per telefono, dietro la garanzia dell’anonimato. Quanto riferito è stato poi avallato da fonte degna di fiducia, la cui identità non può essere rivelata.

Fondata dall’ayatollah Ruhollah Khomeini nel 1979 come “milizia popolare”, la milizia Basiji è reclutata su base volontaria ed è alle dipendenze delle Guardie della Rivoluzione, corpo fedele al successore di Khomeini, Khamenei.

Il miliziano Basiji con cui abbiamo parlato, un padre di famiglia, è stato sentito subito dopo essere stato scarcerato. Il suo crimine: lasciare in libertà due ragazzi iraniani – un 13enne e una 15enne – che erano stati arrestati durante i disordini seguiti alle presidenziali di giugno.

“Ci sono stati molti altri, tra poliziotti e agenti di altre forze di sicurezza, che sono stati arrestati per la loro tolleranza verso chi protestava nelle strade, o perché hanno liberato qualcuno senza richiedere il permesso ai superiori”, ha detto l’uomo.

Le violenze più brutali contro gli oppositori, ha aggiunto, sono arrivate da quei reparti delle forze di sicurezza chiamati dall’esterno, ossia da reclute di 14-15 anni richiamate dai piccoli villaggi dell’interno per operare nelle città dove le proteste hanno avuto luogo.

“Ai ragazzi di 14 e 15 anni è stato dato così tanto potere... e mi dispiace dover dire che ne hanno abusato – continua il miliziano – Questi ragazzi fanno tutto quello che vogliono: costringono la gente a vuotare il portafoglio, entrano nei negozi e portano via le cose senza pagare, toccano le ragazze in modo inappropriato. Le ragazze sono così spaventate che se ne restano buone, lasciando far loro quello che vogliono”. Questi giovanissimi e altri “vigilantes in borghese”, aggiunge, hanno perpetrato i loro crimini quasi sempre in nome del governo.

Alla domanda di quale sia stato il suo ruolo nella brutale reazione che ha stroncato la protesta, e se abbia picchiato i manifestanti o provi rimorso per le sue azioni, l’uomo ha risposto evasivamente: “Non ho attaccato nessun manifestante, e anche se lo avessi fatto è mio dovere eseguire gli ordini – dice. – Non ho alcun rimorso, tranne per quanto riguarda il periodo in cui lavoravo come guardia carceraria, quando ero un adolescente”.

Spiega quindi che entrò nelle milizie Basiji grazie a sua madre, che lo portò al reclutamento.

Quando aveva 16 anni, “mia madre mi portò in un commissariato Basiji e li pregò di prendermi, perché non avevo nessuno né prospettive per il futuro. Mio padre andò al martirio nella guerra contro l’Iraq e lei non voleva vedermi finire schiavo della droga, o diventare un delinquente. Non avevo scelta”, ricorda.

Aggiunge quindi di essere stato una delle reclute migliori della milizia, e di avere a tal punto “impressionato i miei superiori” che, a 18 anni, “mi fu concesso l’onore di sposare in via temporanea una delle giovani che di lì a poco avremmo giustiziato”.

Nella Repubblica islamica, ci spiega, è illegale giustiziare una giovane donna, qualunque crimine abbia commesso, fin tanto che è vergine. Per questo motivo, la notte prima che venga eseguita la sentenza si tiene una cerimonia nuziale, in cui la giovane è costretta ad avere un rapporto sessuale con una guardia della prigione – in pratica, viene stuprata dal “marito”.

“Di questo mi rammarico, anche se il matrimonio era del tutto legale”.

E perché questo rammarico – chiediamo – vista la “legalità” del matrimonio?

“Perché credo che la cosa veramente insopportabile per le ragazze era proprio quella notte ‘di nozze’, ancor più dell’esecuzione che le attendeva la mattina dopo. Sapevamo che si sarebbero ribellate, perciò dovevamo mettere dei sedativi nel loro cibo. Alla mattina le ragazze avevano un’espressione vuota; sembrava come se fossero pronte e volessero morire”.

“Ricordo le loro urla e il loro pianto quando tutto [lo stupro] era finito. Non dimenticherò mai una ragazza, subito dopo prese a graffiarsi furiosamente la faccia e il collo, fino a procurarsi profonde ferite per tutto il corpo”.

Tornando agli eventi delle ultime settimane, e alla decisione di lasciar liberi quei due adolescenti, l’uomo ha detto che, “onestamente”, non sapeva perché lo faceva, pur sapendo che una tale decisione lo avrebbe fato arrestare, “ma penso che sia stato il fatto che erano tanto giovani. Sembravano bambini, e sapevo quel che sarebbe accaduto loro se non fossero stati liberati”.

Spiega che se un uomo viene ritenuto responsabile delle proprie azioni da 13 anni in poi, per una donna l’età si abbassa a 9 anni, e che a metterlo “veramente nei guai” è stata proprio la liberazione della 15enne. “Non sono stato maltrattato, né interrogato seriamente mentre ero dentro”, dichiara. “Sono stato messo in una stanzetta, e lasciato solo. In isolamento è dura, così ho passato la maggior parte del tempo pregando e pensando a mia moglie e ai miei ragazzi”.

Traduzione di Enrico De Simone

domenica 19 luglio 2009

Come si governa con un opposizione così ? (click)

LA DITTATURA DEL GIULLARE


Beppe Grillo ha vinto la sua battaglia quando, per impedirgli di prender parte all’imminente congresso e alle successive primarie, Dario Franceschini, tuttora segretario del Partito democratico, invece di mandarlo decisamente a quel paese s’è appellato alle norme della burocrazia interna, come peggio non avrebbe potuto fare un piccolo ragioniere. Norme burocratiche che come c’era da aspettarsi il comico ha potuto aggirare grazie alla compiacenza dei democratici compagni del circolo Martin Luther King di Paternopoli, che solo così sembra già una trovata cabarettistica. Grazie alla quale, però, Grillo - l’uomo che ha dichiarato morta la democrazia reale, liquidata da quella virtuale delle chat, dei blog e di Facebook - da spalla, da comprimario, da macchietta che era si ritrova protagonista e punto di riferimento del dibattito politico. Con le carte (burocratiche) in regola per candidarsi alla segreteria del Partito democratico, di riffa o di raffa erede del Pci di Togliatti e di Berlinguer.
Che ciò sia potuto succedere, è una colpa gravissima che pesa su tutta la sinistra italiana, su tutti i «sinceri democratici» appartenenti alla società civile. In particolare di quelli che hanno vezzeggiato i Nanni Moretti, i Pancho Pardi e i girotondini; i fan della Dandini e di Daniele Luttazzi, gli abbonati a Micromega. Quelli che in perfetta sintonia con Grillo ripongono il futuro della nazione nelle mani del «popolo del web». Intendiamoci, un buffone - buffone di professione, iscritto alla Siae - che getta nel marasma i progressisti e che rischia addirittura di mettersene alla guida è cosa che lì per lì dovrebbe compiacere l’Italia maggioritaria liberale e democratica. La sinistra che finisce in avanspettacolo è pur sempre una bella soddisfazione. Ma anche se gode di un basso indice di gradimento, la politica è quell’insieme di cose che, virino a destra o virino a sinistra, concerne tutti noi. E il dover constatare che ne diventa protagonista, che ne diventa animatore Beppe Grillo lascia fortemente perplessi. Forse il programma del governo Prodi, duecento e passa pagine, era un po’ prolisso, ma il programma di Grillo riassunto nei suoi monologhi, quello lascia, per pochezza, per povertà o meglio per conformismo delle idee e per demagogia pauperista, davvero sgomenti.
Un uomo così alla guida di un grande partito e dunque in teoria alla possibile guida del Paese? Uno che non fa distinzione tra la una gag e una riflessione politica, riducendo a gag questa ed elevando a politica quella? Uno che manifesta in modo così palese che il proprio impegno sociale, che i sermoni moralistici, che gli attacchi ai poteri forti, che la demagogia dispensata a piene mani hanno come scopo «colpire la pancia», suscitare l'applauso e di conseguenza far palanche, come le chiama il genovese Grillo? Da un comico non si pretende né la buona fede né che sia mosso da ideali. Ma da un politico sì. Anche se gli ideali dovesse poi chiamarli sogni, cosa che accade sempre più frequentemente. È da qualche mese che la sinistra batte e ribatte sulla pessima immagine che per via di certo ciarpame, poi rivelatosi inconsistente, dà di sé l’Italia. È la pagliuzza negli occhi, laddove la trave è rappresentata dal partito dell’opposizione messo nel sacco da un Beppe Grillo qualsiasi, dalla «parte migliore della società», come si definisce la sinistra, da coloro che si ritengono addirittura «antropologicamente diversi», che stanno per mettersi nelle mani di un guitto. E qui il ciarpame c’è, c’è tutto.

giovedì 16 luglio 2009

DA IL LEGNO STORTO (ckick)

Chiliasmo e millenarismo del PD: il TG3 sul papa Stampa E-mail
Scritto da Paolo Della Sala
martedì 14 luglio 2009
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Clamoroso autoinfortunio del PD sul papa. Un giornalista del TG3 (PD) si lancia in una satiriasi contro il papa, di livello grillesco o crozzino o cretino. Oppure (peggio) voleva solo dire il contrario di ciò che ha detto, e allora però doveva smentire subito, lui e il suo direttore.

A quel punto il vicepresidente della Commissione di Vigilanza sulla Rai (PD), s'incazza.

(Corriere della Sera) ROMA - Bufera sul Tg3 per un servizio su Benedetto XVI andato in onda domenica sera. «Domani il Papa va in vacanza e ci saranno anche due gatti... che gli strapperanno un sorriso, almeno quanto i proverbiali quattro gatti, forse un po' di più, che hanno ancora il coraggio e la pazienza di ascoltare ancora le sue parole». Il riferimento del vaticanista era ai due gattini, uno grigio un po' malandato e uno bianco e nero, dal pelo lucido e folto, che il Pontefice dovrebbe trovare nella villetta di Les Combes, in Val d'Aosta, dove Ratzinger trascorrerà un periodo di riposo (guarda). Ma lo scivolone ironico del giornalista del Tg3 sui «due gatti» e i «proverbiali quattro» ha fatto andare su tutte le furie il vicepresidente della Vigilanza Rai Giorgio Merlo (Pd), il quale ha accusato la testata, parlando di «deriva anticlericale, singolare e volgare». «Stupiscono - ha scritto Merlo in una nota - le parole contenute nel servizio andato in onda ieri sera alla edizione delle 19 del Tg3». «La linea editoriale del Tg3 è stata sempre caratterizzata da grande attenzione e rispetto per il magistero della Chiesa e la figura del Pontefice» ha replicato il direttore della testata Antonio Di Bella. «Mi sento di ribadire tale impegno di fronte alla cortese ma ferma polemica dell'onorevole Merlo» ha aggiunto. «Prendo atto delle dichiarazioni del direttore del Tg3 Di Bella - fa sapere Federico Lombardi, direttore della sala stampa vaticana - e mi auguro quindi che il telegiornale della terza rete sia sempre, come egli dice, effettivamente caratterizzato da attenzione e rispetto per la Chiesa e per la figura del Papa».

I movimenti chiliastici riguardano la credenza nella Fine del Mondo, in coincidenza con la fine della propria cultura, fede, etnia. Leggere QUI.

Da:http://leguerrecivili.splinder.com/

DA "TEMPI"


Il Papa sa dove andare

Con la Caritas in veritate la Chiesa si riprende il suo spazio tra i costruttori della città. E ricorda che la sua parola non è un’altra opinione, ma pretende di essere la risposta alle attese di tutti

di Giampaolo Crepaldi

La Caritas in veritate è destinata a parlarci a lungo e a lungo noi dovremo parlare di essa. Dopo circa venti anni dalla Centesimus annus di Giovanni Paolo II, la Chiesa riprende ancora in mano il bandolo della matassa della costruzione del mondo e trasforma la questione sociale nientemeno che nella questione dello «sviluppo umano integrale nella carità e nella verità». Così facendo la Dottrina sociale della Chiesa viene collocata laddove Chiesa e mondo si incontrano. Il paragrafo 34 dell’enciclica dice con chiarezza che dopo il peccato originale il mondo non sa costruirsi da solo. La Dottrina sociale, come diceva Giovanni Paolo II, è strumento di salvezza perché è annuncio di Cristo nelle realtà temporali. La Caritas in veritate ribadisce la “pretesa” cristiana: senza di Cristo non si può fare nulla.
Senza la forza della carità e la luce della verità cristiane l’uomo non è capace di tenersi insieme, perde i propri pezzi, si contraddice, si scompone e si decompone. La pretesa cristiana è che solo Gesù Cristo svela pienamente l’uomo all’uomo e gli permette di “tenersi”, come un tutto. Una lettura della Caritas in veritate da questo punto di vista sarebbe molto interessante. Destra e sinistra, conservazione e progressismo, capitalismo e anticapitalismo, natura e cultura… queste e altre separazioni e riduzioni vengono completamente sorvolate: la realtà è più di esse e la realtà è data dalla carità e dalla verità. Si pensi alla più frequente delle scomposizioni ideologiche: la separazione dei temi della vita e della famiglia da quelli della giustizia sociale e della pace. Separazione evidentissima, per esempio, nel riduzionismo ecologista o nello sviluppo dei popoli poveri collegato con l’aborto o la pianificazione riproduttiva forzata. L’enciclica dice che tutto ciò va “tenuto insieme”. Si pensi alla frequente interpretazione dello sviluppo solo in termini quantitativi, a fronte di altre cause – qualitative – sia del sottosviluppo che del supersviluppo. L’ideologia della tecnica è il nuovo assolutismo (si veda il capitolo VI) perché separa: se tutti i problemi della persona umana si riducono a problemi psicologici risolvibili da tecnici “esperti” si finisce per non sapere nemmeno più cosa si intenda per sviluppo. L’uomo è unità di corpo e anima. La Caritas in veritate riconsegna allo spirito e alla vita eterna il loro posto nella costruzione della città terrena.

L’eliminazione della possibilità del dono
La pretesa cristiana è di riuscire a tenere insieme il tutto. Ma è anche quella di rispondere ad un bisogno, meglio: ad una attesa. Anche questo secondo aspetto della pretesa cristiana c’è tutto nella Caritas in veritate. Senza negare i diversi livelli di verità e di competenza, e quindi senza negare anche i propri limiti, la Chiesa sa di annunciare la Parola definitiva e che questa Parola non si aggiunge dall’esterno come un’opinione, ma pretende di essere la risposta alle attese umane. Dio ha così il suo posto nel mondo e la Chiesa un suo “diritto di cittadinanza”. Che Dio abbia un posto nel mondo richiede che il mondo ne abbia bisogno anche per essere mondo, ossia per conseguire i suoi fini naturali, viceversa Dio è superfluo. Utile, magari, ma non indispensabile. Se Dio è solo utile allora il cristianesimo è solo etica. Se, invece, Dio è indispensabile allora la fede purifica la ragione e la carità purifica la giustizia. Purifica significa che le rende effettivamente ragione ed effettivamente giustizia. Come dire che senza la fede la ragione non riesce ad essere ragione e senza la carità la giustizia non riesce ad essere giustizia.
Non si comprenderà a fondo la Caritas in veritate se ci si soffermerà solo sui singoli capitoli tematici, senza tenere in conto la visione generale. Il tema vero dell’enciclica è il posto di Dio nel mondo. Per questo la Caritas in veritate è anche un bilancio politico e sociale della modernità e dei danni al vero sviluppo provocati dalla incapacità di cogliere ciò che non sia prodotto da noi. Il paragrafo 34 è tra i più belli – e più importanti – dell’enciclica in quanto parla della «stupefacente esperienza del dono». La modernità, nella sua versione emergente, elimina la possibilità stessa di “ricevere” e di “accogliere” qualcosa di veramente nuovo e che “irrompe” nella nostra vita. Impedisce di cogliere la carità e l’amore che sono sempre quanto non si può prevedere e produrre. Toglie quindi a Dio il suo posto nel mondo, perché Dio è Carità e Amore. Toglie la possibilità di riconoscersi come “fratelli”, perché la vicinanza si può produrre – dice l’enciclica – ma la fraternità no. Qualcuno ha osservato che nell’enciclica si parla più di fraternità che di solidarietà. È vero. Non però per eliminare il termine solidarietà, ma per chiarirlo meglio alla luce della fede cristiana. La fraternità richiede un unico Padre e non può essere che un dono. La solidarietà corre il rischio del solidarismo e quindi della orizzontalità etica. Potremmo dire che la fraternità cristiana purifica la solidarietà umana.

Lo sviluppo non è appena una crescita
Che rapporto c’è tra la prospettiva del dono e quella della libertà e della responsabilità? La Caritas in veritate colloca il tema dello sviluppo in questo ultimo ambito, non quello dei meccanismi ma quello della responsabilità. Questa non nasce da quanto produciamo noi, ma dall’accoglienza di doveri indisponibili. Al contrario la libertà sarebbe arbitraria e la responsabilità irresponsabile. Si legga con attenzione il paragrafo 43 sui diritti e sui doveri. Lì la modernità è purificata, ossia liberata da se stessa per essere più autenticamente se stessa. Da una modernità irresponsabile a una modernità responsabile. Il sottosviluppo è prodotto. Ed è prodotto meno da carenza di risorse e più da carenza di pensiero e di cuore. Il pensiero e il cuore – se non ridotti ad opinione e a sentimento – ci mettono davanti a quanto ci interpella perché non prodotto da noi. Ci indicano il senso vero dello sviluppo da assumere liberamente e responsabilmente, senza affidarne la realizzazione solo a burocrazie o a meccanismi.
La grandezza della Caritas in veritate sta nel suo respiro. Senza Dio, si legge nella Conclusione, l’uomo non sa dove andare e non sa nemmeno chi egli sia. Senza Dio l’economia è solo economia, la natura è solo un deposito di materiale, la famiglia solo un contratto, la vita solo una produzione di laboratorio, l’amore solo chimica e lo sviluppo solo una crescita. L’uomo ondeggia tra natura e cultura, ora intendendosi solo come natura ora solo cultura, senza vedere che la cultura è la vocazione della natura, ossia il compimento non arbitrario di quanto essa già attendeva.
*arcivescovo-vescovo eletto di Trieste

sabato 11 luglio 2009

L'enciclica sullo sviluppo (click)

LO SVILUPPO E' UNA VOCAZIONE, PAROLA DI PAPA
Riccardo Cascioli

Un documento straordinariamente moderno e controcorrente, rispetto sia alla mentalità “mondana” sia a tanto “progressismo” cattolico. Stiamo parlando della nuova enciclica di Benedetto XVI, Caritas in Veritate, la prima enciclica sociale di questo pontificato, che originariamente doveva uscire in occasione del 40mo anniversario della Populorum Progressio di Paolo VI (1967).

Impossibile cogliere in poche righe tutta la ricchezza e i diversi punti toccati dall’enciclica, ma ci preme metterne in rilievo alcuni aspetti fondamentali.

1. La base di tutto è la “questione antropologica”. E’ qui che si gioca la sfida principale al mondo moderno che i sociologi definiscono post-cristiano. Contro un pensiero dominante che ha una concezione essenzialmente negativa della presenza umana sulla terra – di cui il controllo delle nascite e la deriva eugenetica sono soltanto una esplicitazione -, il Papa rimette l’uomo al centro della Creazione. L’uomo immagine e somiglianza di Dio, che proprio dal riconoscimento di questa “vocazione” trae la sua dignità, nonché il compito e la responsabilità sociale. E’ questo un punto decisivo perché, scrive il Papa, “l’umanesimo senza Dio è un umanesimo disumano” e non c’è dubbio che oggi l’ideologia umanitaria, incarnata ad esempio dalle agenzie dell’ONU e da tanti organismi umanitari internazionali, sia responsabile di tanti crimini contro l’umanità. Come dimenticare infatti che i 50 milioni di aborti che si consumano ogni anno nel mondo sono attivamente promossi e finanziati da agenzie umanitarie?

2. Proprio per questa visione antropologica, l’enciclica pone il diritto alla vita e il diritto alla libertà religiosa – strettamente connessi alla dignità dell’uomo – come fondamento di un vero sviluppo integrale della persona e dei popoli. Ogni politica di sviluppo che prescinda da questo riconoscimento in un modo o nell’altro provoca disastri e fallimenti. Non può non venire in mente la Cina dove la crescita economica si accompagna a una sistematica violazione dei diritti umani con gravi conseguenze sociali e politiche, dallo squilibrio demografico al preoccupante inquinamento.

3. Fondamentale l’affronto della questione demografica. Il punto centrale, coerente con quanto sopra, è che “l’apertura alla vita è al centro del vero sviluppo”. Il che ha due implicazioni:
A) per i paesi poveri, si è dimostrato “scorretto dal punto di vista economico” “considerare l’aumento della popolazione come causa prima del sottosviluppo”. In effetti negli ultimi decenni tutti i Paesi del mondo – salvo rarissime eccezioni – hanno sperimentato un calo drastico delle nascite. Ma nessun paese è uscito dalla povertà e dal sottosviluppo grazie a queste politiche. Al contrario sono state dirottate sul controllo delle nascite importanti risorse necessarie per promuovere veri progetti di sviluppo. Inoltre l’applicazione selvaggia di tali politiche – vedi Cina, India e altri Paesi asiatici – ha provocato grossi squilibri sociali, di cui la mancanza all’appello di cento milioni di femmine è soltanto l’aspetto più eclatante.
B) Per i paesi sviluppati, pone le radici dell’attuale crisi economica proprio nel drammatico calo delle nascite. E’ un’analisi originale – ignorata dai cosiddetti esperti – che offre un orizzonte e una prospettiva nuova alla crisi. Non si tratta di una congiuntura negativa legata semplicemente a errate politiche economiche e finanziarie – che pure ci sono state – ma di una crisi strutturale dovuta a oltre 40 anni di tassi di fertilità (per i paesi sviluppati) al di sotto del livello di sostituzione. Se negli ultimi anni abbiamo capito quanto questo ci sta costando - e ci costerà ancora di più in futuro – per le pensioni, ebbene questo è soltanto un aspetto di una crisi ben più ampia destinata ad aggravarsi nei prossimi anni e a cambiare profondamente la nostra vita. Per questo la risposta non può essere soltanto “tecnica”. Le comunque necessarie misure economiche e finanziarie devono accompagnarsi a una vera rivoluzione culturale, fondata sull’ apertura alla vita.

4. L’enciclica sostituisce l’abusato termine “solidarietà” con il concetto di “fraternità”. E’ un’importante novità che fa i conti con l’ambiguità della “solidarietà” che – anche in vaste aree del mondo cattolico – si accompagna a una visione sentimentale e ad una riduzione della carità a filantropia. E’ perciò diventata parte di quell’ “umanesimo senza Dio” che il Papa denuncia come disumano. L’introduzione del concetto di fraternità rimanda direttamente alla questione antropologica richiamata all’inizio: mentre la solidarietà mette l’accento sul fare dell’uomo verso gli altri uomini, la fraternità mette l’accento su ciò che riceviamo, perché è il riconoscimento di un unico Padre (senza il quale non potremmo considerarci fratelli).

venerdì 10 luglio 2009

L’attacco all’Italia? Questi inglesi sono ancora razzisti (click)

di Giordano Bruno Guerri

L’autore della vignetta su Berlusconi pubblicata dal Times on line, e il suo direttore, intendevano senza dubbio ironizzare sulle propensioni erotiche del nostro capo del governo, su quanto lo rallegri circondarsi di belle donne ecc. Fa parte del gioco, di una satira più che lecita: neanche da noi sono mai mancate vignette sui cappellini bizzarri della regina Elisabetta II, i suoi cani, i rapporti matronali con il figlio Charles e – prima ancora – con la nuora Diana. Il grave della vignetta dunque non sta in quel reggiseno messo a comporre l’8 del G8, che trovo persino spiritoso (e che forse non dispiace neppure all’interessato).

Il grave sta piuttosto in una forma di razzismo che è intollerabile se inconscio: inaccettabile se voluto, conscio. Guardatelo, il Berlusconi del Times: grasso e panzone fuor di misura e di realtà, a rappresentare lo stereotipo incarnato da Marlon Brando nel Padrino. E la faccia? Fronte bassa, occhi ravvicinati e un sorriso che non è quello del joker, ma quello del nero – anzi, del “negro” – con tanto di labbrone. Qui non siamo più all’ironia – discutibile ma non offensiva – su Obama “abbronzato”. Qui si vuole indicare una caratteristica genetica, ovvero razziale, che probabilmente non riguarda soltanto Berlusconi, ma tutto il popolo italiano: una razza bianca, sì, ma non davvero del tutto.

Quello sugli italiani non del tutto bianchi (e sempre mafiosi) è un pregiudizio antico degli anglosassoni, partito proprio dagli inglesi e subito approdato negli Stati Uniti, con l’arrivo di massicce ondate di nostri emigranti fra fine Ottocento e inizio Novecento. Accolti inizialmente come “bianchi”, gli italiani dovettero attendere a lungo prima di essere trattati davvero come tali. Nel 1922, in Alabama, un uomo di colore - accusato di miscegenation (mescolanza di razze) per avere avuto rapporti sessuali con una bianca – venne assolto in quanto la donna “non era bianca, era italiana”. Uno dei protagonisti di Bubbitt, romanzo di Sinclair Lewis pubblicato sempre nel 1922, sostiene che i dago «devono imparare che questo è il paese dell’uomo bianco e che non sono desiderati qui». “Dago” e “Guinea” erano le definizioni di “italiano” che più accostavano i nostri emigrati ai neri. Bollati in tale modo, dopo i casi di linciaggio avvenuti fra fine Ottocento e inizio Novecento, gli italiani subirono spesso una discriminazione ufficiosa ma non per questo meno infamante: come il rifiuto di nativi americani, e di emigrati anglosassoni, di viaggiare sullo stesso tram e di vivere in case accanto alle loro; oppure l’esclusione di bimbi italiani da scuole e cinema, mentre i loro genitori venivano esclusi da certi sindacati e associazioni. Venivano segregati persino in alcune chiese.

Libri, riviste, giornali popolari e cinema favorirono la segregazione presentando spesso gli italiani come “razzialmente sospetti”, e gli stessi rappresentanti del governo catalogavano i nostri emigranti come “bianchi scuri” di “razza” italiana. Negli anni Trenta, in America, vennero estesi i diritti civili a tutti i “caucasici”, gruppo razziale che comprendeva anche i mediterranei, suddiviso però in “White Caucasian” (caucasica bianca: anglosassoni, germanici e scandinavi) e “Caucasian”. La suddivisione in “white caucasian” e “caucasian” è ancora in vigore nei metodi statistici usati dalle istituzioni di molti Stati americani, e le presunte razze non caucasiche furono escluse dai diritti civili fino agli anni Sessanta.

Se negli Stati Uniti questi pregiudizi sono stati ormai superati, anche grazie all’assidua frequentazione con gli italo-americani e con i loro discendenti, non è così nella Gran Bretagna dell’Unione Europea, specialmente quando si tratta di avversari politici. E infatti la vignetta pubblicata dal Times on line ricorda terribilmente quelle contro gli italiani pubblicate nei fogliacci reazionari degli Usa nei primi del novecento.

martedì 7 luglio 2009

L'incredibile scala

Scala
Posted: 06 Jul 2009 11:35 AM PDT
Sull’ultimo numero (giugno 2009) del «Timone» (rivista solo in abbonamento; fatevene mandare copia gratis: info@iltimone.org) Matteo Salvatti ricorda l’incredibile scala della chiesa di Our Lady of Loretto a Santa Fè nel New Mexico. Costruita nel 1873, è visitata da almeno 250mila persone all’anno. E’ di legno, a chiocciola, ma non si sa chi l’abbia fatta e come: non ci sono chiodi e il legno, dicono gli esperti, è di natura sconosciuta. Salita da centinaia di persone ogni giorno dal 1873, non ha alcun segno di usura e chi ci sale avverte una piacevole sensazione di leggerezza. Trentatré gradini con balaustra, è priva di pilone centrale e si regge tutta -cosa fisicamente impossibile- solo sul primo gradino. Quando le suore fecero fare la cappella in stile neogotico l’architetto Mouly semplicemente dimenticò l’accesso al coro. Era già morto quando se ne accorsero. Tutti gli ingegneri consultati dissero che non c’era nulla da fare: non c’era spazio per scale, occorreva abbattere e rifare. Le suore, che avevano esaurito il denaro, ricorsero a s. Giuseppe, cui la cappella era dedicata. Una novena continua, giorno e notte, al patrono dei carpentieri. Il nono giorno bussò alla porta uno sconosciuto che si disse in grado di eseguire l’opera. Lavorò tre mesi. Poi sparì, senza chiedere compenso. Le suore lo cercarono dappertutto ma nessuno lo aveva visto né ne aveva sentito parlare. Rimase il mistero. Che divenne miracolo quando gli esperti poterono esaminare la scala.
Se andate in vacanza negli Usa, è sempre lì.
Rino Camilleri

domenica 5 luglio 2009

VIETATO PREGARE (SOLO AI CRISTIANI) (click)

di Michele Brambilla

La Fifa, cioè il governo mondiale del calcio, ha inviato un «ammonimento» ufficiale alla Federazione brasiliana i cui calciatori, al termine della finale vittoriosa nella recente Confederations Cup in Sudafrica, hanno ringraziato Dio con una preghiera collettiva in mezzo al campo. Una preghiera esplicitamente cristiana, com’ovvio, vista la fede comune in Brasile. La Fifa censura: la religione deve stare alla larga dal calcio.
Non ci sembra una notizia di poco conto. Tuttavia, su giornali e tv ha trovato scarsissimo rilievo. Ci sbaglieremo, ma ieri l’abbiamo vista solo sul Corriere della Sera e su Repubblica. L’articolo del Corriere era ineccepibile. Quello di Repubblica, invece, ci ha fatti sobbalzare sulla seggiola. L’autore, infatti, subito dopo aver descritto il rito messo in scena dai calciatori brasiliani, e dopo aver rimarcato che molti indossavano «magliette alla Kakà (“I belong to Jesus”, appartengo a Gesù)», commenta: «Fosse stata una preghiera islamica, è il caso di dirlo, apriti cielo. Invece la faccenda è passata quasi sotto silenzio, almeno da noi».
Davvero stupefacente lo stravolgimento dei fatti e della realtà. Qui, è il caso di dirlo, è accaduto esattamente il contrario di quel che fa intendere Repubblica. Il cielo si è aperto proprio contro la preghiera cristiana dei brasiliani; mentre nessuno, tantomeno la Fifa, ha detto bah per una manifestazione altrettanto plateale, e anch’essa trasmessa in mondovisione, di pochi giorni prima. E cioè la preghiera islamica dei calciatori egiziani i quali, subito dopo la partita vinta contro l’Italia, hanno pregato in mezzo al campo tutti quanti rivolti alla Mecca, secondo tradizione. Repubblica vuol farci credere che - nonostante l’ammonimento della Fifa - la preghiera cristiana dei brasiliani è passata «sotto silenzio», mentre un’ipotetica preghiera islamica (...)

sabato 4 luglio 2009

LETTERA ENCICLICA "SPE SALVI" (CLICK)

Il testo ufficiale si può leggere cliccando sul titolo.

mercoledì 1 luglio 2009

Il Papa bacchetta i cattolici alla Prodi (click)

Martedì 30 Giugno 2009 13:37 (Andrea Tornielli) Il clamoroso annuncio dell’identificazione dei resti dell’Apostolo delle genti nel sarcofago sotto l’altare della basilica di San Paolo fuori le Mura ha fatto passare in secondo piano, domenica sera, un altro importante passaggio dell’omelia di Benedetto XVI.

Parole nelle quali si può leggere un messaggio diretto in particolare a quei politici cattolici che per rivendicare l’autonomia delle loro scelte in materie eticamente sensibili, anche quando sono in gioco i cosiddetti valori «non negoziabili», si appellano alla loro «fede adulta». Un’espressione simile, come si ricorderà, fu utilizzata nel 2005 da Romano Prodi, il quale, per motivare la sua decisione di votare al referendum sulla fecondazione artificiale in dissenso con l’invito all’astensione lanciato dai vescovi italiani, disse di farlo da «cattolico adulto».

Il Papa ha ricordato come Paolo, nella lettera agli Efesini, abbia spiegato che «non possiamo più rimanere fanciulli in balia delle onde, trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina». L’apostolo «desidera che i cristiani abbiano una fede responsabile, una fede adulta». Ma, ha aggiunto Benedetto XVI, «la parola “fede adulta” negli ultimi decenni è diventata uno slogan diffuso. Lo s’intende spesso nel senso dell’atteggiamento di chi non dà più ascolto alla Chiesa e ai suoi pastori, ma sceglie autonomamente ciò che vuol credere e non credere – una fede fai da te, quindi.

E lo si presenta – ha detto ancora Ratzinger – come “coraggio” di esprimersi contro il magistero della Chiesa». In realtà, ha spiegato il Papa, «non ci vuole per questo del coraggio, perché si può sempre essere sicuri del pubblico applauso. Coraggio ci vuole piuttosto per aderire alla fede della Chiesa, anche se questa contraddice lo schema del mondo contemporaneo. È questo non-conformismo della fede che Paolo chiama una fede adulta. Qualifica invece come infantile il correre dietro ai venti e alle correnti del tempo».

Questa la conclusione del Pontefice: «Così fa parte della fede adulta, ad esempio, impegnarsi per l’inviolabilità della vita umana fin dal primo momento, opponendosi con ciò radicalmente al principio della violenza, proprio anche nella difesa delle creature umane più inermi. Fa parte della fede adulta riconoscere il matrimonio tra un uomo e una donna per tutta la vita come ordinamento del Creatore, ristabilito nuovamente da Cristo. La fede adulta non si lascia trasportare qua e là da qualsiasi corrente. Essa s’oppone ai venti della moda». I riferimenti alla difesa della vita (contro le legislazioni abortiste) e del matrimonio tra uomo e donna (contro l’equiparazione delle nozze gay) suonano come un richiamo preciso per quei politici cattolici del Pd i quali, proprio su queste materie, si sono dichiarati possibilisti se non attivi sostenitori di progetti di legge, come nel caso dei «Dico».

Tutti hanno notato e fatto notare il sostanziale «silenzio» del Vaticano in queste settimane di polemiche che hanno coinvolto il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi per le sue frequentazioni. Ha parlato, con equilibrio, il quotidiano cattolico Avvenire; ha parlato, con molto più clamore, Famiglia Cristiana; sono intervenuti alcuni vescovi chiedendo al premier di chiarire la sua posizione. Ma le vicende legate prima al caso Noemi e poi all’inchiesta barese non hanno avuto alcuno spazio sui media direttamente collegati con la Santa Sede. E quando il Papa ha parlato, analizzando la teologia di San Paolo, ha voluto, invece, criticare proprio l’autonomia invocata in nome della «fede adulta» da parte di alcuni politici cattolici del centrosinistra in materia di «valori non negoziabili». Quei valori la cui difesa, secondo la Chiesa, appare sempre più il fattore decisivo in base al quale valutare l’operato di un politico, al di là dei suoi comportamenti privati, per quanto imbarazzanti. Questo il messaggio che si ricava dai silenzi vaticani e dalle parole, inequivocabili, del Pontefice.