domenica 11 gennaio 2009

FILIPPO FACCI SU DI PIETRO

Tutto quello che Di Pietro non dice sulle sue case.
Anche da spiantato, Antonio Di Pietro ha sempre avuto un debole per case e casette. Il problema è chi fosse a pagarle. L’allora magistrato, dalla fine degli anni Ottanta ai primi anni Novanta, giostrava tra quattro o cinque domicili: il primo lo pagava la moglie, ed era il cascinale di Curno; un secondo lo pagava una banca, ed era l’appartamento di Milano dietro piazza della Scala, affittato a equo canone dal Fondo Pensioni Cariplo; un terzo lo pagava l’ex suo inquisito Antonio D’Adamo, che gli mise a disposizione una garçonnière dietro piazza Duomo fino al 1994; un quarto appartamento, a Curno, a fianco al suo, lo stava finalmente pagando lui: ma coi famosi 100 milioni «prestati» dall’ex inquisito Giancarlo Gorrini. Ci sarebbe un quinto domicilio, a esser precisi: Antonio D’Adamo, che al pari di Gorrini gli prestò altri cento milioni, gli mise a disposizione anche una suite da 5-6 milioni al mese al Residence Mayfair di Roma, dietro via Veneto: questo dal 1989 e per almeno un anno e mezzo. Quest’ultimo fa parte del pacchetto di sterminati favori (soldi, auto per sé e per la moglie, incarichi e consulenze per moglie e amici, impiego per il figlio, vestiario di lusso, telefono cellulare, biglietti aerei, ombrelli, agende, penne, stock di calzettoni al ginocchio) che il duo D’Adamo-Gorrini ebbe a favorirgli via via; nulla di penalmente rilevante, sentenziò incredibilmente la Procura di Brescia una decina di anni fa: comportamenti che tuttavia avrebbero senz’altro portato a delle sanzioni disciplinari se Di Pietro non si fosse dimesso da magistrato. A esser precisi: «Fatti specifici che oggettivamente potevano presentare connotati di indubbia rilevanza disciplinare», recita una sentenza di tribunale, rimasta insuperata, in data 29 gennaio 1998.

Ma anche i retroscena di acquisti immobiliari all’apparenza normali, come quello della casa di Curno dove l’ex magistrato risiede tuttora, rivelano come Di Pietro fosse già Di Pietro.
Un salto all’indietro ed eccoci al tardo 1984. A Curno, in via Lungobrembo, zona Marigolda, Di Pietro aveva adocchiato un immobile diroccato: una volta risistemato, lui e la sua futura seconda moglie, Susanna Mazzoleni, avrebbero potuto viverci assieme. Fu lei a contattare il proprietario, Leone Zanchi, un contadino che di quel rudere non sapeva che farsene; ogni intervento diverso dalla cosiddetta «manutenzione straordinaria», infatti, gli era proibito dal piano regolatore. Accettò dunque di vendere il casolare per trentacinque milioni, e il 17 aprile 1985 Susanna Mazzoleni ereditò la concessione edilizia richiesta dallo Zanchi pochi giorni prima, come detto una «manutenzione straordinaria».

La provvidenza farà il resto. La cascina verrà sventrata, ugualmente, dopo l’accidentale crollo di un muro che nottetempo trascinerà con sé tutta la casa. Questo, almeno, scrisse l’architetto Angelo Gotti in data 7 maggio, giorno seguente all’inizio dei lavori che curava personalmente. «Del vecchio fabbricato», notarono due periti comunali, «è rimasto solo il muro a est, la restante parte non c’è più». Susanna Mazzoleni sarà quindi costretta a chiedere di ricostruire tutta la cascina come Zanchi non aveva potuto fare. La provvidenza, appunto. Va da sé che l’ex proprietario andò fuori dalla grazia di Dio, e cominciò a piantar grane tirando in ballo anche Di Pietro. Sulla scrivania dell’assessore competente, Roberto Arnoldi, si materializzò un esposto anonimo di cui non venne fatta copia, né venne passato alle autorità, né finì nel cestino: Arnoldi lo spedì direttamente ai coniugi Di Pietro. Non solo. Arnoldi si fece stranamente attivo e preparò una missiva diretta ai gruppi consiliari, liquidando l’ex proprietario come un beota e parlando di «strumentalizzazione» ai danni del magistrato. Scrisse il 22 maggio: «Di Pietro non risulta tra gli interessati alla concessione, né legato agli stessi da vincoli di parentela». Una bella forzatura, visto che Di Pietro in quella casa andrà a viverci col figlio e con la futura moglie.
Ma i particolari curiosi sono altri. Il primo si ricava dalla missiva di Arnoldi: non è lui, infatti, a scriverla, bensì è direttamente l’architetto Angelo Gotti, teste di parte e incaricato dalla Mazzoleni di ristrutturare il cascinale. Assurdo. «Caro Arnoldi», rivela difatti una nota erroneamente dimenticata, «ti trasmetto copia della risposta all’anonimo... non avendo gli esatti indirizzi, ho ritenuto opportuno impostare la risposta in modo tale che tu debba solo far preparare la prima pagina». Fantastico. Secondo particolare curioso: il nome di Arnoldi forse a qualcuno suonerà familiare, perché nel 1997 diventerà capo di gabinetto dei Lavori pubblici presieduti da Di Pietro. Trattasi di «quel certo Arnoldi», come lo definì l’ex magistrato Mario Cicala, di cui Arnoldi oltretutto prese il posto, che per qualche tempo fu anche una sorta di portavoce di Antonio Di Pietro nei rapporti con la stampa.

Ma torniamo al casolare. Era passato un po’ di tempo e l’avvocato Mario Benedetti, richiesto di un parere, si dichiarò favorevole alla variante chiesta da Susanna Mazzoleni: purché rispettasse le volumetrie preesistenti. Bocciò, invece, la pretesa costruzione di una serie di garage e lasciò intravedere, comunque fosse andata, la possibilità di una sanatoria edilizia.
I lavori proseguirono a dispetto di qualche rogna. Il sindaco di Curno, Franco Gasperini, si ritrovò due rapporti (16 e 19 dicembre 1988) dove si rilevava «una baracca di legno alta tre metri e mezzo senza autorizzazione del sindaco, d’altra parte mai richiesta». È il capanno degli attrezzi già caro a Tonino Di Pietro, una sorta di leggenda dei tempi di Mani pulite. Il sindaco a quel punto chiese di consultare la «pratica Mazzoleni-Di Pietro», ma «nella ricerca si verificava che era stata fatta un’ulteriore richiesta, del proprietario, di una piscina», scrisse il 30 dicembre, «ma tale fascicolo non veniva ritrovato». Il rapporto di un agente spiegava che risultava «asportato o trafugato». È tutto nero su bianco.
Ma Di Pietro è Di Pietro. Il 3 gennaio 1989 intervenne con una lettera delle sue: «Non ho mai intrattenuto rapporti con alcuno dell’amministrazione comunale... Invito a voler evitare di considerarmi inopinatamente parte in causa... sono venuto a conoscenza che il predetto Zanchi avrebbe riportato frasi calunniose nei miei confronti... sono a richiedervi copia dell’esposto al fine di provvedere a tutelare la mia onorabilità nelle sedi più opportune». Querelava anche allora. E spiegava di non conoscere l’assessore Roberto Arnoldi: anche se nel 1996 lo sceglierà come suo capo di Gabinetto ai Lavori Pubblici.

I documenti scomparsi comunque riapparvero improvvisamente, anche se una nuova perizia, purtroppo, confermava «una costruzione in legno con caratteristiche strutturali tali da violare le norme». Il 25 gennaio venne chiamato a esprimersi un altro avvocato, Riccardo Olivati: dichiarò «sconcerto» per le «sparizioni strane e riapparizioni magiche di documenti» e definì la citata lettera di Arnoldi (quella in realtà fatta scrivere all’architetto Gotti) come «prassi da non ripetere per evitare sospetti di parzialità». E Di Pietro? C’entrava qualcosa? Olivati scrisse che andava eventualmente «segnalato all’autorità giudiziaria», spiegò, solo se «risultasse con prova certa... ha contribuito alla costruzione materiale del manufatto». Il capanno di legno, cioè.
Costruzione «materiale» del capanno di legno. Per fortuna che non era ancora uscita un’agiografia su Di Pietro del 1992, perché vi si legge proprio questo: «Nella villetta dove abita, a Curno, fin dall’inizio ha progettato e poi realizzato con le proprie mani un capanno degli attrezzi che è il suo regno assoluto e intoccabile».
Per la cronaca: la villetta ha due piani, otto stanze e una taverna.
(1. Continua)

Il vizietto, quando Tonino si faceva dar casa dai suoi inquisiti.
Antonio Di Pietro, verso la fine degli anni Ottanta, non aveva una fama stupenda. Certi suoi trascorsi l’avevano accompagnato sin lì. «Tu gli giri sempre intorno, ai politici, ma non li prendi mai» gli diceva per esempio Elio Veltri, che lo conobbe in quel periodo e che scriverà di lì a poco: «Confesso che qualche volta ho dei dubbi, perché nelle inchieste non arriva mai ai politici. I loro furti sono così evidenti e la loro certezza di impunità così sfacciata, che si fatica a pensare che non si possa incastrarli».
Le perplessità, condivise da molti cronisti giudiziari, erano legate perlopiù alla rumorosissima inchiesta sull’Atm (Azienda trasporti milanesi) di cui presidente era il democristiano Maurizio Prada e vicepresidente il socialista Sergio Radaelli. Tra le sigle di un libro mastro delle tangenti spiccavano in particolare «Riva» (che i più ricollegarono a Luciano Riva Cambrin, uomo di Prada) e poi «Radaelli» e «Rad» che era associato spesso a certo «Lupi» (che i più ricollegarono ad Attilio Lupi, uomo di Radaelli). Dunque Prada e Radaelli, pensarono tutti: si era profilato dunque il rischio che Di Pietro incontrasse di giorno gli amici che già frequentava la sera. Prada e Radaelli, infatti, facevano parte di un giro di frequentazioni ad ampio raggio (il sindaco Pillitteri, l’ex questore Improta, l’industriale Maggiorelli, il capo dei vigili Rea tra moltissimi altri) che aveva fatto tappa anche nella casa di Curno dell’allora magistrato, quella descritta nella puntata di ieri. Non mancava, ovviamente, l’industriale Giancarlo Gorrini e tantomeno «Dadone», ossia il costruttore Antonio D'Adamo: che fanno insieme, più di duecento milioni «prestito» beneficiato da Di Pietro. E son valori.
Morale: tre giorni dopo che l’impaziente Repubblica aveva esplicitato i nomi che tutti aspettavano (Prada e Radaelli) Di Pietro decise di stralciare le loro posizioni dalla sua inchiesta. La posizione di Radaelli, in particolare, sarà poi archiviata su richiesta di Di Pietro. Le responsabilità del cassiere socialista saranno appurate solo qualche anno dopo. Per farla breve: Di Pietro archiviò, ma Radaelli era colpevole.
Perché questo racconto? Per delineare, quantomeno, un conflitto d'interesse: proprio in quei giorni, quando il gip non aveva ancora accolto l’archiviazione chiesta da Di Pietro per Radaelli, l’allora magistrato ebbe a disposizione un appartamento concesso a equo canone dal Fondo pensioni Cariplo per 234 mila lire il mese, comprese le spese di ristrutturazione: questo in Via Andegari, dietro Piazza della Scala. Un sogno. L’ex sindaco Paolo Pillitteri ha raccontato che Di Pietro si rivolse dapprima a lui, senza successo, ma che gli consigliò di chiedere a Radaelli che allora era consigliere della Cariplo in predicato di vicepresidenza.
Di fatto andò così: il direttore della Cariplo ebbe la dritta per trovare casa a Di Pietro (non si sa ufficialmente da chi) e incaricò un funzionario di provvedere. Quest’ultimo accompagnò Di Pietro in via Andegari, e tutto bene. Venne preparato il contratto che poi venne chiuso in cassaforte. Come si dice: alla luce del sole.
I 20 milioni circa delle spese di ristrutturazione vennero ricaricati sull’equo canone, che salì da poco più di 100mila il mese a 234mila. L’assegnazione fu anomala a dir poco: non tanto perché venne ignorata ogni graduatoria d’attesa (nell'Italia dei favori è normale, anche se illecito) ma perché venne saltata di netto l’apposita commissione affittanze, che si limitò a ratificare una decisione calata dall’alto. Il rapporto è ancora lì, anche se non reca il nome del destinatario: è rimasto in bianco.
Parentesi: agli appartamenti del Fondo pensioni Cariplo, allora più di oggi, accedevano solo i raccomandati di ferro. Tra i magistrati, per dire, ne ebbe uno solo il procuratore generale della Repubblica Giulio Catelani. La maggior parte dei magistrati normali (quelli che non ritengono di dover pagare un affitto normale, cioè) a Milano sono raggruppati nelle case comunali di viale Montenero 8. Il Fondo pensioni, inoltre, è pubblico. È regolato con decreto del presidente della Repubblica. Insomma: fu un privilegio da signori concesso dalla Cariplo di Radaelli, grande miracolato dell’inchiesta Atm. È un fatto. Penalmente irrilevante, direbbe Di Pietro.
Quella dell’appartamento è una vecchia polemica. Di fronte alle prime malizie, nel luglio 1993, il procuratore capo Borrelli replicò che al Tribunale di Milano esisteva un ufficio che procurava case «ai magistrati che vengono da fuori». Tale ufficio risulta inesistente, e vi è comunque da escludere che fosse adibito a trovar casa ai figli dei magistrati: difatti in via Andegari c’era andato a stare Cristiano Di Pietro, e questo nonostante il contratto vietasse tassativamente qualsiasi tipo di subaffitto. Il magistrato risiedeva appunto a Curno e nel bilocale dormiva solo ogni tanto, quando non tornava dalla moglie o quando non preferiva la pur disponibile garçonnière di D’Adamo, distante poche centinaia di metri. In sostanza, Di Pietro aveva tre case.
La sua difesa, nella circostanza, è stata davvero goffa. «Radaelli», disse in un libro, «non c’entra nulla nella storia della casa... è abitudine, qui alla Procura, che quando viene un nuovo magistrato gli si cerchi una casa». Falso, come visto: Di Pietro ufficialmente stava a Curno. Di seguito ammise di essersi rivolto a Pillitteri e poi alla Cariplo (senza menzionare Radaelli) ma per una casa dove potesse abitare il figlio: «A diciotto anni decisi di prendergli una casa, non potendola comprare». Strano anche questo: proprio in quel periodo si era fatto «prestare» i famosi cento milioni dall’ex inquisito Giancarlo Gorrini sempre per comprare una casa al figlio: Di Pietro l’ha messo a verbale. Difatti la comprò: un lotto a mutuo agevolato a Curno (accanto alla sua, in via Lungobrembo) per centocinquanta milioni in contanti, mai passati per banca: alla luce del sole anche questo. In sintesi, le case sono quattro. Una, a Curno, la pagava la moglie, perlomeno allora. Un’altra, in via Andegari, la pagava la Cariplo di Radaelli. Un’altra ancora, utilizzata da altri come rifugio per scappatelle, era la garçonnière di via Agnello 5, con entrata anche da via Santa Radegonda 8, sopra la Edilgest di Antonio D’Adamo: quaranta metri quadri al sesto piano, all’interno di una torretta piazzata in mezzo a un terrazzone con vista sul Duomo. All’interno, una boiserie rivestita in legno, camera da letto, soggiornino e zona pranzo semicircolare. D’Adamo è l’ex inquisito che «prestò» a Di Pietro altri cento milioni, oltreché elargirgli vestiti alla boutique Tincati di corso Buenos Aires, un telefono, una Lancia Dedra e altri infiniti privilegi della D’Adamo card. Aggiungiamo (e fanno cinque) la disponibilità di una suite al residence Mayfair di via Sicilia 183, Roma, dietro via Veneto: roba da cinque o sei milioni al mese pagati da D’Adamo che staccava assegni anche per i relativi biglietti aerei Milano-Roma-Milano (una quindicina) acquistati all’agenzia Gulliver di via San Giovanni sul Muro.
«La Cariplo», si legge in un vecchio memoriale di Antonio Di Pietro, «ha reso pubblico, con il mio consenso, l’entità effettiva del canone, a dimostrazione della falsità delle accuse di favoritismo». E queste sono balle spaziali. I dati sull’appartamento, in realtà, sono noti solo perché tre giornalisti (lo scrivente tra questi) ci scavarono per mesi. Non fu certo Di Pietro a rendere noto lo schedario degli immobili Cariplo a pagina 531: contratto intestato a Di Pietro Antonio, 65 metri quadri calpestabili (70 commerciali), 230 metri cubi a un canone annuo di 2.817.039, ossia 234.753 il mese. Infine: non è mai stato chiaro perché Di Pietro, se tutto era davvero lecito o normale, non appena la storia prese a circolare abbandonò l’appartamento in fretta e furia. Per usare il gergo del suo amico Travaglio: come un ladro.
(2. Fine)

3 commenti:

Luchy ha detto...

Ci vuole anche la "puntata" precedente, Ambra.

Ciao.

p.s. Se non la trovi, dimmelo.

Luchy ha detto...

Eccolo, ciao.


sabato 10 gennaio 2009, 07:00

Tonino, il pm che speculava sui ruderi mentre gli inquisiti gli fornivano case
Di Filippo Facci



Anche da spiantato, Antonio Di Pietro ha sempre avuto un debole per case e casette. Il problema è chi fosse a pagarle. L’allora magistrato, dalla fine degli anni Ottanta ai primi anni Novanta, giostrava tra quattro o cinque domicili: il primo lo pagava la moglie, ed era il cascinale di Curno; un secondo lo pagava una banca, ed era l’appartamento di Milano dietro piazza della Scala, affittato a equo canone dal Fondo Pensioni Cariplo; un terzo lo pagava l’ex suo inquisito Antonio D’Adamo, che gli mise a disposizione una garçonnière dietro piazza Duomo fino al 1994; un quarto appartamento, a Curno, a fianco al suo, lo stava finalmente pagando lui: ma coi famosi 100 milioni «prestati» dall’ex inquisito Giancarlo Gorrini.



Ci sarebbe un quinto domicilio, a esser precisi: Antonio D’Adamo, che al pari di Gorrini gli prestò altri cento milioni, gli mise a disposizione anche una suite da 5-6 milioni al mese al Residence Mayfair di Roma, dietro via Veneto: questo dal 1989 e per almeno un anno e mezzo. Quest’ultimo fa parte del pacchetto di sterminati favori (soldi, auto per sé e per la moglie, incarichi e consulenze per moglie e amici, impiego per il figlio, vestiario di lusso, telefono cellulare, biglietti aerei, ombrelli, agende, penne, stock di calzettoni al ginocchio) che il duo D’Adamo-Gorrini ebbe a favorirgli via via; nulla di penalmente rilevante, sentenziò incredibilmente la Procura di Brescia una decina di anni fa: comportamenti che tuttavia avrebbero senz’altro portato a delle sanzioni disciplinari se Di Pietro non si fosse dimesso da magistrato. A esser precisi: «Fatti specifici che oggettivamente potevano presentare connotati di indubbia rilevanza disciplinare», recita una sentenza di tribunale, rimasta insuperata, in data 29 gennaio 1998.


Ma anche i retroscena di acquisti immobiliari all’apparenza normali, come quello della casa di Curno dove l’ex magistrato risiede tuttora, rivelano come Di Pietro fosse già Di Pietro.
Un salto all’indietro ed eccoci al tardo 1984. A Curno, in via Lungobrembo, zona Marigolda, Di Pietro aveva adocchiato un immobile diroccato: una volta risistemato, lui e la sua futura seconda moglie, Susanna Mazzoleni, avrebbero potuto viverci assieme. Fu lei a contattare il proprietario, Leone Zanchi, un contadino che di quel rudere non sapeva che farsene; ogni intervento diverso dalla cosiddetta «manutenzione straordinaria», infatti, gli era proibito dal piano regolatore. Accettò dunque di vendere il casolare per trentacinque milioni, e il 17 aprile 1985 Susanna Mazzoleni ereditò la concessione edilizia richiesta dallo Zanchi pochi giorni prima, come detto una «manutenzione straordinaria».


La provvidenza farà il resto. La cascina verrà sventrata, ugualmente, dopo l’accidentale crollo di un muro che nottetempo trascinerà con sé tutta la casa. Questo, almeno, scrisse l’architetto Angelo Gotti in data 7 maggio, giorno seguente all’inizio dei lavori che curava personalmente. «Del vecchio fabbricato», notarono due periti comunali, «è rimasto solo il muro a est, la restante parte non c’è più». Susanna Mazzoleni sarà quindi costretta a chiedere di ricostruire tutta la cascina come Zanchi non aveva potuto fare. La provvidenza, appunto. Va da sé che l’ex proprietario andò fuori dalla grazia di Dio, e cominciò a piantar grane tirando in ballo anche Di Pietro. Sulla scrivania dell’assessore competente, Roberto Arnoldi, si materializzò un esposto anonimo di cui non venne fatta copia, né venne passato alle autorità, né finì nel cestino: Arnoldi lo spedì direttamente ai coniugi Di Pietro. Non solo. Arnoldi si fece stranamente attivo e preparò una missiva diretta ai gruppi consiliari, liquidando l’ex proprietario come un beota e parlando di «strumentalizzazione» ai danni del magistrato. Scrisse il 22 maggio: «Di Pietro non risulta tra gli interessati alla concessione, né legato agli stessi da vincoli di parentela». Una bella forzatura, visto che Di Pietro in quella casa andrà a viverci col figlio e con la futura moglie.



Ma i particolari curiosi sono altri. Il primo si ricava dalla missiva di Arnoldi: non è lui, infatti, a scriverla, bensì è direttamente l’architetto Angelo Gotti, teste di parte e incaricato dalla Mazzoleni di ristrutturare il cascinale. Assurdo. «Caro Arnoldi», rivela difatti una nota erroneamente dimenticata, «ti trasmetto copia della risposta all’anonimo... non avendo gli esatti indirizzi, ho ritenuto opportuno impostare la risposta in modo tale che tu debba solo far preparare la prima pagina». Fantastico. Secondo particolare curioso: il nome di Arnoldi forse a qualcuno suonerà familiare, perché nel 1997 diventerà capo di gabinetto dei Lavori pubblici presieduti da Di Pietro. Trattasi di «quel certo Arnoldi», come lo definì l’ex magistrato Mario Cicala, di cui Arnoldi oltretutto prese il posto, che per qualche tempo fu anche una sorta di portavoce di Antonio Di Pietro nei rapporti con la stampa.


Ma torniamo al casolare. Era passato un po’ di tempo e l’avvocato Mario Benedetti, richiesto di un parere, si dichiarò favorevole alla variante chiesta da Susanna Mazzoleni: purché rispettasse le volumetrie preesistenti. Bocciò, invece, la pretesa costruzione di una serie di garage e lasciò intravedere, comunque fosse andata, la possibilità di una sanatoria edilizia.
I lavori proseguirono a dispetto di qualche rogna. Il sindaco di Curno, Franco Gasperini, si ritrovò due rapporti (16 e 19 dicembre 1988) dove si rilevava «una baracca di legno alta tre metri e mezzo senza autorizzazione del sindaco, d’altra parte mai richiesta». È il capanno degli attrezzi già caro a Tonino Di Pietro, una sorta di leggenda dei tempi di Mani pulite. Il sindaco a quel punto chiese di consultare la «pratica Mazzoleni-Di Pietro», ma «nella ricerca si verificava che era stata fatta un’ulteriore richiesta, del proprietario, di una piscina», scrisse il 30 dicembre, «ma tale fascicolo non veniva ritrovato». Il rapporto di un agente spiegava che risultava «asportato o trafugato». È tutto nero su bianco.


Ma Di Pietro è Di Pietro. Il 3 gennaio 1989 intervenne con una lettera delle sue: «Non ho mai intrattenuto rapporti con alcuno dell’amministrazione comunale... Invito a voler evitare di considerarmi inopinatamente parte in causa... sono venuto a conoscenza che il predetto Zanchi avrebbe riportato frasi calunniose nei miei confronti... sono a richiedervi copia dell’esposto al fine di provvedere a tutelare la mia onorabilità nelle sedi più opportune». Querelava anche allora. E spiegava di non conoscere l’assessore Roberto Arnoldi: anche se nel 1996 lo sceglierà come suo capo di Gabinetto ai Lavori Pubblici.


I documenti scomparsi comunque riapparvero improvvisamente, anche se una nuova perizia, purtroppo, confermava «una costruzione in legno con caratteristiche strutturali tali da violare le norme». Il 25 gennaio venne chiamato a esprimersi un altro avvocato, Riccardo Olivati: dichiarò «sconcerto» per le «sparizioni strane e riapparizioni magiche di documenti» e definì la citata lettera di Arnoldi (quella in realtà fatta scrivere all’architetto Gotti) come «prassi da non ripetere per evitare sospetti di parzialità». E Di Pietro? C’entrava qualcosa? Olivati scrisse che andava eventualmente «segnalato all’autorità giudiziaria», spiegò, solo se «risultasse con prova certa... \ ha contribuito alla costruzione materiale del manufatto». Il capanno di legno, cioè.



Costruzione «materiale» del capanno di legno. Per fortuna che non era ancora uscita un’agiografia su Di Pietro del 1992, perché vi si legge proprio questo: «Nella villetta dove abita, a Curno, fin dall’inizio ha progettato e poi realizzato con le proprie mani un capanno degli attrezzi che è il suo regno assoluto e intoccabile».
Per la cronaca: la villetta ha due piani, otto stanze e una taverna.
(1. Continua)

ambra ha detto...

Repetita juvant, Luchy, non ci far caso: è solo colpa dell'influenza.